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LUCI ED OMBRE
Luci ed ombre caratterizzano l'attuale
stagione del teatro italiano. Non è una formulazione generica:
vivendo ormai da anni il duplice impegno negli ambiti della drammaturgia
e della regia/recitazione posso assegnare con una certa sicurezza
le ombre alla drammaturgia - teatro in "potenza" -,
e le luci alla regia/recitazione - teatro in "atto".
Luci. Già a partire dalle strade tracciate nella
seconda metà del nostro '900 da numi tutelari quali Carmelo
Bene, Ronconi, Strehler, la scena italiana si è formata
condividendo una stimolante idea di teatro quale luogo di ogni
possibilità artistica: stracciata la tirannia del testo
drammaturgico, la messa in scena è messa in scena di un'idea,
di un concetto, di un'intuizione, e ciò attraverso l'ausilio
paritario della parola e del movimento, della musica e della scenografia,
della danza e delle moderne arti (tecnologie) visive. Nei lavori
dei nostri Socìetas Raffaello Sanzio, Motus, Remondi e
Caporossi, Barberio Corsetti, Martone, Valdoca, De Berardinis,
e di tanti altri, il teatro diviene atto artistico totale, poesia
teatralizzata, pittura vivente, gnosi visualizzata, musica dipinta.
E questa è luce.
Ombre. Se la luce nasce con il tirannicidio del testo scritto,
quest'ultimo vive i suoi giorni come un nobile decaduto, schiacciato
tra l'impotenza attuale e le memorie delle antiche glorie. Ne
abbiamo ancora bisogno?
La situazione è triste. Non mancano premi di drammaturgia
(Riccione, Fondi La Pastora, Flaiano, e molti altri), né
enti che si dedicano alla scoperta di nuovi talenti (ETI, OUTIS,
CIRT, SIAD, ecc.), ma tutti questi si rivelano tentativi vani
per uscire da quello che appare essere sempre più un vicolo
cieco. Se si intende la drammaturgia come particolare forma di
letteratura, da fruirsi quindi attraverso la lettura, occorre
dire che nessuna casa editrice investe nei nuovi autori. L'unico
editore a diffusione nazionale che cura una collana teatrale al
passo con i tempi è Einaudi, ma il suo paradosso è
che per apparirvi occorre essere già conosciuti (e non
si può essere conosciuti se nessuno ti pubblica). Vi sono
anche piccole case editrice perlopiù locali, ma con bassa
distribuzione e con pochissime prospettive di vendite. Il risultato
è che la letteratura teatrale non si legge più!
Se invece limitiamo la drammaturgia al suo fine "naturale",
la rappresentazione, la situazione non migliora affatto. Come
mai grande parte dei giovani autori è costretta a fondare
una propria compagnia per vedere messi in scena i propri testi?
Brevemente, ravviso due ordini di problemi. Il primo è
culturale, e coincide con l'incapacità della società
italiana a confrontarsi con la modernità: da una parte
vi è la grandezza di un Pirandello che, paradossalmente,
con la sua insuperabilità ha di fatto precluso alternative
a se stesso; dall'altra vi è il perdurare di una concezione
molto borghese e perbenista del dramma, ove tutto ciò che
si richiama a Beckett viene ancora guardato con sospetto. Il provincialismo
italiano snobba Beckett, si scandalizza per Sarah Kane e non comprende
come "un comico" abbia potuto vincere il Nobel per la
letteratura.
Il secondo problema che condiziona le fortune della letteratura
teatrale italiana è di ordine economico ed è di
una semplicità disarmante. Mi spiego ponendo il quesito:
se voi foste direttori di un teatro o di una compagnia e doveste
investire in una produzione, dove cadrebbe la vostra scelta? In
Shakespeare o Molière, che il loro pubblico lo hanno sempre
e che non costano nulla di diritti SIAE perché ormai di
pubblico dominio, oppure in un nuovo autore, magari bravo ma comunque
sconosciuto ai più e che per giunta pretende anche di essere
pagato dei diritti di autore? Ombre, molte ombre.
Fabio Massimo Franceschelli
Info: Compagnia
OlivieriRavelli
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