Soluzione fantastica e
mitica del prosciugamento del "Lago
Fucino"
di Maria Assunta Oddi
Il
Lago Fucino
CARO
DIARIO,
Oggi
vorrei farti un dolce regalo.
Non
affliggerò con i miei dolori quotidiani, né renderò grigie di tedio le
tue pagine loquaci con ricordi struggenti di amori passati.
Nemmeno ti farò sorridere confidandoti paure bizzarre o
episodi particolarmente briosi. Non ti affiderò segreti e so bene
che sei il mio prezioso scrigno dei sogni. Niente di tutto questo. Per
questa volta desidererei cullarti
con le parole di un racconto scritto appositamente per te che da sempre mi
sei legato da un'amicizia profonda. Vorrei che un respiro tra le righe e l'inchiostro della
mia biro ti permettesse una volta tanto di seguire solo la fantasia
unica regola capace di farci sentire veramente liberi. Immagina di essere
il bianco di un foglio che liberato dai lacci della rilegatura
voli come una foglia caduta pigramente da un pioppo in balia del
vento senza sosta, ora più in alto, fino a toccare le nuvole, ora in
basso quasi a sentire proiettata su di sé l’ombra
umida della terra. La storia prende
inizio, affrettati ad entrare nel ruolo degli eventi che sto per narrarti.
Ebbene ascolta. Gli alberi
che crescono nel nostro paese si presentano
belli, fronzuti, verdi con vari frutti tra i loro rami dove fanno il nido
uccelli che volano cinguettando intorno ai loro rifugi
Devi sapere, caro diario, che le ridenti cittadine marsicane
erano anticamente lambite dalle acque di un lago che, calme e
abbondanti, rilucevano il sole come ai primi raggi della luna con
riverberi azzurrognoli. Intorno ad esse si specchiavano superbe le cime
bianche del Velino, i torrioni dei castelli, le colonne dei templi le
mura ciclopiche, le greggi, i prati e le barche dei porticcioli.
Al limite del lago, in un bosco
sacro, viveva una maga di nome Angizia. Era di una bellezza così
affascinante da riuscire a far innamorare perdutamente di sé, chiunque la
guardasse nello stesso tempo possedeva dei poteri particolari che la
rendevano capace di interrogare le stelle e gli astri sul futuro degli
uomini. Indossava una tunica di damasco ma aveva le braccia e le gambe
nude. Il piede scalzo e bronzato gli dava l'andatura di una fuggita
chissà per quale motivo, dall'Olimpo. Gli occhi verdi rilucevano sulla
pelle d'alabastro mentre lunghi capelli neri, che cadevano copiosi sulle
spalle, intrecciati insieme da fermagli di pietre preziose, profumavano di
viole. Quando le acque si addormentavano sotto la bianca luce dell'astro
notturno, talvolta soleva danzare nei luoghi riservati alle cerimonie per
propiziarsi i favori degli dei silvestri. Di giorno, quando gli uomini del
paese erano al largo per la pesca, scendeva all'abitato per ascoltare il
canto delle pastorelle e delle lavandaie. Si divertiva, inoltre, a
rispondere, seduta su una roccia, all'eco chiassoso delle risa dei bimbi
che guerreggiavano simulando antiche battaglie tra gladiatori. Purtroppo
ben presto, la sua notorietà di oracolo eccelso la rese così superba da
fargli rifiutare la vicinanza della gente semplice. Circondò le mura del
suo tempio di rovi dove vivevano schiere di serpenti che impedivano il
passo a qualsiasi essere vivente. Chiusa nel segreto della grande foresta, in compagnia dei silenzio, assorta in pensieri solitari, finì
con il non accorgersi nemmeno della primavera che tornava con i fiori e il
canto dell'allodola. Piano, piano, essere così lontana dalle gioie e dai
dolori dei suoi simili la rese infelice e più cresceva la sua
inquietudine più diventava insofferente di tutto e di tutti. I giorni
passavano e il dolore diventava sempre più insopportabile. Nonostante i
suoi crucci, la vita nel paese continuava indisturbata. Ogni mattino le
donne si recavano a fare il bucato sulle rive del lago, mentre gli
uomini uscivano con le barche a pesca di lucci, trote, tinche e carpe. Dove
le acque del lago si facevano più rade, tra le canne degli acquitrini si
acquattavano a frotte le rane che a sera univano il loro gracidare allo
stridio dei grilli delle campagne quasi a far più liete le ore del
riposo. Sui monti i bimbi in festa occupati da mille giochi, raccoglievano
frutti e bacche selvatiche o vigilavano le greggi opulenti brucare i
pascoli verdi. L'amore trionfava tra i giovani sposi che la misera vita
di pesca e pastorizia univa con affetto sincero e profondo. E lei,
Angizia, dall'alto della sua reggia osservava silenziosa e intanto
sentiva crescere la sua rabbia. Il sentimento dell'invidia che si era anni
dato nel suo cuore come le serpi tra i rovi, gli suggeriva strane cose:
"Non hanno nulla che possa renderli agiati, vivono miseramente in
capanne di paglia e fango, vestono abiti spenti nei colori e rozzi nei
tessuto, parca è la loro mensa eppure sono cosi felici del presente che
non si preoccupano del loro futuro. Mentre io, qui nella mia residenza
regale, bella, ricca, prediletta tra Lussi e piaceri vivo senza amore
terreno". La maga terminò le sue riflessioni ed ad alta voce confessò: "Ma se il lago si prosciugasse e
improvvisamente
perdesse le sue acque, questo si che varrebbe a mutare la loro vita. Cosa
farebbero i pescatori senza il lago dove poter pescare? Come potrebbero
sposarsi e avere figli senza sostentamento? Come potrebbero crescere
frutti selvatici ed erbe abbondanti senza il tiepido vapore del lago?
Terminò il suo monologo ad alta voce esclamando: "Ecco, ho
finalmente capito cosa fare. Chiederò aiuto a mio cugino, re dei fiumi,
Mago Liri, affinché una volta per tutte inghiotta le acque del
lago." Poiché la Maga aveva la capacità di piegare ogni volontà,
anche la più tenace, ai propri desideri, invitò il cugino ad un sontuoso
banchetto e poi lo costrinse ad accettare i suoi propositi. Il
mago Liri incapace di opporsi ai poteri occulti di Angizia ingrossò le
gote e con un soffio gelido, trattenendo il respiro, ingoiò il lago che
entrò nelle sue fauci come un vorticoso torrente. Quando, al
sorgere dell'alba, le donne si recarono con le ceste sul capo a fare il
bucato non trovarono l'acqua e così anche i loro uomini tornarono a
casa a mani vuote. Quando giunse l'inverno il freddo gelò gli oliveti e i
vigneti e fece ingiallire l'erba dei prati che non erano più capaci,
ormai inariditi di nutrire le numerosi greggi. Tutti nel villaggio uomini,
donne, vecchi e bambini patirono per mesi e mesi la fame. Nella valle
tacquero i canti dei pastori e la tristezza s'impadronì di ogni animo. I
ragazzi perduto il desiderio di ogni svago restavano silenziosi e
stupefatti a pensare al lago scomparso. Il mago vedendo tanta sofferenza
poiché aveva il cuore tenero e generoso copri la terra liberata dalle
acque di un terriccio fertile che egli prese dal letto dei fiumi in piena.
Il limo prezioso in poco tempo trasformò la conca che prima era la
culla del lago in una valle rigogliosa che fece dei pescatori abili
contadini. Agli oliveti si sostituirono piante di nocciole, castagni,
querce, campi di frumento e di mais. Una ricchezza nuova veniva data a
questa gente che seppe assaporare tutta la bontà dei frutti della terre
del proprio lavoro. Poiché il Mago Liri non riusciva a dimenticare le
antiche sciagure che aveva procurato ai pescatori prosciugando il lago,
volle vendicarsi e con uno stratagemma si fece invitare nella reggia della
Maga Angizia. Le portò in dono una perla chiamata “Occhio
d'argento” capace di imprigionare lo sguardo di chi la guardasse. Quando
Angizia aprì la conchiglia che racchiudeva il dono non riuscì più a
distogliere lo sguardo della perla. Il mago Liri, allora libero da ogni
potere maliatico trasformò la bella donna in un seme di pioppo con queste
parole: "Ti affiderò al vento che sarà il confidente dei tuoi
ricordi e delle tue sensazioni. Assaporerai il dolore e lotterai duramente
per vivere. Solo quando diventerai saggia ti sarà concesso tornare nel
mondo magico delle fate". Caro diario, ti sembrerà
impossibile, che a questo punto della narrazione ti confidi qualcosa che
aggiungerà mistero al mistero: a raccontare la sua bellissima e
commovente storia è stata la stessa Maga Angizia. Infatti, mentre sedevo
a leggere accanto ad un pioppo, nella piana del Fucino, il vento fece del
fruscio delle foglie una voce di donna: "Io, la più grande maga che
mai memoria d'uomo ricordi, ero diventata un piccolo seme attaccato alla
vita da una forza sovrannaturale. Attesi con trepidazione la prima
pioggia per mescolarmi alla terra e rendermi invisibile; poi, dolcemente,
m'aprii, e uscì da me una radichetta bianca e tenera. Ma che terra
magra mi stava attorno! Patii la fame e credetti proprio di dover morire
quando la mia radichetta trovò la dura roccia. Pensa una tenera radice
alle prese con una roccia per la quale ci sarebbe stato bisogno dello
scalpello. Eppure prodigio tra prodigi la radice intaccò anche la
roccia e intanto un fusticino debole usciva verso il sole e su di esso
spuntavano le prime foglie. Ma la mia vita non era facile. Dovetti
lottare, d'inverno, col ghiaccio. Il ghiaccio è terribile. Stringe come
una morsa e soffoca. Più dolce invece è la soffice neve che ti copre
col suo candido manto. D'estate la mancanza d'acqua è tormentosa!
Beati coloro che possono andare in cerca delle fonti e scendere in riva ai
fiumi. Io ero inchiodata, immobile per un crudele incantesimo. Chiusa nel
tessuto legnoso ho dovuto combattere col vento. Vedi come i miei rami sono
contorti? Sai quanta forza c'è voluta per resistergli". Quando la
voce del vento si stemperò nell'aria mi ritrovai sola con i pensieri
tristi e melanconici. Che pena aveva suscitato in me quel racconto! E
quanto strazio emanava quell'albero che albero non era. Senza che me ne
rendessi conto iniziai a piangere e allora la voce riprese: "Non
piangere! E' vero che la mia nuova vita da piccolo seme è stata una
continua lotta ma ho avuto. anche dei momenti di gioia, quando, per
esempio, sento che le mie gemme al tepore primaverile, stanno per
schiudersi e le foglie novelle brillano di rugiada, quando gli uccelli
vengono a posare i loro nidi sui miei rami cantando finché non giunge
il buio; quando qualche viandante si sofferma alla mia ombra e mi
benedice; quando infine, piove e le gocce d'acqua scendono su di me con
l'armonia di mille note". Le parole ascoltate con tanta attenzione
non riuscirono ad allontanare dal mio cuore in pena quella struggente
malinconia e allora fra i singhiozzi sussurrai: "E' troppo atroce
quello che ti è accaduto. Nessun'anima per quanto malvagia merita di
essere imprigionata in una ruvida corteccia. Dimmi cosa posso fare per
liberarti". La voce riprese con una dolcezza particolare:
"Dovresti sapere che confidare un dolore ad un amico aiuta a
liberarsene. Ascoltando le mie angosce mi hai reso felice come solo gli
esseri umani possono esserlo. Il dono dell'affetto ha rotto l'incantesimo.
Tra poco tornerò nel mondo delle fate". Un
telone di montagne aveva fatto da scenario all'insolito dialogo. Già
il sole aveva vinto le nuvole e vibrava superbo i suoi raggi
nell'ampiezza libera della valle. All'improvviso, caro diario, non
credevo ai miei occhi, vidi una nebbia fitta spandersi sulla luce solare e
su di essa scorsi, per un attimo, come un velo variopinto, la figura di
una bellissima donna bruna. Non so se fu l'immaginazione o qualche gioco
ottico, è certo che mi sentii liberata da ogni tristezza mentre una
sensazione di pace mi invase. Quando da oltre il fossato, mi giunse il
rombo cupo del trattore all'aratura capii che il sogno era svanito.
A
presto insostituibile amico, un bacio dalla tua Giuseppina.
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