Vila-Matas si rifà al fascino malinconico del primo romanzo di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, il cui protagonista andava alla ricerca del leggendario Bobi Bazlen, lettore di tutti i libri e scrittore di “note senza testo”, persuaso che ormai non si possa più scrivere, forse per l’esaurirsi delle possibilità della scrittura come reale esperienza. Di Del Giudice Vila-Matas sembra recuperare proprio il dettato uniforme e attonito, di trattenuto lirismo e asciutta intimità, salvo che nei momenti  di parodia (dove, ad esempio, parlando di Beckett ne mima lo stile, oppure nel capitoletto dedicato a Salinger). Altro scrittore italiano a cui si avvicina è  Tabucchi.

Sicuro che “ormai è solo la via del negativo che può aprire un rinnovamento per la letteratura”, Vila-Matas arriva a constatazioni illuminanti che ricalcano Blanchot, scoprendo che “non può esistere un’essenza di queste note, così come non esiste un’essenza della letteratura, proprio perché l’essenza di qualunque testo consiste nel negarsi a ogni determinazione essenziale, a ogni definizione che lo stabilizzi o realizzi. (…) Chi afferma la letteratura in quanto tale, non afferma niente. Chi la cerca, cerca solo ciò da cui fugge, chi la trova, trova solo ciò che c’è qui o, peggio, oltre la letteratura. Perché, alla fin fine, ogni libro persegue la non-letteratura come essenza di ciò che vuole e vorrebbe appassionatamente scoprire.”

Un indizio del senso di questa ricerca (ma all’inverso: dalla non-letteratura alla letteratura) sembra focalizzato nella parte centrale del libro, nel parallelo tra il Bartleby di Melville e lo stesso Melville nel periodo più difficile della sua vita, costretto dall’insuccesso letterario alle mansioni di semplice segretario. Si può pensare che descrivendo Bartleby  Melville abbia esorcizzato in anticipo la propria sindrome.

 Il protagonista in forma d’autore si identifica con l’oggetto della sua rapsodica narrazione. Anche lui scrittore che non scrive (a venticinque anni ha scritto “un romanzo sull’impossibilità dell’amore” e ha poi taciuto per vent’anni), paga pedaggio alla tentazione del silenzio e alle retoriche della postumità fantasticando l’ultimo scrittore dell’umanità: “quello con cui svanirà (…), senza che nessuno possa essere presente, il piccolo mistero della letteratura. (…) Guidato dalla stella della mia malinconia, l’ho visto mentre sentiva affievolirsi dentro di sé la parola – l’ultima di tutte – che morirà per sempre insieme a lui”.

I testi cardine del bartlebysmo, enigmatici addii alla letteratura o confessioni d’impotenza come la Lettera di Lord Chandos, rimandano a uno stato di crisi di asimbolia, a un vuoto disincanto nei confronti delle parole. Oppure a una rivoluzione totale che identifica nella scrittura stessa, vizio assurdo, evocazione di fantasmi, l’ostacolo sostanziale alla conquista di una vita autentica. In uno dei più intensi e misconosciuti fra questi scritti, L’Educazione dello Stoico di Fernando Pessoa, si attribuisce la causa dell’abbandono allo “scrupolo della precisione, l’intensità dello sforzo di essere perfetti”… L’esaurimento della creatività, in cui può non esservi mistero né rinuncia, c’entra poco o nulla nella geometria del bartlebysmo; il caso notevole, piuttosto, è quello degli scrittori che hanno barattato letteratura con realtà: il mistero del loro silenzio può anche essere un falso mistero, qualora “i piaceri peculiari della sintassi” siano stati sostituiti, ad esempio, da quelli del commercio (secondo Vila-Matas è il caso di Rimbaud). In altri non-più-scrittori la maledizione dell’autoanalisi si fonde a una sofferenza sorda, o al limite indifferenza, per la vita precedente… Si tratta di problemi che con difficoltà trovano soluzione nel solo ambito teorico, e andrebbero verificati sulla vicenda  personale. Probabilmente dovremo farci bastare la sentenza di Pessoa in una sua poesia: “Il sole splende senza letteratura”.

 Di certo in questo garbuglio psichico c’entra anche la libertà, non incosciente ma ipercosciente,  di sabotare speranze e attese, di remare contro il proprio talento ed anche contro se stessi, di deludere platealmente le voraci bocche mediocri sempre lì a chiederti “cosa stai preparando”. Ma se il no diventa pura e semplice ideologia, la vita si chiude in un suicidio in effigie, malattia mortale, ed ecco le porte aperte alla paralisi. Lo scrivano Bartleby è peraltro il contrario del suicida: lui padroneggia splendidamente la situazione, quasi rifiutando di prendere sul serio le sue disgrazie, divenendo perfetta espressione (perfetta in quanto non spiega se stessa) della morale dell’abdicazione.

Alla fine del suo percorso il collezionista di bartleby deve rendersi conto che c’è una grazia, un mistero dell’ambizione e della fiducia espressiva – capace di capovolgersi, altrettanto misteriosamente, in un rifiuto, una reticenza: chiude il libro la figura del vecchio Tolstoj, che abbandona la sua casa come le parole abbandonano un uomo.

 Rêverie crepuscolare, florilegio d’aneddoti o viatico per una solitudine letteratissima, popolata di presenze capricciose ed elusive, questo libro esplora la loquacità del silenzio. Eppure fra loro i libri, per occulte corrispondenze, si parlano; qualche volta, facendo attenzione, càpita di intendere una voce… Un uomo intelligente non può diventare nulla, sussurra dal sottosuolo un topo di nome Dostoevskij; sì, ma quest’inferiorità dell’intelligenza tocca tuttavia all’intelligenza stabilirla, risponde la civetta Proust nella sua mansarda foderata di sughero.

(dalle interviste di Vila-Matas)

“Capii che se volevo davvero uccidere i miei lettori, dovevo dar loro le spalle, come Miles Davis nei suoi concerti”

“Non saprò mai chi sono, proprio per colpa della scrittura”

“Stia attento, il mio cognome è l’anagramma di Satam alive

 

Autore:

Fabio Pedone 

 
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