Luogo del tragico e del dolore, l’installazione di Antonio Amore propone una visione corale della condizione umana, vissuta come tensione verso la liberazione da ogni tipo di sottomissione, materiale e mentale, fisica e spirituale, radicata nella realtà o anche soltanto immaginata.
Un coro di figure attornia l’immagine del Cristo che si stacca dall’insieme, quasi proteso verso una rigenerazione che passa attraverso il sacrificio e la sofferenza, il martirio corporale e il travaglio spirituale, soprattutto l’esperienza della morte.
Il gruppo di figure verticali che accompagnano questo rito collettivo costituisce un repertorio di segni arcaici, primordiali, emblemi del rapporto con la natura e con la tradizione della terra, simboli del lavoro e della fatica che indicano l’umiliazione della schiavitù, la mortificazione di una vita soggiogata.
Non a caso Amore ha identificato questi personaggi dolorosi nella forma del giogo, ha dunque usato questi antichi strumenti di lavoro agricolo, ha assecondato le diverse consistenze del legno, i segni del tempo, le cicatrici del lavoro, le parti usurate dal tempo.
L’artista si è appropriato della qualità dei materiali con naturalezza, senza enfasi, sublimando la loro originaria funzione, fino ad imprimere a questi vecchi gioghi dell’Ottocento un nuovo ruolo nel territorio dell’arte presente.
Ponendo in posizione verticale questi simboli di fatica e di schiavitù ne ha fatto corpi viventi che si muovono e si comportano come icone che compiangono il Cristo morto, emblemi di un teatro di sentimenti e di passioni che oscillano dal tragico al lirico, dal reale al fantastico. Per fare il Cristo Amore ha usato una tavola di castagno, anch’essa legata al mondo pastorale che gli è caro, una forma lineare e quasi astratta su cui è intervenuto con alcuni tagli sulle braccia e sulle mani, per rafforzarne il carattere figurativo.
Come è avvenuto nel passato, anche in questo gruppo di figure Amore concepisce l’opera come ricerca di una verità antropologica che pone la solitudine dell’uomo al centro della rappresentazione. Si tratta di una solitudine capace di trasformare il dramma personale in dolore universale, di attraversare le contraddizioni del presente attraverso il recupero della purezza arcaica della forma, non soggetta all’esaltazione dello stile ma al primato dell’energia interiore.
La visione di queste sculture antropomorfe suggerisce inoltre il desiderio di immaginare le singole forme avvolte da un unico sentimento dello spazio, un luogo ideale in cui l’arte è vissuta come ricerca di equilibrio, superamento delle contraddizioni.
L’invenzione di questi gioghi sta nel loro modo libero di occupare posizioni diverse sulla pedana su cui sono circoscritti, di avere un registro autonomo, di articolare i movimenti giocando sul ritmo dei pieni e dei vuoti, delle distanze e delle sospensioni tra una forma e l’altra: in un fluire di differenze che si traducono in una ricerca di armonie e di contrappunti.
Ciò che Amore intende recuperare è la ricerca delle origini, quell’impegno etico ed estetico che, superando la pura e semplice visione realistica, mette in relazione ogni essere con le forze primordiali della terra. Attraverso una lenta assimilazione dei fenomeni esterni l’artista recupera l’animalità delle cose, le potenzialità biologiche dell’uomo che ne proiettano l’azione verso il futuro, a diretto contatto con il piacere di esplorare gli aspetti segreti della vita, di trasformarla, di allontanarla dal senso di violenza e di sopraffazione che la minaccia. In questo senso, l’uomo è ricondotto verso se stesso, all’interno del proprio fondamento, come una vera presenza tra i fantasmi della civiltà contemporanea, sempre meno in grado di avvertire l’urlo interiore, l’emozione di un evento improvviso, l’ardore di un’immagine poetica che s’impone sul resto, qualunque sia lo spirito che la anima.