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"Essere bambini a Gaza. Il trauma
infinito"
Authored
by/autore: Maria Patrizia Salatiello
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Mediterranean
Id-entities
Anno/Year:
2016
Pagine/Pages:
242
ISBN:978-88-97479-08-6
Psychoanalysis,
Collective Traumas and Memory Places (English Edition)
Edited
by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di:
R.D.Hinshelwood
Writings by/scritti di: J. Altounian
W. Bohleber J. Deutsch
H. Halberstadt-Freud Y. Gampel
N. Janigro R.K. Papadopoulos
M. Ritter S. Varvin H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Mediterranean
Id-entities
Anno/Year:
2015
Pagine/Pages:
330
ISBN:978-88-97479-09-3
"L'uomo
dietro al lettino" di
Gabriele Cassullo
Prefaced
by/prefazione di: Jeremy
Holmes
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Biografie
dell'Inconscio
Anno/Year:
2015
Pagine/Pages:
350
ISBN:978-88-97479-07-9
Prezzo/Price:
€ 29,00
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"Neuroscience
and Psychoanalysis" (English Edition)
Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Georg Northoff
Writings by/scritti di: D. Mann
A. N. Schore R. Stickgold
B.A. Van Der Kolk G. Vaslamatzis M.P. Walker
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Psicoanalisi e neuroscienze
Anno/Year: 2014
Pagine/Pages: 300
ISBN:978-88-97479-06-2
Prezzo/Price: € 49,00
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Vera
Schmidt, "Scritti su psicoanalisi infantile ed
educazione"
Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Alberto Angelini
Introduced by/introduzione di: Vlasta Polojaz
Afterword by/post-fazione di: Rita Corsa
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2014
Pagine/Pages: 248
ISBN:978-88-97479-05-5
Prezzo/Price: € 29,00
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Resnik,
S. et al. (a cura di Monica Ferri), "L'ascolto dei
sensi e dei luoghi nella relazione terapeutica"
Writings by:A.
Ambrosini, A. Bimbi, M. Ferri, G.
Gabbriellini, A. Luperini, S. Resnik,
S. Rodighiero, R. Tancredi, A. Taquini Resnik,
G. Trippi
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della Psicoanalisi
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 156
ISBN:978-88-97479-04-8
Prezzo/Price: € 37,00
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Silvio
G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"
A cura di/Edited by: A. Cusin & G. Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 476
ISBN: 978-88-97479-03-1
Prezzo/Price:
€ 39,00
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura
di G. Leo e G. Riefolo (Editors)
A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 426
ISBN: 978-88-903710-9-7
Prezzo/Price:
€ 39,00
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AA.VV.,
"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Cordoglio e pregiudizio
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 136
ISBN: 978-88-903710-7-3
Prezzo/Price: € 23,00
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 382
ISBN: 978-88-903710-6-6
Prezzo/Price: € 39,00
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 348
ISBN: 978-88-974790-2-4
Prezzo/Price: € 19,00
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2011
Pagine/Pages: 400
ISBN: 978-88-903710-4-2
Prezzo/Price: € 38,00
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"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
Prezzo/Price: € 25,00
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 41,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Edizione: 2a
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011
Prezzo/Price: € 34,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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“[...]
Ogni misterioso rivolgimento del mondo ha i suoi diseredati
ai
quali ciò che era non appartiene loro più,
e
non ancora ciò che si approssima.
Perché
anche il più vicino è lontano per gli uomini [...]”
(Rainer
Maria Rilke, da VII elegia)
Non
diversamente dal secolo che l'ha preceduto, il XXI scrive pagine di
storia con pennelli intrisi di sangue. Ai primi vagiti del nuovo
millennio l'azione
terrorista che ha collassato le Twins towers, ha riproposto –
con la tenacia propria della storia -
i conflitti dei decenni precedenti.
Diciannove
fondamentalisti islamici, all'alba dell'11 settembre 2001, dirottati 4
boeing commerciali USA, hanno portato la morte nel cuore
di New York. Dei quattro, uno con il suo carico di
passeggeri, precipita sul
Pentagono; il secondo esplode in volo; il terzo, alle 8,45, si
schianta contro la Torre Nord e il quarto, 17 minuti dopo, buca la
Torre Sud. La spettacolarità dell'impresa dà misura del nerbo
ideologico che l'ha coordinata, del numero dei test di prova a cui i
partecipanti si sono sottoposti, della qualità, quantità di odio che
l'ha forgiata e reso i suoi componenti un unico corpo che, novello
dragone,
ha riversato morte e distruzione sulla
terra e gettata nuova legna nella fornace delle ostilità.
Dopo
nemmeno un mese dal terribile schianto, gli Usa e le forze Nato, con
l'obiettivo di colpire il territorio controllato dai talebani e da
Al-Qaeda, hanno invaso l'Afganistan; raid aerei dei B52, mute di
uomini, carri di ultima generazione, elicotteri Apache, missili cruise
e sottomarini hanno iniziato con tempeste di fuoco a mordere la
regione.
Il
conflitto dà l'avvio ad altri conflitti - nessun nemico resta
indimenticato. Nel marzo del 2003, sulla base di un supposto programma
di costruzione di armi di distruzione di massa e di supporto al
terrorismo islamista, una coalizione internazionale, guidata dagli USA
e dalla Gran Bretagna, invade
l'Irak di Sadam Hussein: ha inizio la seconda guerra del golfo.
La regione si infiamma, le tensioni si moltiplicano e si espandono
all'adiacente, instabile continente africano. Sulle capitali europee
non tarderà a farsi sentire l'effetto boomerang di tale conflittualità.
Nei
teatri di guerra entrano in azione armi
di distruzione di massa che l'industria militare – espressione delle
spinte tanatofile che abitano l'umano – realizza sulle 'formule di
struttura molecolare' a cui i chimici e i fisici hanno carpito
i segreti.
Formule che, trasposte, concretizzate in armi, hanno un
devastante potere di morte. La loro potenza, il loro stoccaggio, la
loro presenza nelle basi militari e nei territori di guerra,
affaticano il respiro del pianeta, sollevano interrogativi,
affollano dubbi che intridono gli animi di angoscia e
incidono sull'orizzonte un arcobaleno nero.
La
letteratura e il cinema se ne fanno interpreti: l'indice dei romanzi
di fantascienza, dei film apocalittici: invasione di extraterrestri,
cataclismi, crolli e distruzione del pianeta terra è in continuo
aumento. Sul romanzo di
H. G. Wells, La guerra dei mondi, Orson Welles il 30
ottobre del 1938, non a caso un anno primo dell'invasione da parte
delle truppe tedesche della Polonia, manda in onda una trasmissione
radiofonica che, sotto forma di cronaca in diretta – dà notizia di
una invasione di marziani. La trasmissione genera un enorme panico tra
gli ascoltatori. Paradosso del sentire umano: la percezione del
pericolo viene proiettata sulle forze della natura e su una futuribile
invasione di extra terrestri.
Disertate
l'introspezione e l'autocritica, la coscienza è intrappolata in una
rete paranoica. Contraddizione
tra l'onnipotenza del fare e l'opacità del sentire che
rende l'essere umano ignavo di fronte alle sue contraddizioni,
ammutolisce la coscienza e trattiene la parola al di qua della follia
che nella guerra ha il suo più orrifico
- inebriante – teatro.
Nelle
aree di guerra la morte lavora all'ingrosso, conta il numero dei
'colpiti' con cifre a più zeri, annienta la vita psichica; i
bombardamenti trasformano in cumuli di macerie i luoghi di culto; i
monumenti - rimandi culturali eretti
a memoria di eventi fondativi della comunità; le abitazioni civili,
gli edifici che il contratto sociale ha eretto a protezione della
vita: ospedali, scuole, palazzi della politica e istituti culturali,
ecc..
La
guerra mette tra parentesi l'interdetto delle tavole della legge,
rende lecito l'uccidere, ottunde l'autorevolezza dei garanti
metasociali, svilisce la Dichiarazioni universale dei Diritti.
Distrugge le infrastrutture: la rete idrica, elettrica, i ponti e
linee di comunicazioni. Semina la terra con mine antiuomo, rende
insicure l'agricoltura e la pastorizia: antiche, primarie fonti di
sussistenza.
La
guerra opacizza il lutto. Dei bombardamenti si conosce il numero
approssimativo dei morti;
ma il macroscopico oblitera il microscopico. Si piangono i singoli,
non le migliaia; più il numero è grande, più l'individuo, la
singolarità, l’unicità della sua esperienza, scompare.
Sulla
scia della guerra avanza lo spettro della fame e l'alito malsano della
miseria. L'angoscia si duplica e macula l'orizzonte di paure.
La
paura discende dal cielo che - da regno del sole e della luna, da
reggia dell'olimpo, del dio delle religione monoteiste, a cui per
millenni l'umanità ha offerto sacrifici, rivolto preghiere, bruciato
incenso e tratti presagi dal volo
degli uccelli - è
divenuto un inverecondo arsenale di morte. Dai suoi spazi solcati da
fortezze volanti - F 16, droni, caccia, ecc. - precipitano sulla terra
uragani di bombe.
La
paura sgorga dal mare sulle cui acque navigano, portaerei, sottomarini
atomici.
La
paura abita la terra ove avanzano rombanti le truppe amiche e nemiche
e, nei luoghi ove pulsa la vita quotidiana, esplodono i kamikaze.
Paure
che sopravanzano ogni pensiero,
tingono di vergogna l'immagine dell'umano che reca la morte a sé e al
simile, rendono nefasta la stanzialità e impossibile la continuità
della vita sulla terra degli antenati. La paura rizza la pelle e nel
contempo chiede di prendere atto della realtà, di ciò che non si può
pensare fino in fondo: abbandonare la terra, la casa, le mura che,
mute testimoni dei linguaggi affettivi, dei progetti dell'intimità
coniugale, dei vagiti dei nuovi nati, hanno protetto il sonno dopo
pesanti ore di lavoro e assistito al “supremo scolorir del sembiante”
di coloro che vi sono deceduti. Abbandonare la casa, pelle seconda,
esterna, pregna di proiezioni, consce e meno, del proprio
'Io/ambiente/mondo', è una decisione lacerante.
La
sopravvivenza, la razionalità, suggerisce la fuga, ma la mente –
appesantita da oscure paure - fa fatica a sostenerla. Si
preparano i fagotti, si serrano le porte, ma le gambe tremano,
un'inedita vulnerabilità le
soverchia; uno stato di insensatezza dissolve il senso dell'esistenza.
Le
emozioni hanno radice nel corpo; il sentire psichico ed affettivo
accoglie le pressioni che provengono dal corpo, le percezioni, le
sollecitazioni che vengono dal suo interno e dall'esterno: incrocio
sempre singolare, individuale. In terre di guerra, in faccia al
fantasma della morte, della fame, l'umano è assalito da uno sgomento
che, se non contenuto e pensato, può generare correnti di odio e
agiti violenti o, all'opposto, un controllo onnipotente, un pensiero
freddo che rigetta le emozioni e da esse si dissocia. Qualora ciò
accade, il pensiero – perduto ogni contatto con i sensi che lo
originano, le palafitte che lo sostengono -
misura la realtà con schemi astratti, l'arbitrio, il dogma.
Tragica
alternativa: o alla violenza degli affetti segue il blackout del
pensiero e l'arbitrio dell'agire, o il pensiero
si dissocia dagli affetti, dalla sensibilità che lo genera e,
fanatico dell'assoluto, abbraccia l'illusoria onnipotenza narcisistica
di essere nel giusto, di essere innocente. L'innocenza “colma di
Verità e di Bene, appagata della propria certezza di sé, finisce
invece nella cecità totale e totalitaria dei persecutori” (Escobar,
82).
Biografia e storia, l’intrapsichico
e transoggettivo
Cosa
accade alla mente quando si misura con le situazioni di vita estreme?
Quale il marasma che l'invade e collassa la barriera antistimolo?
Quale lo scollamento che fa dell'Io di oggi, l'ombra di quello di
ieri?
Mi
soffermo ora su due elaborazioni teorico/cliniche che, a mio parere più
di altre, avvicinano lo
iato che si spalanca nell'animo umano quando vacillano le strutture
sociali e si sfalda la catena che tiene assieme la biografia e la
storia, il singolo e la collettività.
José
Bleger, psicoanalista argentino, riflette sul legame primario che
all'alba del mondo extrauterino unisce il nuovo nato all'ambiente; sul
vincolo simbiotico primario che contiene, con il compito di continuare
a contenere, le fonti prime del sentire.
Lo
psicoanalista francese René Kaës colloca le
radici del soggetto, le palafitte della sua soggettività, nel
tessuto psichico che lega i garanti metasociali[7]
e i garanti metapsichici. Ai primi spetta il compito di
garantire il rispetto delle leggi, della religione, dei valori della
cultura, della storia e della tradizione, ai secondi, i garanti metapsichici,
il rispetto degli
interdetti fondamentali e dei contratti
intersoggettivi che
strutturano la psiche. Coesistenza di valori tra mondo esterno ed
interno che non dovrebbe conoscere improvvisi e drastici mutamenti. Ciò
perché, dietro l'arroganza che supporta l'essere umano, dietro il suo
fiero individualismo, vi è il/la neonato/a inerme, non in grado, se
abbandonato/a, di affacciare la vita.
Lo/la sostengono i legami affettivi, le strutture sociali,
consapevoli dell'ombra di morte, del
'piede di argilla' con cui si attraversano le ore del vivere.
Un
rapido accenno a queste due teorizzazioni:
José Bleger
Il/la
piccolo/a dell'uomo entra nella vita immerso/a in un insieme
indifferenziato, affatto sprovveduto, impossibilitato a discriminare sé
dagli altri, la sua pelle da quella dell'altro, il seno che lo/la
nutre dalla sua bocca. Il legame parentale, per Bleger 'legame
simbiotico primario', lentamente aiuta l'infans a distinguere
ciò che che è suo, da ciò che non lo è. Legame simbiotico
primario che al sorgere della vita lega
il/la nuovo/a nato all'ambiente a cui è affidato il compito di
lenire, contenere, dare un nome a ciò che l'infans prova e
soffre; da cui è invaso.
Le
prime percezioni e sensazioni del vivere, intense e violente -
indifferenziato nucleo agglutinato- si riversano sull'infans, sul suo Io
fragile e incoeso. Matassa di sentire, confusa, informe, potente e
massiva che sovrasta la sua aurorale struttura psicologica
inizialmente dotata solo di risposte di rifiuto: scalciare, sputare,
evacuare; in casi gravi, una difensiva chiusura al mondo (autismo).
L'ambiente accoglie l'impotenza dell'infans, se ne fa carico,
placa i suoi improvvisi terrori. Così facendo stringe con il/la
nuovo/a nato/a un vincolo simbiotico, primo ponte Io/mondo che
assorbe, contiene e placa i residui della vita intrauterina, le
sensazioni enterocettive, esterocettive, olfattive e visive; le prime
indistinte percezioni me/non me e l'iniziale sentire psichico.
L'lnfans
non può fare altro che gettare via,
proiettare ciò che
lo disturba, lo affanna e lo turba; l'ambiente contiene (dovrebbe)
tutto ciò, si fa pelle seconda, dando origine al primo orizzonte
relazionale; alla rete depositante/depositato/depositario su cui
poggiano le prime radici dell'Io.
Fra
il/la piccolo/a e l'ambiente
si istituisce in tale modo uno scambio di gesti, suoni, odori,
sensazioni epidermiche, relazioni preverbali che istituiscono e
puntellano le prime architravi della mente. Il/la piccolo/a è
fuso con l'ambiente umano e non umano, questi se ne fa ospite
generoso, depositario attento, non prevaricante. L'infans proietta
i colori del proprio sentire, l’ambiente li accoglie, ne snoda le
ansie e tesse il legame intersoggettivo che riverbera
nell’intrapsichico nuove qualità emotive.
Il
vincolo simbiotico Io/ambiente, inizialmente fondante, ha un decorso
(dovrebbe averlo, altrimenti si scivola nella patologia)
via via più lasco; nondimeno, in parte, a dispetto delle
arroganti affermazioni di indipendenza degli adulti, il nucleo
primario, agglutinato, dell'Io – voce muta di vissuti sincretici, di
sensazioni di vuoto, di esposizione alla 'deiezione nell'essere'-
permane incistato, inelaborato, all'interno di ogni individuo e,
in tale stato, dovrebbe permanervi. Tale nucleo psicotico originario,
proprio di ogni essere umano, grumo di affetti coesi, indifferenziati
– non sono ancora presenti le coppie oppositive
buono/cattivo - non chiede di essere elaborato, ma di essere
contenuto e condiviso con l'ambiente, di permanervi silente,
immobile.
Qualora
si verifica la perdita, inattesa e violenta, dell'ambiente, del
depositario, dell'anonimo contenitore dei vissuti primari, dello
sfondo silente che li immobilizza e contiene, l'Io è invaso da un
confuso, disorganico, stato di malessere.
Quando
ciò accade l'Io - smarrito per la perdita dell'ambiente-nido, delle
parole della sua lingua, impotente, senza risorse e soccorso,
sgomento, in preda ad alterati stati di
coscienza - vacilla. Sono venute meno le sue identificazioni
fondamentali, con esse la fiducia nelle sue capacità. L'Io è invaso
da moti di ostilità, di autoaggressività e malesseri diversi; ma la
loro natura non è
organica. E' il messaggio cifrato, il pianto dell'Io che ha perduto la
terra, la casa, i luoghi dei sui antenati, le radici del suo albero
genealogico, la comunità dei coetanei, gli “oggetti culturali” e,
con essi, l’ambiente non umano in
cui è cresciuto.
La
sofferenza che lo invade non ha un'origine psicogena, è relata alla
difficile, forse impossibile comprensione di ciò che vive e subisce.
Folle, psicotica, non è la sua persona, ma la congiuntura storica e
sociale in cui vive.
René
Kaës
Donald
Winnicott, negli anni '50, ha prestato particolare attenzione allo
spazio transizionale ove il sentire psichico incontra il mondo esterno
e viceversa. Spazio ove, se le cose procedono bene, l'assolutamente
soggettivo e l'oggettivamente reale intrecciano relazioni che aprono
la mente all'illusione, alla
fantasia, alle arti, alla religione, alla creatività e alla scienza.
Sulle
orme dell'analista inglese, Kaës – da lustri interessato alle
dinamiche delle istituzioni, ai gruppi sociali e al
disagio individuale – interroga le relazioni che
interconnettano il soggetto agli altri a lui vicini, al grande mondo
sociale e viceversa. Relazioni ove il reale psichico - gli affetti, le
rappresentazioni, le pulsioni, i conflitti, desideri/difesa,
piacere/dispiacere -
incontra il mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi costumi,
le istituzioni religiose e
le tradizioni.
Incontro,
sovrapposizione, di ogni storia ad altre storie, depositi più o meno
consci di esperienze psichiche, vissuti degli antenati, traumi
sociali, ecc. Incroci tra l'intrapsichico (l'area assolutamente
privata del mondo interno), l'intersoggettivo
(il primo cerchio relazionale)
e il transoggettivo (il sociale).
Aree
del vivere, solcate da reti di alleanze - consce e inconsce - che
legano il soggetto alla comunità e alle sue radici culturali e
sociali, ove i moti, i sussulti, le nebbie
dell'intrapsichico, giungono al transoggettivo e viceversa.
Quest'ultimo, anello terzo dell'architettura psichica, affaccia i
rapporti tra il soggetto e il sociale, tra la sfera che contiene il me
e quella dell’altro da me e degli altri con cui l’altro da me
entra in relazioni culturali, socioeconomiche, politiche e religiose.
Anello terzo che origina sentimenti di appartenenza/non appartenenza;
sicurezza/insicurezza; che assorbe percezioni, sensazioni che emergono
anonime dalle regioni profonde, arcaiche della psiche e delle
'alleanze inconsce' a cui la ragione non ha accesso.
Il
soggetto che Kaës interroga è il
'soggetto dell'Inconscio.
Il processo di soggettivizzazione che inizia con l'aprirsi dell'infans
al fuori di sé, allo spazio psichico e affettivo delle prime
relazioni intersoggettive che lentamente si estendono alla comunità.
Soggettivizzazione modellata
dai processi dell'inconscio e dal confluire sulle sue determinanti
interne e sui suoi moti conflittuali, dello spazio psichico
intersoggettivo,
spazio da cui “dovrà poi liberarsi, senza però affrancarsene
radicalmente” (2007, 250).
Ogni
soggettivizzazione ha una storia:
è la storia di un quadro di relazioni e di norme che si
modellano all'interno dello spazio Io/mondo; spazio relato
all'ordine della realtà sociale, ai garanti metasociali e
ai garanti metapsichici.
Garanti questi ultimi, che strutturano l'ambiente psichico
vincolandolo al rispetto delle interdizioni fondamentali - non
uccidere, no all'incesto - e ai contratti intersoggettivi.
Processo
fondante, ma non esente da rischi. L'assoggettamento che rende
possibile la piena espressione della persona umana in armonia con i
valori del suo tempo, può, nondimeno alienarla; piegarla “al
sacrificio di una parte di sé a vantaggio di un altro interno o
esterno (istanza, persona, idea, ecc)” (2007, 251 n.).
L'alienazione,
potenzialmente sempre possibile, acquista dimensioni inquietanti
quando le strutture che sorreggono l'inquadramento sociale vacillano,
si incrinano, e il comandamento 'non uccidere' si metamorfizza nel
'diritto di uccidere'. Qualora ciò accade, le fondamenta che
sorreggono gli interdetti, il contratto narcisistico e i contratti
intersoggettivi scricchiolano; il
circuito etico/culturale/sociale e, con esso, i valori di
riferimento della comunità si sfaldano; con essi si smaglia il
delicato equilibrio che connette il mondo interno al mondo esterno e
lega l'individuo al gruppo.
Scrive
al riguardo Levi: “[...] non ci sono demoni, gli assassini di
milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci
rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato,
consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell'ossequio e
del consenso, che è senza ritorno” (221).
Nei
periodi di crisi economica e turbolenza sociale, la politica della
paura, il principio di sicurezza, generano pregiudizi e false
attribuzioni di colpa e, non appena al nemico viene dato un nome e al
pericolo una presunta origine, su di esso – per lo più innocente,
ma 'vittima sacrificabile', capro espiatorio
- si svia la colpa. Il suo sacrificio placa l'ansia, l'ira della
massa, ma la coscienza collettiva ne esce annebbiata.
Il
principio di sicurezza, sempre preventivo, rende la massa testimone
passiva di eventi cruenti di cui prende e non prende atto.
L'identificazione e la punizione del presunto nemico l'acquieta.
Accade così che la ragione, serrata nel fortilizio dell'autoconservazione,
riversa nuova legna sulle spinte mortifere che abitano l'umano e
impregnano le pagine della storia di cimiteri di guerra e massacri di
civili.
Le
atrocità del secolo passato non sarebbero accadute senza la complicità
e la cecità della gente perbene. Gente per bene che bandiere quali 'patria',
'nemico' hanno reso omicidi attivi o passivi.
Inderogabilità
del rapporto
Nausicaa,
nel libro sesto dell'Odissea, invita le ancelle fuggite alla vista di
Ulisse di prendersi cura dello
straniero.
[…] Ma questo è un misero naufrago che c'è capitato,
e dobbiamo curarcene: Vengon tutti da Zeus
gli ospiti e i poveri; è un dono, anche piccolo, è caro.
Via, date all'ospite, ancelle, da mangiare e da bere
e nel fiume lavatelo, dov'è riparo dal vento. [...]
Torno,
con queste parole, alle biografie
spezzate, all'implosione degli spazi e dei significati condivisi, ai
sentimenti di deprivazione, al nostos, agli inattesi smarrimenti
e alla profonda melanconia che appesantiscono il cammino degli/delle
emigrati/e.
Dall'inizio
della loro fuga serrano nelle mani documenti che non li/le proteggono
dai
soprusi, dalla forzata dipendenza da anonimi altri, dai tempi di
attesa lungo i confini ove muri, fili spinati, forze di polizia,
sanciscono che la terra che hanno finalmente raggiunto è per loro
invalicabile, off limits. E' scaduto il loro essere 'persone';
lui, lei, loro declassati a 'non persone'[14].
Lui, lei, loro derealizzati.
Derealizzazione
a cui non è facile opporsi perché, se il mondo esterno li giudica,
li guarda con diffidenza ed una indifferenza che li fa sentire
invisibili, nel mondo interno si muovano forze non meno ostili. Al
coraggio, alla volontà che ha
sorretto, e tutt'ora sorregge, la loro decisione, si oppongono
immagini del passato, ove le difficoltà si presentavano all'interno
di un perimetro conosciuto; riaffiorano tracce mnestiche che
retrodatano l'orologio della storia e gettano ombre scure sul presente
già nero; nubi depressive che suggeriscono di anestetizzare, oscurare
le emozioni per non sentire ciò che potrebbero sentire. Ad esse,
sovente, si associano ipotesi inquietanti, seduttive, inizialmente
respinte con sdegno ma, mano a mano che la meta che li/le ha mossi/e
si fa irraggiungibile, che le giornate che trascorrono nell'attesa non
hanno fine, si fanno sempre più insinuanti. Ipotesi che suggeriscono
di farla finita con l'oggi incerto, di abbracciare il comandamento
assoluto - disperato irrigidimento soggettivo - di
dare un senso ultimo alla vita che ha perduto il suo senso,
facendo proprio il gesto di Erostrato[15].
Nel
loro oggi incerto, di fronte a loro, ci siamo noi. L'unità
complementare richiedente/ospitante/rifiutante ci chiama in causa;
loro/noi; non l'uno senza l'altro. Al nostro osservarli, al nostro
scrutare sui loro volti i segni delle traversie, corrisponde il loro
guardarci. Il loro sguardo interroga il nostro sguardo, quello che
facciamo o non facciamo per loro;
ci rinvia la cattiva coscienza, la pietà, con cui li vediamo
per poi voltare lo sguardo. Interroga le difese con cui - in nome
dell'enormità delle forze politiche/economiche in campo –
giustifichiamo il nostro tenerci lontani dall'azione, ci asteniamo dal
prendere posizione; solleva dubbi sulla nostra presunta innocenza che,
senza reagire, osserva le angustie del loro vivere.
Interroga
noi, la nostra civiltà, La dichiarazione universale dei diritti
umani, le difficoltà sistemiche, le scelte politiche, economiche
e sanitarie; interroga il 'metasociale' che viene meno ai valori della
convivenza, alla difesa della pluralità degli interessi e perimetra
il 'diritto alla vita' all'interno dei confini nazionali';
non media i conflitti tra le richieste, i bisogni
degli autoctoni e degli stranieri, le necessità - per tutti
primarie - della vita e, alla
reciprocità antitetica 'mors
tua vita mea' non contrappone la
reciprocità simmetrica: 'vita tua vita mea', 'mors tua mors
mea' (Fornari,155).
“Il
nostro non fare,
scrive Escobar, comunque lo si giustifichi, è un mancare di fare, e
in questo 'mancare' ci si svela ben più della neutralità di
un'astensione. Intanto, l'innocenza rispetto a un crimine di cui si
sia spettatori non libera dalla responsabilità di impedirlo o di
porvi rimedio, o almeno di tentare di farlo. […] omettere di
prendere partito di fronte all'orrore significa scegliere di non
scegliere, di fatto decidendo di non restare umani” (92).
Non
indignarsi ai fatti che sbarrano la strada alle popolazioni in fuga da
una morte certa ci spoglia di ogni innocenza. Tra le vittime e gli
oppressori, sottolinea Escobar, “tra chi fa e chi guarda non c'è un
confine netto, ma un'area grigia nella quale
gli 'innocenti' rischiano di trasformarsi in complici. Si
tratta di un rischio che riguarda tutti, e che a tutti tocca di
valutare” ( 93).
L'imponente
flusso dei profughi dei nostri giorni avanza con rischi che l'intera
comunità è chiamata ad affrontare affinché le diversità culturali
non degenerino in metastasi sociali e non umilino con divieti
paranoici - no al Burqa, no al Burqini - la comunità. Lo “spettro
che si aggira per l'Europa”, non è l'umanità in cerca di salvezza,
ma l'intolleranza verso l'altro, il diverso. Intolleranza che corrompe
le coscienze, virus che con inattesa rapidità infetta intere nazioni
e rende il vicino di ieri il nemico di oggi.
Straniero
- estraneo
Cosa
rende delicato e difficile il tema dell'estraneo, dell'alterità, del
non me? Cosa origina tale intrico emozionale, quale il suo
ombelico? L'apparire
dell'estraneo è una paura antica, originaria[16],
connessa all'inermità del mammifero umano, a protezione dei suoi beni
primari, delle scorte accumulate per gli 'anni di mucche magre'. Lo
straniero, l'estraneo - termini che poggiano sulla radice extra, carica
di valenze negative[17]
- viene da un luogo altro, ha comportamenti diversi, strani, si situa
sulla 'soglia', calpesta il perimetro del nostro spazio di vita. Il
suo apparire solleva riflessioni che aprono conflitti e impongono
all'Io una scelta: o si espone al non sapere, si apre al
dubbio, al pensiero vuoto in attesa di entrare in relazione, o
si chiude in un arroccamento paranoico. Il nuovo arrivato reca con sé
un'ambivalenza
originaria: è l'altro da me di cui ho assoluto bisogno, e non vorrei
averne bisogno. Genera allarme e parimenti curiosità, incute timori e
apre orizzonti; svela ciò che è oltre, ciò che non è mai stato
visto: terre diverse, altre modalità di vita. La sua figura libera
dai lacci dell'unicità, apre alla polisemia dei linguaggi, dei gusti,
dei miti, delle religioni e dei costumi, mette in discussione
l'assolutezza di qualsivoglia principio. Il timore della sua presenza
si incrocia con la catena dei doni iniziati con l'esogamia[18].
La sua figura invita a sostituire
l'aut/aut, l'o/o, con l'e/e.
Alfabetizzazione
relazionale che, per aprirsi all'incipit di un possibile
discorso, richiede all'Io di trattenere la spada, errare in
terre sconosciute, esporsi alle vertigini del non noto e
all'angoscia del possibile.
Alfabetizzazione
che chiede di farsi carico del potenziale paranoico latente anche
nella persona più normale, fattore antropologico su cui vigilare
perché su di esso l'oggi riversa timori connessi alla corrosione
delle fasce del benessere, alla globalizzazione che smantella i
confini delle merci, del denaro, delle armi; universalizza il
modello di vita occidentale, mentre gli Stati nazionali erigono
muri; l'economia sposta le industrie in terre ove il lavoro costa meno
– ha bisogno di mano d'opera non di persone – e il
profitto è maggiore mentre la tecnologia chiede un numero minore di
braccia. Sviluppo disorganico che produce un aumento delle differenze
economiche tra i paesi e all'interno di un paese. Oltre ciò
disertificazione di estesi territori, mutamenti climatici, guerre che
bruciano la vita in intere regioni e riversano sulla popolazione
fondali di paura che ne corrodono l'equilibrio. Matasse di timori - gonfiati
dalle élites politiche e dai mass media - che facilitano il
rigurgito di paure antiche e offrono nuove esche alle pulsioni avide
ed irrazionali. La diffusa incertezza, l'eclissi del
futuro[19],
temi ardui da pensare, annebbiano
la mente e sopraffanno il pensiero.
Nella
misura del possibile, l'essere umano allontana lo sguardo dalle
frustrazioni della realtà, fugge nell'illusione e proietta su altri
le cause dei propri mali.
Ogni
apparizione di un vissuto di sofferenza – scrive la Aulagnier -
“provoca una reazione che tende ad eliminarne la causa. Questa
reazione dovuta all'omeostasi
del sistema, sfugge ad ogni conoscenza da parte della psiche. [...] Di
primo acchito appare lo scandalo principale del funzionamento
psichico: la sua prima risposta 'naturale' è quella di disconoscere
il bisogno, disconoscere il corpo e 'conoscere' soltanto lo 'stato'
che la psiche desidera ritrovare” (1975, 76).
Fuga
dalla sofferenza, rifugio nell'illusione, nella nebbia
dell'alienazione; difesa psichica che distrae dalle cause che
originano l'attuale massiccia emigrazione. Chiusura mentale che oscura
la lettura dei fatti e fa degli emigrati dei clandestini; inabissa la
dialettica hegeliania servo/padrone e, con essa, arrugginisce gli
intrecci tra intra-psichico/intra-soggettivo/transoggettivo.
Accade così che il pensiero, rinchiuso negli stretti spazi della
posizione schizo-paranoide, arroccato in posizione 'meno K',
anti-conoscenza, spalanca i cancelli del razzismo, si fa generatore di
sentimenti violenti, crudeli che, sulla spinta dell'impotenza e della
paura - come ha mostrato René Girard - muovono alla ricerca
dell'untore; all'individuazione del 'capro espiatorio'.
Dribblata
ogni analisi della situazione e obliata ogni valutazione morale, la
strada - asfaltata dalla scissione buono/cattivo e dalla proiezione
dell'oggetto cattivo sugli emigrati visti come usurpatori – mira
dritta all'individuazione paranoica del colpevole[20].
Le
cause del disagio sono scisse dalla situazione economica e dalla
ricaduta delle scelte politiche sul sociale e, tout court, attribuite
alle colonne degli emigrati in fuga dal sud del mondo.
Proiezione
che svuota il pensiero, getta sospetti sui legami di convivenza,
frantuma, spersonalizza i rapporti tra le persone. Accade così che i
desideri entrano in conflitto con la solidarietà; i bisogni
individuali con quelli collettivi; il narcisismo con il socialismo. La
soddisfazione dei desideri – parola magica che nell'occidente non
conosce limiti - rende impari la dialettica desiderio/solidarietà.
Zoja
al riguardo scrive : “Il desiderio individuale non cessa mai di
abitare nella carne e pulsare nel sangue […] e, raggiunto il suo
limite, lavora per spostarlo più in là, facendosi illimitato”
mentre la “solidarietà è assediata e, con il tempo, corrosa dal
desiderio” (2009, 85). Nel nostro secolo “sembra che i bisogni
individuali siano l'aspirazione universale e la solidarietà
l'eccezione” (ivi, 84); quest'ultima “conosce il sonno, il
desiderio non dorme mai. Dioniso è un dio insonne” (ivi, 99).
Alla
prevalenza dei desideri individuali, fa eco l'impossibilità a pensare
che dello stesso fatto, dello stesso comportamento, inevitabilmente
altre menti danno una lettura diversa,
muovono da considerazioni, angolature diverse, da vertici non
meno legittimi.
L'incontro con ogni Altro avviene all'interno di tunnel mentali ove
residuano tracce di traumi di cui solo in piccola parte i soggetti
sono consapevoli; tracce che spargano ombre, proiezioni – agite e
ricevute – e tratteggiano imprevisti ed oscuri arabeschi. Se di
questi non si coglie il
filo, non si dipana la matassa, l'incontro, carico di elementi beta,
può capovolgersi in scontro. Il patrimonio congenito dell'uno
- che si specchia in quello dell'altro, nella sua radicale
uguaglianza e radicale diversità – si misura con quid
indecifrabili, temuti, controversi, che allertano l'Io e lo
posizionano in difesa.
Allorché
l'incontro avviene fra masse e popoli diversi, l'assicella della
difficoltà, che si alza di molto, chiede alle formazioni intermedie -
i garanti sociali, le cornici valoriali, il metasociale - che
strutturano la convivenza e armonizzano le richieste delle comunità,
di essere salde, di opporsi alle spinte regressive, resistere
all'impeto delle forze distruttive e spegnere le voci che danno fiato
ai tamburi di guerra. La latenza o l'inefficienza del metasociale apre
botole che risucchiano i valori comunitari conquistati in secoli di
lotte, depennano livelli di sentire psichico, strati di sensibilità
emotiva che nel 1948 - dopo la catastrofe delle 2° guerra mondiale
– hanno riscattato l'umanità offesa e, con la Dichiarazione
universale dei diritti umani, affermato il diritto ad 'essere'.
Se
sulle tavole delle trattative tacciono questi valori, l'arcaica
diffidenza che abita l'umano, alle richieste di accoglienza risponde
con la costruzioni di muri. Si abbassa la soglia del pregiudizio e da
essa sgocciolano fili di pece che danno la stura all'avanzare di
barbare regressioni.
Se si custodisce la differenza,
al monologo si sostituisce la polifonia, la mente si apre
all'accoglienza e al silenzio: processo dialettico su cui l'umanità
sarà perennemente chiamata a lavorare. Se la differenza viene
respinta e temuta, l'antinomia
respingimento/accoglienza, negazione/percezione, rifiuto/accettazione
non giunge ad affacciare soluzioni terze; di contro, avanzano ordini
di realtà proni alla distruzione della vita sociale che rendono il
pensiero sordo ad altri pensieri, le categorie logiche inette ad
intrecciare nuove valenze. Alla richiesta di accoglienza, si risponde
con la costruzione di fortezze, si innalzano muri e i richiedenti,
espulsi dalla vista, rinchiusi in
centri di accoglienza legittimi e meno. La separazione
garantiti/vinti, dentro/fuori, si fa netta.
Al
di là del muro, gli esclusi. Fra loro pullulano stati depressivi, sé
disorientati, perdita di autostima, di dignità che possono degenerare
in atti di autolesionismo e/o aggressività. Al di qua, i garantiti.
Il muro, oltre a non proteggerli dal sibilo che fa loro temere la fine
dei privilegi, li depaupera della realtà, isterilisce la recezione di
idee nuove, connettivo essenziale per avvicinare l'inatteso, e li
rende testimoni passivi, corresponsabili del malessere comunitario.
I
muri, espressione concreta di un mondo diviso, innalzano il livello
della paranoia e mettono in allerta gli esclusi e i garantiti.
All'eredità traumatica e agli
affanni degli antenati, sui primi si riversa il rifiuto
dell'oggi che offende la comune identità umana, sui secondi il carico
di una corresponsabilità di cui non sono pienamente consci. Vissuti
confusi, intessuti di rabbia, aggressività, paranoia che portano
acqua al mulino di Thanatos.
[4]
Gunther Anders ha ripetutamente sottolineato la devastante
ricaduta sulla vita del pianeta degli effetti dell'agire
dell'uomo: il gap tra lo sviluppo della tecnica e l'immaginazione
umana. Discrepanza dovuta all'impensabile potenza distruttiva di
tali armi che, per altro, hanno sempre meno bisogno degli uomini
per essere azionate. Le
basi militari controllano il volo di droni, ultima
sofisticatissima tecnologia militare, da migliaia e migliaia di
chilometri di distanza.
[9]
Martin Heidegger in L'Essere
e il tempo.
[15]
Nel
356 AC, Erostrato, pastore greco, per
immortalare in qualche modo il suo nome, incendiò il
tempio di Artemide ad Efeso.
[17]
Le stesse difficoltà si sono riversate sul lemma latino hostis
che nel corso dell'impero di Roma, dall'iniziale significato
di straniero si è impregnato dell'accezione negativa di nemico;
per lo straniero, l'ospite, si è coniato, sulla stessa radice di hostis,
il termine hospes.
[19] “Pensare
al futuro è esercitare un'importante funzione mentale vitale per
la sopravvivenza del sé e della specie”(Bollas, 415).
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