“Libera di navigare dappertutto…”

Sulla libertà interiore di Etty Hillesum

Maria Giovanna Noccelli

Etty Hillesum fu una donna libera in mezzo alla schiavitù nazista. Il suo pensiero e il suoi atteggiamenti testimoniano quella grande verità secondo cui alla fine, è l’uomo col suo atteggiamento interiore l’ultimo e vero artefice del suo destino.

Ha scritto Viktor Frankl, sulla libertà di scelta: “Noi che siamo stati nei campi di concentramento ricordiamo gli uomini che andavano da una baracca all’altra confortando i compagni e regalando l’ultima crosta di pane. Forse non erano molti, ma bastavano a ricordarci che tutto si può portare via a un uomo tranne una cosa: l’ultima delle libertà umane, che è quella di decidere la propria linea di comportamento  in qualunque circostanza e di seguire la propria strada”.

“Quello che si innalza dentro”

Così è per Etty. Un altro motivo ritornante nel suo pensiero è la consapevolezza della non - determinanza dei fatti esterni di fronte all'estrema libertà lasciata alla creatura umana, quella di decidere il proprio comportamento: “Quel che un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino” , scrisse. Lei stessa altrove chiarisce la fonte di questa libertà: in una fredda sera d’inverno scrive “E ora mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che sia avvicina da fuori, ma da quello che s’innalza dentro” .

Rimane tuttavia difficile esplicitare il senso profondo di questa libertà: una riflessione casuale di Etty è illuminante. A Westerbork, una mattina, durante il solito carico settimanale del treno che portava i prigionieri ad Auschwitz, Etty assistette alla scena di un uomo che ribadiva di come avesse scelto spontaneamente di salire su quel treno e il proprio diritto, nonostante tutto, il alla ‘libertà di partire quando piaceva a lui’. Ripensando a quel piccolo e apparentemente insignificante episodio, Etty scrisse di come l’avesse fatta pensare “a quel giudice romano che aveva detto a un martire: ‘Sai che io ho il potere di ucciderti?’, al che il martire aveva risposto: ‘Ma sai che io ho il potere di essere ucciso?’  (è chiaro il riferimento di Etty all'episodio evangelico dell’incontro di Gesù e Ponzio Pilato, nel Vangelo di Giovanni). Nella vita di Etty si manifesta la stessa cosa: pur nel progredire della fragilità della propria vita, della esposizione agli eventi, alla violenza altrui, fino alla morte fisica, nessuno ebbe il potere di uccidere la sua anima, che è tuttora parlante; il vero potere fu piuttosto il suo, di dare la propria vita nell'assunzione consapevole, quotidiana e appassionata di essa; nell’appropriarsi del suo destino nello stesso tempo in cui apparentemente lo subiva da mano altrui.

“Quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro”

All’inizio delle pesanti politiche di privazioni e razionamento che colpirono la vita civile degli ebrei ovunque e anche in Olanda, scrisse: “Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la nostra millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini, e oso dirlo senza falso pudore (…). Dobbiamo cominciare  a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e ‘lavorare a se stessi’ non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ognuno si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. E’ l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra”.

Il nostro paese interiore è la nostra vera patria

In un altro passo Etty specifica che la fonte della sua libertà è interna, è la raggiunta capacità, o la comunque la scoperta, di saper vivere in un mondo interiore molto più vasto, che il cosiddetto ‘nemico’, l’aggressore nazista, non avrebbe in nessun modo potuto toglierle, allo stesso modo di una fortezza imprendibile: “Dicono che chiunque possa sfuggire alle grinfie [dei nazisti] deve provare a farlo, che questo è un dovere, che devo fare qualcosa per me (...). Il buffo è che io non mi sento nelle loro grinfie, sia che rimanga qui, sia che venga deportata (…), non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi, e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questa è poca cosa, se paragonata a un’infinita vastità, e fede in Dio e capacità di vivere interiormente”. Poiché, scrive ripensando al dialogo avuto con un amico, “Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi. Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso: le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto. Dobbiamo essere la nostra propria patria”.Qui Etty si trova in incredibile consonanza con quanto aveva detto anche Simone Weil: il nostro paese interiore è la nostra vera patria.

Dal Diario di Etty:

"Jopie nella brughiera, seduto sotto il gran cielo stellato, mentre parlavamo della nostalgia: io non ho nostalgia, io mi sento a casa. Ho imparato tanto da quel discorso. Si è "a casa". Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi. Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso: le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto. Dobbiamo essere la nostra propria patria. Ci ho messo due sere per potergli confidare questa cosa così intima, la cosa più intima che ci sia. E volevo tanto dirgliela, quasi per fargli un regalo. E allora, allora mi sono inginocchiata in quella gran brughiera e gli ho detto di Dio".

“Ogni giorno viviamo una vita intera”

“La sofferenza – scrive altrove Etty nei suoi quaderni – non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell’uomo (…). La vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com’è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione. Dio mio, tutto questo si può capire benissimo: ma se una vita simile viene tolta, viene tolto poi molto? Si deve accettare la morte, anche quella più atroce, come parte della vita.  Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo con la propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita. Ogni giorno viviamo una vita intera: ha molta importanza se viviamo qualche giorno in più, o in meno? Io sono quotidianamente in Polonia, su quelli che si possono ben chiamare dei campi di battaglia (…); sono accanto agli affamati, ai maltrattati, ai moribondi, ogni giorno; ma sono anche vicina al gelsomino  e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine”. Anche qui si trova una singolare consonanza con le parole di S. Weil: “La realtà si mostra a colui che accetta la morte”.

“Il cielo vive dentro di me ”

Etty possedeva quella singolare qualità della libertà che è saper lasciare andare tutte le cose: in lei questa qualità fu un dono della sua grande natura, ma anche qualcosa che coltivò dentro di sé con pazienza e convinzione. Tra i molti passi dei suoi scritti che lo testimoniano, trovo questo, di particolare bellezza: è una riflessione involontaria che Etty scrisse una sera prima di dormire, sentendosi particolarmente stanca, ma che oggi si può leggere alla luce della sua vicina morte: “Dovrei proprio dormire, per giorni e giorni, dovrei lasciar andare tutto quanto. Il medico diceva ieri che ho una vita interiore troppo intensa, che vivo troppo poco sulla terra, anzi, che vivo quasi ai confini col cielo, che il mio fisico non può reggere a tutto ciò. Forse ha ragione. Quest’ultimo anno e mezzo, mio Dio! E questi ultimi due mesi, che da soli sono stati come una vita intera. E non ho forse avuto delle ore in cui ho detto: se dovessi morire tra poco, quest’ora mi è valsa una vita? Ho avuto spesso delle ore simili. E perché poi non dovrei vivere in cielo? Il cielo esiste, perché non ci si potrebbe vivere? O piuttosto: il cielo vive dentro di me (…). Ora devo dormire, e lasciar andare tutto”.  

Biografia di Etty Hillesum

Il Dio di Etty Hillesum

dal Diario 1941-1943
A te cuore pensante

Il mio amore ha mille anni

Opere di Etty Hillesum
Il cuore moltiplicato del mondo

L'amore per la vita

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