NOTE
A MARGINE DI UN TESTO MAI SCRITTO
Enrique
Vila-Matas, Bartleby e compagnia,
Feltrinelli
Chi non fosse mai stato tentato di fantasticare una storia
delle pagine bianche può partire benissimo da quest’ultimo libro
di Enrique Vila-Matas, catalano, classe 1948, già autore di Suicidi
esemplari, Breve storia della letteratura portatile e Il viaggio verticale.
Nel
cammino della civiltà la riflessione sul/del silenzio è importante
almeno quanto il lògos scritto: pensiamo a tutti gli esempi di scepsi nei confronti
della scrittura, da Socrate a Carmelo Bene – senza parlare dell’Oriente.
La scrittura, aldilà della sua insufficienza sostanziale, nelle
sue motivazioni è stata spesso vista come fatale inabilità alla
vita, o surrogato di vita per chi non vive (un esempio su tutti,
Montale nella famosa Intervista immaginaria del 1946). Ma uno scrittore che non scrive?
Non vive due volte. Oggi che i veri poeti balbettano, non è raro
che la grande scrittura sia affidata al frammento, figura della
polivocità e della rischiosa apertura del moderno. “Nel nostro mondo
imperfetto… i grandi capolavori artistici non sono che i rottami
naufragati di grandi intelligenze”, scriveva già Proust all’inizio
del Novecento. Se lo scrittore è, volente o nolente, “capro espiatorio
dell’umanità” (Kafka), dovrà per forza fare i conti con questa lacerazione.
Perché si smette di scrivere? Sarebbe più logico chiedersi
perché si scrive… Ammesso che si cominci a scrivere per sapere chi
siamo, si finisce pur sempre col capire che proprio la scrittura,
moltiplicando le maschere e gli alibi speculari, ci impedisce di
attingere a quella consapevolezza. In chiave di fantaletteratura,
o letteratura al quadrato (Borges, certo, ma anche Calvino), Vila-Matas
traccia una possibile storia di questo ideale ascetico. Alla seduzione
dello scetticismo, dell’agrafìa, si affianca il silenzio come condizione
iniziale e finale per lo scrittore, indice di possibilità e di limiti
allo stesso tempo. Ogni testo è circondato, rosicchiato da silenzi.
Se la negazione è il male delle lettere contemporanee, ne è però
anche l’unica possibilità di vero sviluppo: estetica e trasfigurazione
del fallimento sono cifre del moderno che spingono le loro radici
almeno fino ai primi romantici.
La
sindrome di Bartleby colpisce gli scrittori anche geniali che di
punto in bianco, al di là di fallimenti pubblici o personali, rifiutano
la scrittura. Per antonomasia, i bartleby,
“esseri che ospitano dentro di sé
una profonda negazione del mondo”, provengono da Bartleby, lo scrivano allampanato di Melville che si rifiuta qualunque
modalità dell’essere, annegando nel vuoto delle infinite possibilità,
opponendo ad ogni richiesta, ad ogni invito ad esistere e fare,
un secco “preferirei di no”. Del resto, perché lavorare ad un’opera
(a una vita) quando è così bello sognarla soltanto?
Ironia
e malinconia, astutamente intrecciate nell’incipit, danno il la
a tutto il libro: “Non ho mai avuto fortuna con le donne, sopporto
con rassegnazione una penosa gobba, non mi resta un solo parente
stretto vivo, sono un povero solitario che lavora in un ufficio
spaventoso. Per il resto, sono felice.” Equidistante da una piena
narrazione come dall’insistito scandaglio della forma saggistica,
in una diligente passeggiata, l’autore sfoglia il suo album di “figure”
e “influenze”, “Scrittori del No” votati a nascondersi, sia reali
che inventati con gusto provocatorio (e sta a noi scoprirli); nel
suo tono si indovina che una nativa ombrosità sa mutarsi in affabilità
e leggerezza, cercando sempre una complicità col lettore.
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