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Percorsi dello Spirito
di Claudio Cerritelli

In questa edizione di "Percorsi dello Spirito" si riconferma l’esigenza di fissare, attraverso la memoria della storia e le tracce del presente, quella fisicità corporea delle immagini che costituisce l’identità più avvincente dell’arte contemporanea, la condizione necessaria all’avventura sperimentale delle forme che va dall’atto primario di manipolare la materia fino alla trascrizione virtuale delle sue metamorfosi visive.

Nella suggestiva scena espositiva dell’EXMA’ Anna Maria Montaldo ha invitato sei artisti di diverse aeree geografiche a interpretare con le loro opere il concetto di spiritualità, quel particolare modo di sentire l’arte come strumento di approfondimento interiore e di emozione mistica che consente all’artista, al di là dell’origine e del senso di appartenenza culturale, di riscoprire le matrici della propria identità.

Dalla pittura alla fotografia, dalla scultura all’installazione, dalla scrittura poetica alla video-arte, molteplici sono i linguaggi che oscillano tra l’atteggiamento emozionale e quello concettuale, tra l’evocazione della parola e la sonorità del colore.

Le diverse tecniche linguistiche esprimono l’aspirazione ad una condizione spirituale intesa come evocazione di uno spazio misterioso, indefinibile, che pone lo spettatore sempre nel dubbio di non riuscire a percepire la totalità dell’evento visivo, la trasformazione del riferimento alla realtà in una sintesi poetica.

Del resto il concetto di spiritualità, pur assumendo diverse valenze, si riconduce alla comune aspirazione degli artisti verso la sacralità, verso quella condizione dove il corpo e l’anima dell’arte si identificano nella ricerca dell’altrove, nel superamento dei vincoli materialistici, in attesa di cogliere il fondamento del mondo in una sola immagine, nell’essenza di una forma che contiene tutte le forme possibili.

L’organizzazione dello spazio espositivo, luminoso e purificato da ogni elemento invadente, consente di leggere le esperienze dei singoli autori come un insieme di luoghi separati che si attraggono per via di reciproci magnetismi che non riguardano lo stile, la forma, la tecnica, quanto l’intensità del comportamento creativo di fronte al ruolo dell’arte.

Se si può parlare di spiritualismo nel caso di artisti così diversi come Amore, Casu, Contini, Hirose, Lindsay, Nazzari, lo si deve fare riferendosi alla comune visione dell’arte come interrogazione dell’enigma della forma, esplorazione della natura ineffabile dei suoi elementi che, per quanto indagati analiticamente, sfuggono alla comprensione e si pongono sempre sul piano della rivelazione, di una visibilità imprevedibile.

La figura dell’artista non avrebbe senso se evitasse di porsi al cospetto del mistero della materia, di fronte alla potenza dell’immagine intesa come epifania dello sguardo, percezione di ciò che non si conosce, svelamento di quella parte nascosta che permette di oltrepassare la soglia della sensibilità.

L’atteggiamento etico ed estetico di questi autori si dispiega attraverso la volontà di passare dal dominio individuale della materia alla sua energia cosmica, trasformando le ragioni soggettive del proprio percorso spirituale in un progetto di carattere collettivo.

Il rapporto con i valori universali della natura è, per esempio, uno dei terreni che accomuna le storie di questi artisti che dell’immagine arcaica della Sardegna hanno fatto un motivo fondante del proprio immaginario, sia per chi è nato in questa terra di straordinari umori primordiali sia per chi che vi si è stabilito o l’ha semplicemente frequentata, affascinato dalla sua luce che diventa una guida mistica alla vita.

Ai volti tragici di questa terra guarda l’arte aspra e appassionata di Antonio Amore; ai colori cangianti delle acque si riferiscono le immagini tecnologiche elaborate da Francesco Casu; alle iconologie della civiltà artistica sarda si collegano le costruzioni pittoriche di Aldo Contini; con i cieli della Sardegna si confrontano gli spazi di tutto il mondo fotografati da Satoshi Hirose; ai materiali antropologici dell’isola attinge Arturo Lindasy nelle sue installazioni alchemiche; alle vibrazioni leggere dell’aria si rivolgono le forme magiche con cui Wanda Nazzari colloquia con i segni primordiali dell’universo.

I "percorsi dello spirito" non mirano soltanto a sublimare il rapporto con la natura ma anche ad evidenziare la bellezza dell’artificio, il fatto che dalla combinazione dei materiali, anche i più poveri, può nascere un’immagine che risveglia i sensi del profondo e apre soglie inaccessibili.

Le installazioni si pongono come tracce spirituali di un progetto creativo che respira attraverso la fisicità della materia, per il tramite di una percezione che si confronta con la pulsione del colore e la sensazione tattile delle forme, dove il peso della luce avvolge le immagini generando visioni che nascono dal vissuto.

Queste tracce possono essere suggerite ovunque, senza ordine di spazio e di tempo, attraverso il linguaggio legato a situazioni distanti, per non dire opposte, tra di loro.

Esse possono tradursi negli oggetti prelevati dal mondo agricolo (i gioghi di Antonio Amore); nel flusso inarrestabile della video-scrittura (le nature tecnologiche di Francesco Casu); nel raffinato retablo di antica origine catalana (le raffinate icone di Aldo Contini); nelle storie ancestrali e nel nutrimento antropologico degli oggetti (le personificazioni di Arturo Lindasy); nel miraggio di orizzonti sconfinati (le nuvole fotografate di Satoshi Hirose); nelle vibrazioni dello stato aereo e solido della forma (le trasparenze di Wanda Nazzari).

Queste modalità di approccio sono l’alfabeto variegato della mostra il cui senso sta nella messa in scena delle differenze, nel rischio percettivo che scaturisce dal fatto che, miscelando umori diversi (dal ritorno alla manualità alla fuga nella tecnologia), si possa perdere di vista il senso complessivo dell’operazione, vale a dire l’incanto della sacralità.

Tale concezione riguarda lo spazio di salvezza dell’artista che, nell’attuale epoca della simulazione simulata, tenta di riconquistare la sua integrità attraverso una pratica dell’arte che sappia essere pensiero poetico, stato d’incanto, sforzo di umanizzare l’uomo per ricondurlo al piacere della vita, al valore della conoscenza e del rapporto con gli altri.

Soltanto la possibilità di ripensare la funzione dell’artista in relazione al progetto di esistenza collettiva permette di vedere l’arte come uno strumento per avvicinarsi alla cosiddetta trascendenza. Ma che cosa è "trascendenza" in arte se non il suo stesso tendere verso la percezione dell’invisibile, conoscenza dell’inesprimibile, trasformazione della materia in un luogo di estrinsecazione della forma originaria?

Non è forse la ricerca dell’origine il vero processo di sacralità, non si tratta forse di una qualità intrinseca dell’arte quella di essere spirituale, proiettata verso un dialogo intersoggettivo, universale, capace di trasmettersi da uomo a uomo, di prodursi da se stessa attraverso continue rivelazioni?

Ogni percorso artistico che si dichiara nel nome della spiritualità rischia infatti di evocare ciò che è già interno al suo fondamento creativo, di indicare un processo "che diviene", non è mai statico, crea e distrugge senza calcoli, con un desiderio di annullarsi nella propria visione creativa, totale.

L’idea stessa di uno "spirito" contrapposto ad un "corpo" non regge nei riguardi dell’arte che, anzi, vive questi termini nella loro profonda coincidenza, come pratica della libertà che agisce nella sintesi degli opposti, nel ribaltamento di tutte le convenzioni che separano il pensare dal fare.

Il senso di spiritualità che gli artisti contemporanei sostengono sta nell’estensione dei limiti dello sguardo, nella volontà di percepire nuove sensazioni di spazio e di tempo, nell’affidarsi alla forza generativa delle emozioni pure, di esaltare l’esistenza come concatenazioni di immagini che favoriscono la nascita di nuovi stati creativi, direttamente protesi alla ricerca dell’aldilà imprescindibile dalla condizione dell’esistenza.

È per questi motivi che si può parlare di un risveglio della spiritualità senza temere di cadere nella retorica del religioso e del sacro come categorie desuete, legate a iconografie liturgiche del tutto insufficienti per un discorso che punta a individuare l’intensità dell’essere e non la quantificazione dei temi religiosi.

Categoria sempre più estranea alla codificazione dell’esperienza cristiana, il concetto di spiritualità ha accompagnato in questi ultimi anni un buon numero di mostre d’arte contemporanea, non senza qualche ambiguità nel modo di intendere il termine, di cui si avverte, del resto, non solo l’uso ma anche l’abuso.

Per evitare generalizzazioni e discorsi teorici forse troppo pretenziosi credo sia utile verificare questa ipotesi nell’esperienza dei singoli autori, condizione necessaria per cogliere, appunto, lo spirito diverso che anima l’unico destino possibile per l’arte: la vita delle forme.

Per l’artista si tratta di esserci, di continuare a concentrarsi sulla propria estenuante follia creativa, in nessun modo omologabile con il mondo organizzato che lo circonda. Questa volontà di sottrarsi alla grande comunicazione è la misura di un dominio spirituale del mondo che consente di nutrire la grande ambizione dell’atto creativo, quello di essere irriducibile a qualunque altro linguaggio, intraducibile da altri mezzi di comunicazione.

Quest’ultima considerazione non ci esime dall’esprimere una nota particolare per il lavoro di documentazione fotografica di Stefano Grassi a cui si devono le immagini del catalogo, la lettura dell’allestimento della mostra, i dettagli, i particolari, i punti di vista, gli addentramenti, le distanze, le misure totali, vale a dire una ulteriore scrittura visiva che valorizza gli aspetti interni, spesso reconditi, che ogni singola installazione contiene attraverso la presenza di tutti gli elementi che si sono sviluppati in essa, dall’ideazione alla realizzazione finale.

Saperne rivelare il significato attraverso la sensibilità dell’occhio fotografico è quanto Grassi riesce a fare, anche in virtù della sua autonoma ricerca sulla possibilità di attraversare l’anima delle forme, captando non solo i movimenti impercettibili ma anche quelli che si annidano ambiguamente nell’immagine.

Risultato, questo, di non poco conto per un catalogo che documenta la presenza irripetibile delle installazioni, legate al luogo e agli specifici spazi espositivi, dunque strumento di registrazione di ciò che la memoria da sola non può fissare con quella intensità che, mentre esplora la visione irrevocabile dell’opera, ne interpreta anche le differenze.

Claudio Cerritelli