"Psicoanalisi, luoghi della resilienza
ed immigrazione"
Edited
by/a cura di:
Giuseppe Leo
Writings by/scritti di:
S.
Araùjo Cabral,L.
Curone,M. Francesconi,L.
Frattini, S.
Impagliazzo,
D. Centenaro Levandowski, G. Magnani,M. Manetti, C. Marangio,G. A. Marra e Rosa, M. Martelli, M. R. Moro,R. K. Papadopoulos,A. Pellicciari, G. Rigon,D.
Scotto di Fasano,
E. Zini, A. Zunino
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana:Mediterranean
Id-entities
Anno/Year:
2017
Pagine/Pages:
372
ISBN:978-88-97479-11-6
"Psicoanalisi in Terra Santa"
Edited
by/a cura di: Ambra Cusin & Giuseppe Leo
Prefaced by/prefazione
di:
Anna Sabatini Scalmati
Writings by/scritti di: H. Abramovitch A. Cusin M. Dwairy A. Lotem M.
Mansur M. P. Salatiello Afterword
by/ Postfazione
di:
Ch. U. Schminck-Gustavus
Notes by/ Note di: Nader Akkad
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana:Mediterranean
Id-entities
Anno/Year:
2017
Pagine/Pages:
170
ISBN:978-88-97479-12-3
"Essere bambini a Gaza. Il trauma
infinito"
Authored
by/autore: Maria Patrizia Salatiello
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana:Mediterranean
Id-entities
Anno/Year:
2016
Pagine/Pages:
242
ISBN:978-88-97479-08-6
Psychoanalysis,
Collective Traumas and Memory Places (English Edition)
Edited
by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di:
R.D.Hinshelwood
Writings by/scritti di: J. Altounian
W. Bohleber J. Deutsch
H. Halberstadt-Freud Y. Gampel
N. Janigro R.K. Papadopoulos
M. Ritter S. Varvin H.-J. Wirth
Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Georg Northoff
Writings by/scritti di: D. Mann
A. N. Schore R. Stickgold
B.A. Van Der Kolk G. Vaslamatzis M.P. Walker
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
così
profondamente nella struttura della personalità
da
essere indipendente dal tempo, dallo spazio,
dagli
individui - e non può scivolare via
come
un qualsiasi altro evento.
Non
è fatta della sola realtà esterna.
Io
credo che queste esperienze formino
parte
del background della nostra
fede
nella vita - della propria religione,
in
altre parole.
E
così, queste esperienze sono
conservate
e preservate per
far
fronte ai "giorni difficili".
Di
certo questa fede ci aiuta
ad
affrontare la realtà
(e
non è una fuga dalla realtà).
Grazie
a essa, non c'è la stessa angoscia
rispetto
all'esistenza del bene,
dell'essere
buoni,
e
si è più liberi di odiare,
e
più indipendenti ecc. ecc. ecc.
(molti
dicono così).
Ma
questa fede la raggiungono
solo
quelli che hanno
una
fede profonda nei loro sentimenti
e
nelle loro esperienze del bene.
E
non è una fede cieca
perché
si basa sulla realtà.
(Lettera
di Winnicott a Clare Britton, 2 aprile 1943, in Rodman 2003)
Il
libro collettivo a cura di Lucia Fattori e Gabriella Vandi è il
frutto della riflessione di un gruppo di lavoro di psicoanalisti che si riunisce da
anni attorno a questa tematica: io stesso qualche anno fa ne
incontrai alcuni membri durante un loro meeting a Firenze. Come tutti
i libri collettivi è difficile darne una compiuta recensione, anche
perché i contributi sono abbastanza differenti e disomogenei tra di
loro, ma comunque risultano stimolanti per qualsiasi lettore che non
sia... prevenuto. Sì, perché la storia della psicoanalisi dimostra
come ci siano state notevoli spaccature tra autorevoli esponenti,
anche all'interno di una stessa scuola, sul tema se sia possibile
accordare alla fede religiosa un interesse partecipe e
non giudicante da parte del mondo psicoanalitico. Io stesso,
presentando a Roma un libro da me curato, "La psicoanalisi e i
suoi confini"(Astrolabio, 2009), nell'esporre il capitolo di
Grotstein (che faceva un ampio riferimento alle tematiche sulla
spiritualità dell'autore e di Bion, partendo dalle teorie sugli
affetti di neuroscienziati come Damasio, Schore, Tomkins e passando
per Matte Blanco)1, uno dei presentatori, un analista
lacaniano che esercita a Parigi, disse pubblicamente "Ma
che c'entra la psicoanalisi con la spiritualità?". Questa sfida
come direttore responsabile della rivista on-line Frenis Zero l'avevo
già accettata nel 2006 quando uscì il numero 6 dedicato
a "Apeiron. Tra psicoanalisi e religiosità", con
contributi, come quello di Fethi Benslama, in cui si esplorava
nell'Islam l'ipotesi che la costituzione della fede in Dio fosse
avvenuta a prezzo di una "rinuncia al padre".
E'
interessante poi come una serie di psicoanalisti di grandezza
internazionale, negli anni più avanzati della loro carriera, stiano
producendo o abbiano prodotto (ahimé, dopo che sono già deceduti)
importanti riflessioni sulla religiosità. Nel 2014 al congresso di
New York dell'Associazione di Neuropsicoanalisi Jaak Pansepp (che non
è stato, essendo morto nell'aprile 2017, uno psicoanalista ma un
neuroscienziato evoluzionista) in una comunicazione personale parlò
di un "sistema della spiritualità" che,
anch'esso come gli altri sistemi da lui studiati, è il frutto
dell'evoluzione naturale che conduce al cervello dell'Homo sapiens.
In un articolo del 2003 Davis, Panksepp e Normansell integravano
il sistema della spiritualità agli altri (Seeking, Rage, Fear, Panic,
Play, Lust, Care). La spiritualità, <<che è stata aggiunta
dato l'interesse per le emozioni umane più evolute, è stata definita
come un sentimento "connesso" all'umanità ed alla creazione
come un tutt'uno, nel sentire un senso di "unità" con la
creazione, nella ricerca di pace ed armonia interiore, affidandosi a
principi spirituali e ricercando un significato profondo della
vita>>(Davis, et al, 2003, p.60, traduzione in italiano
dell'Autore).
Ma
anche uno psicoanalista statunitense come Joseph Lichtenberg, in un
seminario a Firenze nel settembre 2015, parlò della spiritualità
come sistema motivazionale aggiuntivo rispetto a quelli già da lui
definiti.
Joseph
Lichtenberg (in Florence congress "Parentality and
Motivation", Sept., 26-27, 2015) introduces his last book
"Enlivening the Self. The first year, clinical enrichment
and the wandering mind". Co-authors: F. M. Lachmann and J.
L. Fosshage (Routledge, 2015)
Ma
è forse ad Otto Kernberg, all'ultimo suo libro in Italiano
"Amore e aggressività", che si deve la più completa
rassegna del pensiero psicoanalitico sulla fede religiosa e la
spiritualità che sia apparsa in italiano in anni recenti. Kernberg
nel capitolo intitolato "Prospettive psicoanalitiche
sull'esperienza religiosa" premette di esplorare <<le
origini dell'impulso alla costruzione di un sistema integrato di
valori etici quale aspetto essenziale della personalità e la sua
relazione con l'esperienza religiosa>>(Kernberg, 2012, p.307
dell'ed. Fioriti). Dopo una rassegna critica del pensiero di Freud,
Kernberg ci tiene a precisare che nonostante i contributi di
autorevoli psicoanalisti (cita Chasseguet-Smirgel, Meissner, Ostow,
Rizzuto, Zilboorg) che <<hanno messo in luce la piena
compatibilità delle convinzioni religiose con l'identità
psicoanalitica>>(ibidem), l'autore constata la tendenza da parte
del mainstream psicoanalitico ad assumere una posizione di
aperto ateismo e che solo recentemente la letteratura psicoanalitica
stia affrontando tali tematiche. E' certamente eccellente come
Kernberg tratti degli sviluppi che certi autori, in particolare
Winnicott, Bion, Chasseguet-Smirgel e Green, hanno apportato su temi
quale la natura del male e la psicologia della religiosità,
discutendo quel <<bisogno di garantire un'esistenza altrettanto
indipendente a un possibile sistema universale di valori non
subordinato alla ragione e alla scienza>>(ibidem, p.311). La
religiosità matura <<include un sistema di valori integrato che
trascende gli interessi individuali e ha un'autentica validità
universale che si applica a tutti gli esseri umani>>(ibidem,
p.327). Schematicamente possiamo dire che essa comprende:
-
un senso di responsabilità verso un sistema di valori che trascende
tutte le leggi concrete;
-
l'aspettativa che tale senso di responsabilità sia condiviso anche
dagli altri (senso di giustizia universale);
-
la capacità di riconciliazione, perdono e riparazione sulla base
della comprensione dell'inevitabile ambivalenza di tutte le relazioni
umane;
-
un sistema di valori che includa la proibizione dell'omicidio,
dell'incesto, e la regolamentazione dei rapporti sessuali.
Quest'ultima comprende la salvaguardia della coppia sessuale e della
coppia matrimoniale e della privacy della loro libertà sessuale.
-
la tolleranza, la speranza, la fiducia nel bene (senza negare il male)
e un senso di responsabilità verso un'istanza morale più alta che
corrisponde all'ideale comune di umanità.
-
l'investimento nel lavoro e nella creatività quale contributo alla
creazione del buono e alla lotta contro la distruttività.
-
Infine, il rispetto per i diritti degli altri e la tolleranza per
l'inevitabile invidia ed avidità.
Per
Kernberg una siffatta religiosità matura, oltre che arginare le
manifestazioni del male all'interno del singolo individuo, può anche
<<agire come potente contrappeso rispetto alla tentazione di
essere sedotti da una folla regressiva, con la sua ideologia
schizo-paranoide di dividere tutta l'umanità in buoni e cattivi,
l'idealizzazione di sé e la deumanizzazione del nemico, la crudeltà
razionalizzata, la distruttività e la cieca obbedienza alle regole
morali autocratiche del leader>>(ibidem, p.328).
Naturalmente,
però, per Kernberg la psicoanalisi non può assumere il ruolo di
asseverare la verità di sistemi etici universali quali quelli
religiosi, non può fornire un'analisi esaustiva di un tale sistema di
valori etici transpersonale, sovraordinato: <<le funzioni
psicologiche e sociali della religione come sistema di valori
universale, gerarchicamente sovraordinato, e la concezione di Dio come
garante, o principio astratto, o concetto unificante di un sistema
religioso può avere la sua origine intuitiva nello sviluppo
dell'apparato psichico ma non può essere contenuta, io credo, entro
il "vertice scientifico" della teoria psicoanalitica>>
(ibidem, p.329).
Quale
allora può essere il compito dello psicoanalista di fronte alle
manifestazioni della religiosità dell'analizzando? Esso può
consistere non certo in quello di guida spirituale, o al contrario
di colui che cerca di rimpiazzare le 'illusioni' con le
'indubitabili' certezze della razionalità, ma semmai nel
"valutare" se la religione contribuisca in quel paziente a
limitare la sua capacità di esplorazione e risoluzione di conflitti
inconsci <<che precludono lo sviluppo di colpa, riparazione,
perdono, responsabilità e giustizia quali aspirazioni di base dell'individuo>>(ibidem,
p.329), oppure alla razionalizzazione dell'odio e della distruttività
diretta contro di sé o gli altri.
Se
quindi, per Panksepp e Lichtenberg lo sviluppo della spiritualità
rappresenta il culmine di sistemi motivazionali che si sono evoluti
nella scala filogenetica fino ad arrivare all'uomo, la prospettiva di
Kernberg è più 'ontogenetica' , nel senso che la religiosità matura
rappresenta il culmine di un ben riuscito sviluppo del Super-io. Manca
in entrambi questi due approcci una risposta, a mio parere, a quello
che, nella sua lettera da me posta in exergo, Winnicott scrive a Clare
Bitton a proposito della fede nel bene, e di come la
psicoanalisi possa far luce sui fattori che la favoriscano nello
sviluppo psicologico dell'individuo. E, quindi, vengo al libro
"Psicoanalisi e fede: un discorso aperto" in cui, nel
capitolo scritto da Lucia Fattori e Cesare Secchi "Emergenza del
vero Sé fra crisi di fede ed esperienza estatica", dopo un
percorso densissimo in cui gli autori cercano con ricchezza di rimandi
psicoanalitici in cosa si celi il "segreto" dell'estasi, mi
ha colpito a pag. 131 il riferimento al concetto di
"sintonizzazione affettiva" di Daniel Stern. Mi sembra
questo un riferimento chiave in quanto sta nel dialogo e negli scambi
di rispecchiamento affettivo tra la madre ed il bambino piccolo il
"segreto" non solo dell'estasi, ma direi più "terra
terra" del sentimento di fede nel bene che potrà alla fine
prevalere. La sintonizzazione affettiva si trova nel cuore
dell'accesso del bambino, tra il settimo ed il nono mese, alla intersoggettività: <<a questo punto diventa possibile attribuire
per la prima volta al bambino la capacità di provare un'intimità
psichica, cioè la disponibilità all'apertura, il senso della
permeabilità fra due persone (...)>>(Stern, 1985, p.135 dell'ed.it.
1987). Questo accesso all'esperienza di "esser con"
qualcuno è alla base di quelle sequenze interattive generalizzabili (RIG's
secondo la terminologia di Stern) che consentono al bambino di
aspettarsi uno sguardo empatico in situazioni di stress emotivo, che
quindi può essere generalizzato, cioè essere atteso anche dagli
altri caregiver e poi diventare uno sguardo empatico che gli proviene
dal suo stesso interno. A questo punto però, con l'accesso al Sé
verbale il bambino può scoprire l'inautenticità, ossia la
discrepannza tra il contenuto verbale (Sé verbale) di ciò che viene
comunicato e il suo contenuto esperenziale (Sé pre-verbali).
A
mio avviso, una possibile chiave di lettura delle esperienze estatiche
o più comunemente di 'pienezza' di Sé che vengono riferite nella
letteratura religiosa può essere quella di un percorso che porta al
superamento della distorsione operata dal Sé verbale sulle altre
modalità del sentire (Sé pre-verbali), attingendo ad esperienze che
presentano il carattere dell'ineffabilità proprio perché si
sottraggono alla presa del Sé verbale. Sta qui il significato, a mio
avviso, del vero Sé percepito come unità (che riscopre il Sé
nucleare dei mesi che vanno dal 3° al 6°), <<non come una
difesa contro l'angoscia, ma come un'espressione di io sono ,
io sono vivo, io sono me stesso (...)>> (Fattori, Secchi,
p.124). Questo richiamo alla vitalità è fondamentale: la vitalità
è proprio il risultato della capacità dell'individuo di liberarsi
delle pastoie del Sé verbale e di riscoprire gli "affetti
vitali" che hanno guidato la sua esplorazione di Sé e del mondo
da bambino sotto lo sguardo sintonizzato ("attuned")
materno. La sintonizzazione affettiva, che è poi la "porta di
accesso" all'intersoggettività non è altro che la
corrispondenza tra gli affetti vitali del bambino e quelli del
caregiver, e quindi può servire oltre che da
modulatore di essi, anche da amplificatore... Forse sta qui il
"segreto" che unisce la scoperta del vero Sé in un tempo,
quello del "momento presente"(Stern, 2004) in cui si sperimenta un
affetto ineffabile quale l'estasi. <<Un momento senza tempo, una
nuova costruzione della coscienza che si può realizzare quando il
modo primario (aggiungerei io, I SE' PRE-VERBALI, mia aggiunta in
corsivo) e il modo secondario (il SE' VERBALE che parte dal
18° mese ed il SE' NARRATIVO dopo i tre anni in cui è incluso il
periodo edipico, mia aggiunta in corsivo) di funzionamento della
mente possono essere conosciuti insieme (Loewald, 1978, p.65). (...)
questi momenti sarebbero correlabili all'infanzia, al sogno, nonché
alle esperienze emotive profonde come l'esperienza estatica>>(Fattori
e Secchi, p.110).
Interessante
è poi anche quanto scrive Gabriella Vandi, l'altra curatrice del
libro, nel suo testo "Il credere come bisogno umano a partire dal
pensiero di Freud: in ascolto nella stanza d'analisi", a
proposito del "sentimento oceanico" di cui Freud scrisse,
sollecitato dalla corrispondenza con Romain Rolland. Il sentimento di
"partecipazione a un tutto"(Vandi, p.142),
"l'intuizione di un'unità originaria" (p.143) hanno a che
fare, secondo me, proprio col sentimento di nostalgia per quei Sé
pre-verbali (che si sono sviluppati nell'intima "danza"
dialogica con la madre) più che con la "nostalgia per il
padre", di cui parlava Freud. Se sono le forme vitali che
consentono di rievocare la totalità di un'esperienza (Stern, 2010,
p.108 dell'ed. Cortina), esse hanno punteggiato le esperienze
fino ai 18 mesi di vita (del Sé emergente, nucleare, e soggettivo)
grazie alla capacità della madre di corrispondenza e di contingenza (Tronick,
2008; Beebe, Lachmann, 2014) e poi continuano a punteggiare le
esperienze del bambino anche dopo l'avvento del Sé verbale, producendo però
uno iato tra un prima e un dopo. Scrive infatti Stern (1985, p.169)
che <<in realtà il linguaggio è un'arma a doppio taglio. Esso
fa sì che parti della nostra esperienza divengano più difficilmente
comunicabili a noi stessi e agli altri. Inserisce un cuneo fra due
forme simultanee di esperienza interpersonale: quella vissuta e
quella rappresentata. L'esperienza che ha luogo nei campi di relazione
emergente, nucleare e intersoggettiva, e che prosegue
indipendentemente, non può esser fatta rientrare se non in modo molto
parziale nel campo di relazione verbale. E, nella misura in cui agli
eventi che hanno luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito
un valore di "realtà", ne risulta un'alienazione delle
esperienze che hanno luogo negli altri campi>>. Ora, siccome,
come giustamente evidenzia Gabriella Vandi, Freud parte dalla
<<centralità del complesso edipico>> (anziché dalla
centralità dell'accesso alla intersoggettività come fanno gli
indirizzi psicoanalitici recenti più sensibili all'infant research),
non c'è da stupirsi se Freud non avesse colto ciò che invece aveva
colto Rolland, ossia che il sentimento oceanico corrisponde proprio
alla <<lontananza da quel mondo sconosciuto e misterioso che è
il mondo femminile, legato alle primitive esperienze relazionali del
bambino con la madre>>(Vandi, p.144).
Il
tema del sentimento oceanico viene poi svolto con maggiore ampiezza
storica nel capitolo di Sophie de Mijolla-Mellor "Il bisogno di
credere e le sue fonti oceaniche. Il sentimento oceanico e la sua
relazione con il credere" e da Valeria Egidi Morpurgo, con
riferimenti a Buber, all'Unheimlich di Freud ed agli sviluppi
post-freudiani del concetto di fusionalità nel capitolo "Tra
questa immensità. Stati empatici e psicoanalisi".
Infine,
i temi del "silenzio di Dio" e dell'"irrappresentabilità"
di Dio vengono svolti nei capitoli conclusivi, rispettivamente di
Enrico Gallucci e di Ambra Cusin, completando ed approfondendo la
trattazione di ambiti che sono al confine con la comprensione
psicoanalitica, aree di confine/limite su cui d'altro canto sia Arrigo
Bigi che Maria Stanzione si soffermano nei rispettivi capitoli.
Interessanti
sono poi i capitoli sia di Maria Stanzione, sia di Lucia Fattori e
Cesare Secchi, che di Lidia Leonelli Langer che attraverso delle
potenti vignette cliniche ci illustrano quell'esigenza che Kernberg ci
ricordava di occuparsi della dimensione religiosa del paziente come
rispecchiamento della capacità di funzionamento 'sano'
dell'analizzando. Per Leonelli Langer il silenzio dell'esperienza
religiosa ed il silenzio della seduta psicoanalitica hanno dei punti
in comune (anche nel testo di Gallucci) nell'esigenza di "fare
spazio in sé"(Leonelli Langer, p.97) nel senso di <<fare
spazio in noi anche al silenzio che si oppone alla comunicazione, al
silenzio duro delle chiusura in sé, al silenzio teso di chi non vuole
confrontarsi o non sa farlo oppure teme di perdere un'immagine di sé,
al silenzio di chi non sa dare un nome alle emozioni o forse se ne
vergogna, al silenzio di chi non trova le parole, a quello di chi non
le cerca più. Saper fare silenzio dentro di sé è anche in questi
casi essenziale, perchè vuol dire non reagire immediatamente, non
giudicare, ma fare spazio alla compassione che condivide la sofferenza
e la pena dell'altro riconoscendola come propria e cercando di darle
un senso. E' difficile ascoltare in silenzio questi tipi di silenzio,
che ci feriscono e che spesso ci lasciano stremati, eppure anche in
essi abita una verità che va cercata>>(Leonelli Langer, p.97).
Mi sembra importante, alla luce di queste considerazioni, discriminare
il silenzio come accesso a parti del Sé inaccessibili al Sé verbale
simbolico (che potremmo ricondurre ad una conoscenza relazionale
implicita) e che ha bisogno di un analista che entri in risonanza
anche in modo extra-verbale con l'analizzando, da un silenzio che è
espressione di relazioni dis-sintoniche che si sono depositate e
generalizzate in questa conoscenza relazionale implicita, esitate
nell'uso delle difese della rimozione o del diniego, e che richiede
all'analista anche un ricorso all'analisi del
transfert-controtransfert. Nel primo caso, far emergere gli altri Sé
(quelli pre-verbali) ed accordare un riconoscimento alla pluralità
dei Sé può essere il compito che si può condensare nelle immagini
metaforiche dell'esodo (Leonelli Langer, p.101) e della 'religione
come religare' (mettere insieme) su cui già Mauro Mancia aveva
ampiamente scritto (Leonelli Langer, p.103).
In
buona sostanza, notevoli sono i punti di forza del libro, tra cui
anche l'apertura a contributi di non analisti (ricordo il capitolo con
l'intervista al filosofo Umberto Curi, e il capitolo del docente di
scienze bibliche Giuseppe Barbaglio), ma per onestà intellettuale
devo segnalare anche i punti di debolezza dell'opera che riassumerò
per punti:
1)
come accade per molti libri collettivi la difficoltà è quella della
ripetitività dei concetti da un contributo all'altro. In particolare
molti richiami alle opere di Freud che trattano di religione sono
ridondanti ed il lettore arriva alla fine del libro un po' stanco...
2)
l'ambito della fede e della religiosità a mio parere non può oramai
essere avulso dal contributo di saperi in un'ottica transculturale, e
quindi avrei visto con piacere un contributo sugli stessi temi ma che
esulasse dalla 'solita' linea di sviluppo ebraico-cristiana che da
Freud conduce ai post-freudiani. Autori come Fethi Benslama
sull'Islam, per fare solo un nome, avrebbero molto da aggiungere in
questo senso. Oramai i nostri servizi psichiatrici, forse meno in
Italia gli studi privati, ci portano a confrontarci con le dimensioni
religiose di pazienti sempre meno imbevute dal pensiero
ebraico-cristiano e sempre più condizionate da altre confessioni
religiose;
3)
mi sembra che manchi, poi, un riferimento a quanto la dimensione
religiosa trascini con sé dimensioni anche politiche nella relazione
tra analista e paziente. Un bel lavoro di Henry Abramovitch sui
"complessi culturali in un''analisi con un palestinese nel Giorno
del Ricordo di Israele"(Abramovitch, in Cusin, Leo, 2017) da
parte di un analista israeliano può essere illustrativo di ciò che
intendo dire.
Insomma,
un'azione da parte dei curatori di rendere più diversificati i vari
contributi evitando le ripetizioni ed un'integrazione con questi tre
ambiti (che ho elencato) forse poteva rendere più agevole la
lettura e più esaustiva la trattazione dei contenuti del libro,
che comunque costituisce un'opera davvero meritevole di lode, in
un panorama psicoanalitico italiano sempre più appiattito in opere
individuali (di celebri analisti che raccontano delle loro splendide
carriere) e sempre meno aperto a opere collettive in cui si
mette il lettore a confronto con la proibitiva problematicità di
certi ambiti di pensiero e di clinica. Una grande ammirazione, quindi,
per i curatori e tutti gli autori del libro "Psicoanalisi e fede:
un discorso aperto" per il coraggio mostrato nell'affrontare in
modo appunto "aperto" tematiche così ostiche da far tremare
i polsi a chiunque!
Note:
1) Si tratta di un percorso affascinante transdisciplinare di
cui, devo lamentarlo, non c'è traccia nel libro
"Psicoanalisi e fede: un discorso aperto": a mio
parere qualsiasi discorso per rimanere aperto non basta che
esplori quel "confine" all'interno di una sola logica,
quella psicoanalitica, perché finisce per diventare un discorso
"meno aperto" di quello che invece risulterebbe
"aprendolo" ad un'ottica più transdisciplinare in cui
si operi un "doppio discorso"(Devereux, 1985) aperto
non solo a teologi o filosofi (come accade nel libro con
Barbaglio e con Curi) ma anche ad antropologi ed etnologi,
neuroscienziati, ecc..
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