La
Via per l'Oxiana
, Robert Byron (Adelphi)
"Yazd
si distingue dalle altre città della Persia. Non possiede,
per proteggersi dalle impervie terre desertiche che la circondano,
una cintura di giardini o di fresche cupole azzurre. Città
e deserto hanno in comune il colore e la sostanza: la prima è
il frutto del secondo, e le alte torri di ventilazione, che attestano
il calore che vi domina, sono il genere di foresta che può
crescere naturalmente nel deserto."
Nel
settembre 1941 una bananiera inglese diretta in Egitto fu silurata
al largo della Scozia settentrionale; su quella nave che lo stava
portando per l'ennesima volta in Oriente moriva a trentacinque anni
Robert Byron. Era già famoso per la sua cultura e l'originalità
dei suoi giudizi: lodava il senso della realtà nella religiosità
ortodossa ("Santa Sofia è una chiesa per Dio; San Pietro,
un salotto per i suoi rappresentanti"); avversava animosamente
la scultura greca classica, Rembrandt e Shakespeare, e quando qualcuno
gli disse che il figlio di un droghiere non poteva aver scritto
quei drammi, lui sibilò: <<E' esattamente il genere
di drammi che mi aspetterei da un droghiere>>. Incuriosito
dalla fotografia di una torre funeraria selgiuchide nella steppa
turkmena, nel 1933 il gentleman, "linguaccia" ed esteta
partì per un viaggio attraverso Iran e Afghanistan alla ricerca
delle origini dell'architettura islamica. Ne verrà fuori
uno tra i migliori libri di viaggio del XX secolo, elevato da Bruce
Chatwin al rango di testo sacro, "al di sopra di ogni critica".
Scrive Chatwin in Lamento per l'Afghanistan: "
costruire
dalla pietra, dai mattoni e dalle piastrelle una prosa che non solo
sia leggibile ma trascini il lettore a un'autentica esaltazione
richiede qualità di altissimo calibro. Questa è l'impresa
di Byron."
Dall'uomo/ spettatore medio(cre) e sempre più mediatico dell'Occidente
odierno, quella parte di mondo che Byron percorse settant'anni fa
sarà stata percepita finora come terra incognita senza storia
apparente, i cui leones si sono semmai imposti all'attenzione, e
all'occhio perenne delle telecamere, con la forza delle tragedie
che fanno storia; ma chi sa che è esistito un Rinascimento
afghano all'altezza del nostro Quattrocento? Chi conosce le dispute
sull'uso letterario del persiano classico o del turkmeno, chi ha
letto le memorie di Babur o contemplato le miniature di Herat? Chi
sa che Duke Ellington concluse proprio a Kabul l'ultima tournée
della sua vita? No, quelle terre appartengono a una storia sentita
ed esperita come estranea, e tanto è bastato a cancellarle
dalla nostra labile coscienza . A noi rifulse la sempiterna luce
dei mass media, e in questa luce, ferma e un po' mortuaria, sicuramente
idiota, noi stiamo dalla parte giusta del televisore, cullati dalla
Ragione.
Qualche consolazione d'ordine immaginativo, se non proprio apertura
mentale, potremo trarla dalla preziosa prosa di Robert Byron, che
guarda all'architettura come a un organismo vivente, senza per questo
fare dei popoli una mera architettura della storia. Non deve ingannare
il genere "nota di diario": siamo davanti a una scrittura
tanto rapida quanto ricca, in cui il particolare significativo brilla
di luce totale (come un ritratto riassunto con tre pennellate nell'angolo
di un telero di Tintoretto); e benedetta perdipiù dalla capricciosa
dea Ironia. La notazione erudita e la digressione storica si integrano
perfettamente con l'intransigenza di opinioni personali, idiosincrasie
e gustosi veleni; ma Byron è raffinato anche negli scatti
di rabbia, e nel sarcasmo manifesta un tratto di nobiltà
altera. Se ha dei nemici, sono gli ipocriti e gli idioti. Le scenette
di cabaret che intavola coi più diversi personaggi del luogo
(dal viaggiatore americano figlio-di-papà, al cameriere perfetto
sosia di Hitler, allo schizofrenico ambasciatore afghano a Teheran)
sono il più consono pendant mondano a quel lirismo che gli
ha ispirato intense descrizioni dei paesaggi, delle tonalità
cromatiche di albe e tramonti, e dei tesori artistici che veniva
via via scoprendo. Vero è che Byron nel suo itinerario conserva
il classico atteggiamento del nobile inglese all'estero (si è
parlato, forse esagerando, di "arroganza noncurante"),
ma perché voler trarre il sangue dai sassi?
Questo libro, anche per i suoi caratteri formali, non può
offrire completezza narrativa né è votato all'approfondimento
etnografico, e così le parti più memorabili, in cui
si rivela il gusto peculiare dell'autore, restano sempre le descrizioni
delle torri funerarie, o delle città viste dal deserto, o
ancora del variare della luce sulle superfici piastrellate di una
cupola - e che erano lo scopo primario del viaggio. La ricerca della
purezza dell'architettura islamica doveva restituire in filigrana
"l'Asia senza complessi d'inferiorità".
Ora che le ultime sporche gocce di 2001 stanno cadendo dal rubinetto
della storia, tra contrasti impensabili e stragi insensate, sarà
disumano chiedersi che fine hanno fatto i mausolei e i minareti,
le torri e le antiche moschee? Si risveglieranno del tutto, come
pensava Chatwin, i giganti addormentati nell'Asia centrale?
Autore:
Fabio
Pedone
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