Il Paesano di Parigi , Louis Aragon (Il Saggiatore)

"Libertà mia, come mi s'imprigiona in tuo nome. Alla fine tali luoghi sono così calmi, si direbbero un altro paese, qualche civiltà lontana, ah non mi parlate di viaggi. Bisogna essere sprovvisti di frenesia per entrare ai bagni senza persuadersi subito che si entra in pieno enigma!"

Questo libro, ancora non compreso per il suo reale valore, porta la data del 1926, e appartiene al momento più autentico e innovativo del Surrealismo francese; ma gli stessi surrealisti, nell'offrire una sistemazione storica dell'attività del movimento, lo relegheranno in posizione marginale, e persino l'autore se ne distaccherà non molti anni dopo, come a disconoscere un capriccio, appunto, "di gioventù". Si dà il caso che quella fosse la gioventù del Surrealismo intero, ancora fresco e irregolare all'inizio degli anni '20, né in rotta con quei cani sciolti che gli avevano e avrebbero dato una durevole parte di poesia (Artaud, Char, Desnos). Siede saldamente in trono l'Immaginazione, "regina di tutte le facoltà" secondo il detto di Baudelaire.
Più di un poema, ma non ancora romanzo, il Paysan tende a rompere gli schemi di genere tramite il montaggio spregiudicato di materiali eterogenei: narrazione, divagazione lirica, articoli di giornale, manifesti, cartelli, avvisi pubblicitari, dialoghi da commedia, canzonette, giochi di parole. Il Paysan ne è il soggetto principe, e Parigi è il suo paese: protagonisti sono i luoghi di Parigi, luoghi di frequentazione quotidiana come bagni, caffè, botteghe di lustrascarpe o parrucchieri in cui il flaneur si getta alla ricerca del sogno, dell'allucinazione semplice, della vertigine del moderno - la quale fa leva, per scatenarsi, sulla fascinazione dell'effimero, su un gioioso orbitare dell'immaginazione attorno agli oggetti più consueti e più esotici che popolano le vetrine nei passages, strade coperte in vetro in cui l'ebbrezza della folla cittadina si confonde con la suggestione dell'intérieur, salotto o galleria.
Libera mente che sogna, puro occhio che guarda e si vuole svincolato da ogni metafisica per cogliere l'essenza di ogni oggetto dentro l'oggetto stesso, nella sua speciale contingenza, il flaneur è il virtuoso della distrazione che era stato al centro della meditazione di Baudelaire nei poemi in prosa dello Spleen di Parigi e negli ultimi scritti. Il suo sguardo leggero e vagante coglie la città ora come stanza, ora come paesaggio; le vetrine si aprono a rivelare dèmoni e sirene in un lucore subacqueo, un portone che dà sulla strada è una grotta infera aperta su una baia, "nuovi miti nascono continuamente sotto i nostri passi". L'ottica del sogno investe permanentemente gli oggetti della veglia, un angolo di bar può risvegliare uno choc. Il Paysan cerca la fuga dalla prigione delle percezioni univoche, lottando contro la tirannia del concetto e il delirio della logica, contro l'uso razionale della ragione che mortifica l'immaginazione e impoverisce la vita; e già dalle prime pagine aspira alla vanificazione, più che al superamento, del dualismo intelletto/ conoscenza sensibile. La realtà viene continuamente persa e riguadagnata al tavolo dell'immaginazione - puntando su parole guida come brivido, caso, mistero, immagine.
L'immagine è più viva del concetto perché in essa sopravvive l'irriducibile incertezza del reale. Per l'accidioso epos del Paysan, inesausto suscitatore di immagini nella città moderna, non c'è porto se non il mare aperto, e il suo culmine sarà la riconquista dell'unità mistica tra soggetto e mondo nel finale del libro, Il Sogno del Paesano, in cui la fantasmagoria del reale approda ad una illuminazione profana, destituita di ogni teologia. Più volte la frase aragoniana riverbera le formule attonite del Rimbaud alchimista del verbo ("Gli uomini vivono a occhi chiusi in mezzo a precipizi magici"), mentre Lautréamont e la sua musa catalogica, spoglia però di crudeltà, sovrintendono agli elenchi e agli stupendi vocativi con cui il poeta chiama in causa, nella lode, le forme del mondo: "Ho conosciuto capelli di resina, capelli di topazio, dei capelli d'isterismo. Biondo come l'isterismo, biondo come il cielo, biondo come la fatica, biondo come il bacio. Sulla tavolozza delle biondezze, metterei l'eleganza delle automobili, l'odore dei trifogli, il silenzio delle mattinate, le perplessità dell'attesa, gli sfioramenti rovinosi. Com'è biondo il rumore della pioggia, com'è biondo il canto degli specchi!" Posta sotto la tutela di simili potenti ombre, ricca di una non colpevole ingenuità, l'opera di Aragon va riconosciuta come un classico dell'avanguardia, ed è forse il miglior antidoto ad un'epoca, la nostra, in cui la vertigine del moderno infine scema/sfuma nell'estasi del consumo, e in un'ansia di normalità che nega all'individuo di sognare i propri stessi sogni, per farlo scivolare insensibilmente nel vuoto sintetico dei sogni imposti dal Padrone.

Autore:
Fabio Pedone

 
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