Georg
Cristoph Lichtenberg, Lo scandaglio dell'anima
a
cura di Anacleto Verrecchia, BUR
L'ERETICO CHE BRUCIA LA BARBA AI SAGGI
Il
qui presente e scrivente aveva già incontrato Lichtenberg
qualche anno fa, sulle pagine eccessive e funamboliche dell'Antologia
dell'umor nero di Breton, ricavandone un'impressione così
profonda da indurlo, con somma umiltà, a tentare una traduzione.
Ci pensa invece, crediamo con suo grande spasso, Anacleto Verrecchia,
amico dei pensatori "che pensano da sé"; ed era
ora di sottrarre questo brillante classico al limbo in cui vegetava
per il lettore italiano.
Autore
del manuale di fisica più famoso del suo tempo, accademico
stimato da Goethe e da Volta, Lichtenberg (1742-1799) portò
avanti per tutta la vita, parallelamente all'attività universitaria,
il piacere privato dell'aforisma e la stesura di questi Sudelbücher.
Chiamarli taccuini sarebbe riduttivo: meglio la forma inglese Waste-books
(che sarebbero i brogliacci contabili dei commercianti), peraltro
usata anche da lui. Libri a perdere? Certo non libri in perdita.
Questo è il meno tedesco dei pensatori tedeschi: nei suoi
aforismi, animati da un divertimento perenne, tutte le attività
dell'essere umano sono impietosamente (e impetuosamente) passate
in rassegna; tutte le stranezze, i tic, le bizzarrie; Lichtenberg
scherza volentieri coi santi e non lascia stare nemmeno i fanti;
si chiede se il buon Dio sia cattolico, rispondendosi evidentemente
di no; ma il suo bersaglio favorito è la stupidità
travestita da serietà, vero flagello di ogni epoca: "C'è
gente che crede ragionevole tutto quello che vien fatto con una
faccia seria" (e guardiamoci intorno: ogni imbecille, quanto
più è imbecille, tanto più tende a darsi un
certo tono
). O l'egoismo connaturato alla specie umana: "
I verbi che la gente ha sempre sulla bocca sono, in tutte le lingue,
i più irregolari: sum, sono, , ich bin, je suis, jag är,
I am". Castigat ridendo mores, Lichtenberg; riscatta i diritti
della leggerezza e toglie ai saggi il copyright della saggezza ("La
supersaggezza è una delle forme più spregevoli della
non saggezza"). Nelle sue pagine la più fine psicologia
si intreccia a una critica sociale che è diretta discendente
di Menandro e Teofrasto, e il suo gusto per i giochi di parole e
le analogie azzardate non poteva dispiacere ai surrealisti: "In
una cittadina, dove una faccia rima sempre con l'altra". "Così
come ai santi si dipinge uno zero sulla testa". "La più
divertente superficie della terra è per noi quella della
faccia umana".
Tuttavia Lichtenberg proprio non riesce a fare il moralista. In
quei giudizi taglienti non si riflette una sua presunzione di superiorità;
la sua risata non può essere forzata né minacciosa,
non vi si sente il nefando schiocco della frusta satirica; la perfidia
svapora spesso in un ironico distacco. Sono comunque risate di una
terribile serietà. In ogni giro di frase sentiamo che abbiamo
a che fare con un uomo, intero, e ci pare quasi strano non poterlo
invitare al nostro tavolo a farsi un bicchiere. L'altra metà
di Lichtenberg la indovina subito chi sa che nell'ironia c'è
sempre un fondo di tristezza, e così le miserie private dell'uomo
Lichtenberg, i desideri irrealizzati (primo fra tutti il viaggio
in Italia), le malattie, fanno ugualmente parte della sua scrittura.
Al di là di esorcismi o mistificazioni, si direbbe che Lichtenberg
sia uno di quelli (come Montaigne, come Nietzsche) che nell'esperienza
costante della malattia scoprono il pensiero della grande salute.
Neanche gli è estranea una morbosa frequentazione della morte:
"una tomba è pur sempre la migliore fortezza contro
gli assalti del destino." La ruminazione del suicidio è
ricorrente, assolutamente seria, con accenti stoici e persino induisti.
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