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Il precursore dello stato corporativo in Sicilia

 

I trattati, più o meno scolastici, della Storia d'Italia, sono stati fino a ieri la raccolta mediocremente coordinata delle cronache di alcune regioni, o meglio di alcune città, e di talune famiglie che avevano avuto parte preponderante in certi episodi, al seguito di un papa o di un sovrano straniero. Se guardate bene, per lo meno fino al 1820, manca la storia del popolo, della massa, della nazione. E siccome la coordinazione di queste cronache e la loro riduzione in trattati di storia era fatta fino a ieri da scrittori del nord o della media Italia che, con ragione, sentivano più da vicino e conoscevano più addentro gli avvenimenti che riguardavano le loro contrade, ne è venuta fuori una divulgazione un po' manchevole e monca, nella quale il mezzogiorno d'Italia e la Sicilia specialmente figurano come teatro di episodi secondari, fanno - direi quasi - da contorno, alla storia del papato e a quella di Milano, di Venezia, di Genova, di Firenze e di Pisa. 

In una serie di articoli che ò pubblicato su giornali dell'Italia e anche dell'estero io ò cercato dimostrare invece l'importanza che ebbe e 1'influenza che esercitò in taluni periodi specialmente la Sicilia rispetto ad altre regioni. Attorno al decimo secolo della nostra era, quando in Europa pel continuo succedersi di orde d'invasori non restava quasi più traccia dello splendore romano e soltanto nell' impero bizantino si adunavano i resti di una civiltà in dissoluzione, Berlino non era che un borgo selvaggio della marca di Brandenburgo, Vienna la modesta capitale di un ducato, Londra e Parigi città di poco superiori ai centomila abitanti. Dei comuni del continente italiano soltanto Milano, Pisa e Venezia raggiungevano forse questa cifra di popolazione e Roma smantellata non aveva più che la lustra del suo passato e quella di mantenersi centro della cristianità, potenza soltanto spirituale alla quale gli imperatori portavano spesso dei colpi. Il Piemonte con la Savoia e il Nizzardo fu fino a epoca avanzata uno staterello vassallo della Francia e alle sorti di questa legò le sue sorti sinché non si ribellò, alleandosi per convenienza politica ed economica all'Austria. 

Ma, sorta quasi contemporaneamente all'impero merovingio, la potenza araba si era affermata non come una dominazione barbarica - quale ancora taluni storici superficiali si ostinano a volercela dipingere - bensì come antesignana di quella nuova civiltà che doveva più tardi fiorire e spandersi per l'Europa precisamente dalla Sicilia ove i mussulmani della Tunisia erano venuti a stabilirsi eliminandone i molli bizantini. Qui, infatti, in Sicilia, superato il buio secolare dell'alto medioevo, dal contatto delle esaurite civiltà greca e romana, con la giovanile e guerriera civiltà araba, si origina, nasce e si sviluppa la nuova civiltà artistica e scientifica del basso medioevo europeo. 

Gli arabi di Sicilia ridestano gli spenti echi della poesia, rimasta taciturna dopo Teocrito e Mosco, fanno riudire il canto, danno i primi esemplari di una nuova architettura, diffondono la matematica, la medicina, l'alchimia. Gli arabi di Sicilia aprono le nuove vie ai riattivati commerci, prima di Amalfi, di Pisa e di Genova. L'accanimento e le guerriglie di Pisa contro gli arabi di Sicilia non furono originate da ragioni religiose, ma da questioni economiche, da urto d'interessi e di supremazia commerciale, supremazia che nel Tirreno per circa due secoli fu in mano dei siciliani. I corsari normanni, che ancora da molti vengono considerati liberatori dell'Italia Meridionale e apportatori di luce contro il preteso oscurantismo arabo, non avevano dalla loro che la cristianità: ma erano soltanto rozzi filibustieri che venivano nelle nostre terre per farvi preda di sconosciute e abbaglianti ricchezze. Sostituitisi agli emiri mussulmani nell'antico fiorentissimo stato, essi s'incivilirono alla scuola dei vinti e favorirono lo sviluppo già dato da questi alle lettere, alle arti e alle discipline scientifiche. Sotto di loro e specialmente sotto gli Svevi la Sicilia divenne l'emporio europeo della civiltà, la culla del progresso, la sede di ogni bellezza. 

Con Federico di Hohenstaufen, Palermo, sede degl'imperatori, è la prima città non soltanto d' Italia e di Germania, a cui comanda, ma di tutto l'occidente, e la storia di quel periodo, che si prolunga fino alla battaglia di Tagliacozzo, si aggira attorno alla nostra isola. 

Io vedo ancora, dolorosamente, fatta gran parte nelle nostre storie alle lotte tra comuni e comuni italiani, che dico? alle risse intestine che insanguinarono per più secoli le contrade dell'Italia, e descritte senza sdegno le sopraffazioni di Milano a Lodi e a Como, l'accanimento tra Genova e Pisa e tra Pisa e Firenze, le carneficine fra Rossi e Neri nella città del giglio. E non vedo fatta la parte che merita alla rivoluzione palermitana del 1282, a tutta la guerra del Vespro che è l'unico esempio, in quel tempo, di indipendenza dallo straniero e di sentimento di razza e di nazionalità. 

La battaglia della Meloria con la quale Genova annienta Pisa è un sinistro episodio, la cui ampiezza potrebbe essere sostituita nelle narrazioni dei nostri storici contemporanei dalle cinque o sei battaglie navali combattute e vinte alle isole Eolie, a Capo d' Orlando, nelle acque di Napoli e nelle acque di Malta, dai siciliani contro i francesi, trascurate o taciute. Le vittorie della parte guelfa sulla parte ghibellina a Fossalta e poi a Campaldino sono meno gloriose della battaglia dl Cortenuova e della formidabile resistenza di Messina a Carlo d'Angiò, in cui si videro le donne sulle mura accanto ai guerrieri: 1' una segnò la prima affermazione del principio austero dello stato e dell' unità nazionale sul separatismo e sul negativismo dissociativo dei comuni e del papato; 1'altra il trionfo del sentimento nazionale contro lo straniero.

Dopo gli eroismi quasi anonimi di quell'epoca, che riempie del nostro nome - malgrado la trascuratezza degli storici moderni - gran parte del Medioevo e che mantiene in Sicilia il sentimento dell'indipendenza, che fa della Sicilia il primo vivaio della nazionalità e dell' italianità anche per la nascita della letteratura italica, i movimenti di folla cominciano a diventare moti di uomini, acquistano personalità. Eppure, mentre vediamo citate a profusione figure storiche del quattrocento e dei secoli posteriori anche soltanto per un gesto o per una frase, quasi nessun posto è fatto per Gian Luca Squarcialupo che con nobile sdegno insorse contro le fazioni feudali dalle quali, a tutto vantaggio degli stranieri, veniva insanguinata l'isola nostra che, per importanza economica e politica, occupava pur sempre il primo posto fra gli stati in cui 1' Italia d'allora era suddivisa. 

Al regno di Sicilia, in quel periodo, erano aggregate Malta, l'isola di Gerba e Tripoli; i re di Sicilia avevano anche il titolo di re di Gerusalemme; in Sicilia aveva principio la potenza aragonese che doveva condurre i re di Spagna al predominio quasi assoluto in Europa e nelle nuove terre scoperte da italiani nell'estremo occidente. 

Forse la colpa della depressione dei nostri valori e delle virtù della nostra razza sta principalmente nei nostri difetti che non conviene tacere, per cercare sia pure tardivamente di porvi rimedio. La fine dello Squarcialupo, assassinato dai suoi concittadini, non è sciaguratamente un fatto isolato nella nostra storia. Anche fra noi le lotte intestine, gli odi fratricidi, dovevano da allora diventare sostrato di tutti gli eventi più clamorosi. 

Gli avvenimenti e le opere che ànno avuto per teatro la nostra terra sono soltanto in piccola parte da noi siciliani valorizzati; su tutto quanto ci riguarda prima del Risorgimento noi abbiamo lasciato pesare un velo denso di oblio o di trascuratezza. Milano, Firenze, Genova, Venezia, Roma, Napoli ricordano la loro storia di comune, di stato, con opere, con memorie, con monumenti, con frequenti celebrazioni. Noi tracciamo o partecipiamo alle glorie regionali degli altri, come appesantiti da una mediocrità che sta tutta soltanto - perché non riconoscerlo virilmente? - nella neghittosa incuria degli uomini cosiddetti rappresentativi della Sicilia. 

Un episodio, dei più rilevanti, della storia nostra, è quasi completamente dimenticato. Esistono lunghe disquisizioni, opere in musica, versi, ricordi marmorei sulla congiura di Bedmar a Venezia e sulla rivolta capitanata da Masaniello a Napoli; non esiste, per un avvenimento della stessa epoca e ben più importante svoltosi a Palermo, che una lapide circospetta su una chiesa ora demolita e il nome dato alla brutta strada dietro San Giuseppe, monumentata soltanto da un fetido rifugio pei viandanti. 

L'eroe pressoché dimenticato di quell'avvenimento si chiamava Giuseppe D'Alesi. Nativo della vecchia e illustre città delle Madonie, Polizzi Generosa, egli era venuto a Palermo da ragazzo per apprendervi il mestiere del battiloro e si era presto distinto nell'artigianato come anche nel maneggio delle armi. In materia amministrativa e politica era ritenuto una vera autorità fra i popolani, che l'ammiravano per la sua prestanza fisica, come pel suo carattere risoluto e leale, come per la sua facondia e per la manifesta superiorità del suo ingegno. 

Fuggito da Palermo nel maggio 1647 dopo i disordini provocati dai caprai di Nino La Pelosa, riparò a Napoli ove conobbe Salvator Rosa e Masaniello, accanto al quale si trovò nei primi giorni della famosa rivolta. Tornato a Palermo, comunicò agli amici la sua intenzione d'insorgere contro il malgoverno spagnolo. La Sicilia era da due anni stremata dalla carestia, dissanguata dai balzelli, avvilita dai privilegi delle classi dominanti: offriva dunque, col suo contenuto malcontento, terreno buono ai germogli rivoluzionari. 

La sera del 12 agosto, in una stanza appartata di una bettola di via Sant'Antonio, si riunivano i più noti caporioni della plebe e dell'artigianato palermitano. Erano insieme al D'Alesi: Giacomo Conti, suo compare, Antonino Perello e Matteo Di Liberto, pescatori, Pietro Pertuso lettighiere, Giuseppe Errante, Francesco Daniele e Gian Battista dell'Aquila, conciatori. Si decise d'insorgere per la mattina del 15, approfittando del pellegrinaggio che il Marchese di Los Velez, viceré, con tutta la corte e coi nobili palermitani avrebbero fatto ai santuari di Santa Maria di Gesù e Gibilrossa. Il piano era ardito e semplice: impadronirsi dei pezzi grossi per tenerli prigionieri finché non avessero sottoscritto e fatto sanzionare dal re e dal papa le nuove condizioni proposte e volute dal popolo di Sicilia. 

Si decise di scegliere un capo sorteggiando tre nomi. Ciascuno dei presenti scrisse il proprio su un quadratino di carta, che poi furono messi tutti dentro un quartuccio, misura di vino alla quale i presenti avevano bevuto, in atto propiziatorio, l'uno dopo l'altro. Il primo indicato dalla sorte fu Giuseppe Errante, console dei conciatori, il secondo Pietro Pertuso, temuto caporione dei lettighieri, il terzo D'Alesi. 

La congiura fu sventata grazie a due spie: il vecchio soldato Carlo Di Liberto, cugino del console dei pescatori, e il famiglio dell'inquisizione Francesco Marsiglia. Eroici anche costoro nella loro infamia, affrontarono pericoli pur di giungere in tempo a prevenire l'uno il sergente maggiore e l'altro il grande inquisitore don Diego Trasmiera. 

Ma, avvertito dei primi arresti, operati in fretta e in furia dalle autorità che avevano perduto la testa, Giuseppe D'Alesi, armato di tutto punto e seguito da un pugno d'uomini ardimentosi come lui, si avvia a Palazzo Reale reclamando il rilascio dei suoi amici minacciati d'impiccagione immediata. Il viceré‚ li fa rimettere in libertà sperando placare i furibondi. Ma D'Alesi, nominato subito dal popolo Capitano Generale, assale le armerie governative e il palazzo Pretorio, arma i suoi uomini, toglie anche due cannoni carichi dal baluardo del Tuono, e marcia all'assalto del Palazzo Reale ove gli spagnoli avevano organizzato l'ultima difesa. 

Hanno un bel raccontare i cronisti dell' epoca, quasi tutti per nostra vergogna ligi al governo straniero, che "quei bravi soldati spagnoli" si difesero coraggiosamente contro la "turba scellerata". La mischia s'impegna e ai primi colpi cade il pittore Pietro Novelli, monrealese, amico del D'Alesi, col braccio destro fracassato da una palla. 

Ma il combattimento finisce con la vittoria dei palermitani. Il viceré, con la famiglia e il seguito, fugge da la parte dei bastioni posteriori e arriva a rifugiarsi su una galea che da Santa Lucia prende subito il largo. 

Il Palazzo Reale è preso d' assalto al grido: "fuori lo spagnuolo!" fatti prigionieri quanti soldati non sono caduti o fuggiti. Ma D'Alesi dava ordine di non toccare cosa alcuna e l'ordine confermò, più tardi, anche pei palazzi dei nobili siciliani legati al viceré‚ e più odiati dal popolo. Malgrado gl'incitamenti, rispettò perfino la ricca dimora d'un suo personale nemico, il Mazzetti, che aveva fatto mesi innanzi falsa testimonianza contro di lui. 

I primi atti del Dittatore, subito dopo il trionfo, furono rivolti ad assicurare l'ordine e a disciplinare il successo della rivoluzione in tutta l'isola divenuta, senza più governo centrale spagnolo, quasi completamente padrona dei propri destini. 

Vietate severamente, pena la galera o la vita, le ruberie, i saccheggi, le uccisioni. La Tavola o Banco Pubblico benché rimasta un intero giorno in balia dei rivoltosi, non fu toccata; fin dal 16 agosto, giorno successivo ai combattimenti, fu riaperta, guardata a vista da popolani armati. I nobili e i ricchi borghesi, che sulle prime avevano creduto opportuno asserragliarsi e sparire dalla circolazione, sapendosi mal visti, tornarono ben presto ad affacciarsi. 

Il grande Inquisitore don Diego Trasmiera decise affrontare subito il dittatore, recandosi in persona a trovarlo e nascondendo il tradimento sotto la maschera dell'ossequio e dell'adulazione. Tentò fin dal primo momento, con perfide ma zuccherate parole e offerte, tra cui perfino quella da fargli da segretario, d'influire sui suoi propositi. Ma il fiero popolano declinò ogni abbagliante proposta, rifiutò di lasciar tornare il Viceré per trattare - come quegli assicurava - da pari a pari, e chiamò attorno a sé quali consiglieri i più reputati giuristi di Palermo - di cui gli storici ricordano il Lo Giudice e il Miroldo - e nominò a suoi segretari i giovani avvocati Giuseppe La Montagna e Pietro Milano, che già si era distinto alla testa di molti giovanotti studenti e notai all' assalto del Palazzo Reale. - Al grande Inquisitore domandò, invece, la scarcerazione di don Francesco Baronio, Illustre prelato, storico e letterato, che da qualche anno marciva nelle prigioni del Sant'Uffizio sotto l'accusa di eresia e di lesa maestà, per avere osato dimostrare il diritto della Sicilia all'indipendenza dagli spagnoli. Trasmiera si affrettò a promettere di chiederne caldamente l'autorizzazione... al Papa. 

I nobili, da parte loro, cominciarono a circuire d' ogni lusinga il leale artigiano che non sapeva come meglio districarsi da tante asfissianti premure e cortesie. 

Innumeri prove d' integrità egli seppe dare. Condannò all'impiccagione due dei suoi uomini che malgrado il divieto avevano fatto rapina. Fece passare per le verghe un suo amico, il pescatore Sapienza, che aveva abusato del proprio potere frustando a sangue un prigioniero. E fu inesorabile segnatamente con suo compare Giacomo Conti che aveva truffato quattromila scudi al banchiere fiorentino Pandolfo Malgonelli.

Il 18 agosto 1647 nella sontuosa basilica di San Giuseppe che si finiva allora di costruire, sotto la presidenza del Dittatore, si radunarono gl' Inquisitori, i nobili, i rappresentanti della borghesia e i consoli delle corporazioni artigiane, per discutere e approvare il nuovo statuto del regno di Sicilia, promulgato da Giuseppe D'Alesi. 

Questo statuto, composto di 49 articoli, o capitoli, come si chiamarono allora, alla compilazione dei quali il dittatore fu assistito da illustri giureconsulti, quali Antonino Lo Giudice e Giuseppe La Montagna, portò una vera rivoluzione nell'ordinamento sociale di quel tempo. Venivano rispettati i beni dei patrizi - che si era parlato sulle prime di devolvere alla comunità - e taluni loro privilegi di carattere morale; ma il governo dell'isola, pur mantenendosi come avallante il viceré spagnolo, passava in mano completamente ai siciliani, ai "nativi del regno" (la Sicilia continuò a chiamarsi "regno" fino al 1860 e ancora così la chiamano i contadini e i borghesi dell'interno). Le milizie, per un terzo spagnole e per due terzi italiane (e cioé siciliane e assoldate anche in altre regioni d'Italia), sia di mare che di terra, dovevano avere ufficiali parimente "regnicoli" e con preferenza palermitani; ma oltre queste milizie regie, erano mantenute quelle degli artigiani armati, alle quali era affidata anche la sorveglianza perpetua e la guardia delle porte della città di Palermo. Le corporazioni, inoltre, intervenivano nel governo della cosa pubblica in una giornta superiore, appositamente creata, di sei membri, metà dei quali artigiani e metà patrizi, rappresentanti la proprietà e l'industria terriera. Le stesse corporazioni, che mantenevano amministrazione e leggi interne proprie, regolatrici della produzione e dei prezzi, mandavano inoltre propri delegati ai comuni e al fisco e avevano diritto d'intervenire in ogni pubblica questione coi loro Capitani o Consoli, insieme con quelli della borghesia professionale, coi "Dottori, Procuratori, Notari, Gentil'homini che campano di rendita, Commissari e tutte altre persone di quarteri". 

Era, insomma, un vero e proprio stato corporativo che veniva così a costituirsi, distribuendo diritti e responsabilità a tutte egualmente le classi e i ceti cittadini, con un vasto parlamento popolare che doveva governare in accordo col Senato già esistente. 

I nobili, a denti stretti, sottoscrissero pur sempre lieti di essersela cavata a buon prezzo. Il clero elogiò l'equità, la misura, 1' olimpica saggezza del vincitore. Ma monsignor Trasmiera, che doveva firmare a nome del Viceré de Los Velez, sempre ramingo pel golfo sulla sua galea, sulle prime, non voleva saperne.

- E se sua Eccellenza si rifiutasse di accogliere, questi voti ? - osservò, sorridendo livido, a D'Alesi. 

- Che voti - rispose questi - sono voleri del libero popolo di Sicilia. Il marchese Zunica è forse con noi, qui, a discutere ? Egli è un fuggiasco, vinto, al quale potrei, se volessi abusare, imporre patti ben più gravosi. 

E lo spagnolo firmò, e il Viceré appose dalla nave il suo sigillo. 

Ma Palermo è simboleggiata in un re di corona, cui un serpe succhia latte o sangue dal seno, e reca la scritta "Alienos nutrit, suos devorat". E Palermo divorò anche questo suo figlio esemplare, come Napoli aveva divorato Masaniello, Roma, Cola di Rienzo. 

I nobili, pavidi da un lato e dall'altro irritati dall'intenzione di Giuseppe D' Alesi di nominare vicario il marchese di Geraci o il duca di Montalto per coronano più tardi sovrano del nuovo regno di Sicilia con l'aiuto del cardinale Mazzarino, si strinsero in segreto attorno al Trasmiera. Corse denaro a fiumi. Furono armati famigli e villani chiamati dai feudi; si goffiò nel fuoco delle ire, delle gelosie, delle invidie personali. 

I pescatori indignati del preteso affronto loro fatto con la fustigazione di Sapienza, i mugnai e i lettighieri, altri uomini raccolti nella feccia di tutti i quartieri, si dichiararono segretamente disposti a ribellarsi e a marciare contro il Capitan Generale e i suoi fidi. 

Alcuni amici ne ebbero sentore e ne avvertirono in tempo il D'Alesi. Costui si guardò attorno, interrogò, sollecitò: ma non si vide dinanzi che facce ilari, fronti curve all'inchino, bocche socchiuse alla lusinga. I nobili lo trattavano come uno dei loro, lo colmavano di complimenti e di doni che egli si ostinava a rifiutare; i popolani gli baciavano le ginocchia. E l'uomo leale non credé al tradimento. 

Ma all'alba del 22 agosto il primo dei fedeli, Cicco Panza, mandato a dare ordini, restava ucciso da un'archibugiata. Il fratello del D'Alesi, Francesco, inseguito e raggiunto dall'avanguardia dell'esercito di Trasmiera che si raccoglieva in piazza Marina, veniva sgozzato e decapitato in Piazza Vergini. Gian Battista dell'Aquila a cavallo, in una corsa fantastica giù per la scalinata di Jacopo il Mulo, fatto segno a più di venti schioppettate, uccisogli sotto il cavallo all'angolo di via Candelai, riusciva a imboccare i vicoli della Conceria e a raggiungervi il suo Capitano Generale. Disperato tentativo la difesa del quartiere preso di mira, ove gli altri artigiani lealisti non accorrano in tempo. Sono almeno seimila gli avversari che col Trasmiera alla testa da un lato e da altre parti sotto il comando dei principi di Trabia, Scordia e Butera col Riggio e col Branciforti chiudono in un cerchio di ferro la Conceria, ove non si trovano che ottocento armati. 

A tutti, uomini e donne, che accorrono sotto la sua casa, offrendosi di resistere pur di salvarlo, Giuseppe D'Alesi consiglia la calma. Ma, quelli, i suoi fidi, esigono ch'egli si metta in salvo. Acconsente, col suo alfiere, a fuggire per un passaggio segreto, che mette nelle fogne, dalle quali si sbocca, per più diramazioni, sin fuori le mura, oltre il pericolo. Ma uno di quei passaggi è troppo angusto e non dà varco alla sua corporatura erculea, mentre Dell'Aquila, più smilzo, può introdursi e, incitato da lui, prosegue con l'intesa di andare a chiedere man forte agli artigiani ignari e fedeli di altri quartieri e agli uomini dei sobborghi e delle campagne. Egli ritorna per sotterranei più ampi ma, fatalità! sbocca in una casa presso la scalinata di Santa Maria della Volta ove già si assembrano coi cannoni pronti e le micce accese le schiere assedianti, che lo scorgono e lo riconoscono. 

- D'Alesi ! a noi, D'Alesi ! - urlano ferocemente i nemici, i fratelli accecati dall'invidia, dall'odio, dalla serpigna lusinga dello straniero. Egli, in maniche di camicia, con un crocifisso al collo, si affaccia a un balcone, gridando: 

- Giuro dinanzi a Dio che il mio cuore è puro! Acconsento ad essere giudicato: ma promettetemi che la Conceria non sarà bombardata e che ai miei non sarà torto un capello. 

Promisero. Ed egli scese, fra due ali di conciatori, di donne piangenti, di ragazzi esterrefatti, e mosse senza vacillare incontro all'esercito avversario. Ma venti mani lo ghermirono e varie armi si levarono a colpirlo. Egli scosse una prima volta, con la sua forza taurina, il grappolo umano che lo avvinghiava; cadde, però, ben presto sanguinante, e per le braccia, pei capelli, fu trascinato su per la scalinata fin davanti alla chiesa, ove prestamente un nobile, don Alessandro Platamone, si sostitui al boia e gli mozzò il capo. 

Cosi passò la fulgida meteora della gloria di Giuseppe D'Alesi. Ma già poche ore dopo essersi abbeverata del suo sangue e di quello dei suoi luogotenenti Giuseppe Errante e Francesco Daniele, cavati a forza da un convento ove si erano rifugiati e colpiti cento volte come pel diletto di una caccia dai principi e dai duchi palermitani, poche ore dopo, dico, le orde fratricide erano sgomente delle atrocità commesse. 

Gli artigiani e i borghigiani sollevati da Gian Battista Dell'Aquila e da Pietro Milano chiedevano vendetta, scorazzando furiosamente nei loro quartieri. Furono portati cannoni ai Quattro Canti e puntati contro il corteo del Viceré‚ che ritornava fra i patrizi alla sua intatta dimora. Fu necessario l'intervento del clero, fare squagliare gli assassini più in vista, promettere il rispetto quasi per intero allo Statuto firmato nella chiesa di San Giuseppe. 

Poco tempo dopo per la stessa idea un altro eroe, Francesco Ferro, asserragliato nella propria bottega, resisteva a un nugolo di birri e si lasciava scannare dietro una barricata. 

Eppure il glorioso popolano che merita un posto accanto agli eroi popolani delle altre regioni d'Italia e che rimane la figura più notevole della storia di Sicilia dal Vespro al Risorgimento, è quasi dimenticato. Da qualche anno non resta più nulla del quartiere della Conceria, roccaforte della seconda rivoluzione palermitana, né della chiesa di Santa Maria della Volta, ove un a lapide ricordava che Giuseppe D'Alesi ivi "spirò sotto il ferro dei suoi nemici". 

Mirabile circospezione lapidaria! La cortigianeria degli storici, dei sindaci succedutisi al governo delle città, degli stessi patrioti, impedì fino a ieri che si celebrasse più degnamente e meno ipocritamente l'eroe massacrato pel tradimento di quei nobili signori che pure gli avevano offerto mirra, incenso e oro per averli scampati dal saccheggio e dall'uccisione! Perché i discendenti di quei nobili signori potevano risentirsi che i loro altissimi nomi fossero infamati dal ricordo dell'opera abominevole compiuta sotto il solleone del 1647. Ma almeno oggi che quelle famiglie sono disperse, alcune estinte, altre meno legate ai pregiudizi di casta, sarebbe tempo di riparare all'oblio che ancora pesa sull'anima generosa di D'Alesi, sulle sue carni straziate rimaste senza sepoltura. 

La sua figura cavalleresca si erge quasi leggendaria fra il lordume morale di cui la storia di quei secoli è ingombra. 

Più fiero e consapevole di Masaniello, più integro e austero di Cola di Rienzo, egli uguagliò questi nella vivezza dell'ingegno e superò quegli nel pensiero e nell'azione. Pietro Micca e Balilla sono gli eroi dell'impulso generoso, ma non coordinarono o conclusero tutta una vasta azione. Ciceruacchio è l'uomo alla buona, cui un atto di coraggio e l'ultimo sacrificio, parlando al sentimento, bastano ad assicurare la gloria. Ma il nostro si lascia indietro molti capi-popolo del passato per forza di carattere, per onestà, per equilibrio mentale, per senso elevatissimo di rispetto umano e di giustizia. Né l'opera sua fu infeconda come quella di tanti altri, poiché molti dei privilegi da lui imposti rimasero e dal fuoco che egli aveva acceso crebbe e si propagò nel popolo quel nuovo senso di indipendenza che doveva finalmente esplodere due secoli dopo.

 

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