Epopea francese
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L'EPOPEA FRANCESE NELLA TRADIZIONE POPOLARE SICILIANA

 

Quando, nel novembre del 1929, io tenni alla Sorbonne, per il corso di letteratura internazionale, una lezione su questo istesso argomento, un professore di filologia della celebre università parigina che aveva seguito il mio dire un po' sulle parole ma di più sulle proiezioni che le illustravano, alla fine mi espresse con molto calore la sua viva sorpresa. E mi domandò come mai l'epopea francese, i poemi, del ciclo carolingio e specialmente quelli di Orlando d'Anglante e di Rinaldo di Montalbano, che sono ormai in Francia quasi perfettamente ignoti ai più e sopravvivono soltanto per mero interesse letterario, negli studii esegetici di qualche erudito e nelle ricerche di qualche critico, possano invece essere ancora oggi materia viva di tradizione e d'arte pel popolo siciliano. 

Io gli risposi che questo sarebbe stato il soggetto d'un'altra conferenza; ma che potevo anticiparglielo in sunto in una chiacchierata. 

C'è un detto antichissimo, diffuso in Sicilia, che prorompe dal cuore dei giovani innamorati: 

«Dui su' li maravigghi di lu munnu: 
li to' biddizzi e la spata d'Orlannu!
». 

La spada d'Orlando, meraviglia del mondo. Chi l'a insegnata? come giunse essa al popolo siciliano? Non soltanto coi poemi del Rinascimento, col Pulci, il Boiardo e l'Ariosto, come taluni ànno cercato dimostrare; ma coi più antichi testi originarii che a questi poemi diedero gli spunti. 

Al nuovo patriziato, nato in Sicilia nel 12° secolo dal connubio dell'elemento arabo con l'elemento normanno, si dovette l'incremento delle manifestazioni d'arte. Esso certamente chiamò dalla Francia i trovieri, i poeti della laugue d'oeil che vi portarono l'eco delle mirabili gesta di Roland de Blaye e del nero tradimento di Guêne de Mayence, vi fecero risonare le lasse del poema stravagante di Renaud de Montanban. 

Molto poterono quei maschi canti sulla fantasia vivace del popolo siciliano. Cresciuto alle guerre ed educato ai sentimenti cavallereschi, esso si lasciò sedurre dalle nobili figure degli eroi franchi che entrarono presto a far parte del suo patrimonio ideale. 

Il racconto delle mirabili imprese di Orlando, Rinaldo, Ruggero, Oliveri, Ferraù, Brandimarte, Morgante, prende radici così vive nell'animo popolare da mescolarsi e fondersi con episodi ed atti reali dovuti a personaggi della storia recente e perfino della cronaca. Località e famiglie prendono quei nomi. Da Montanban nacque Montalbano, nome attualmente di famiglia e di un piccolo paese. Da secoli in Sicilia abbiamo casati come Chiaramonte, Orlando, Ruggero; molti Rinaldi e Olivieri in provincia di Palermo e di Messina; in quella di Catania sono diffuse le famiglie Morgante, Brandimarte, Ferraù. 

La tradizione, come già dissi, fu tenuta viva dagli artisti popolari, dai cantastorie, dai pittori di caratteri e di tavole d'acqua, dal teatro dei burattini. Ma essa trovò il terreno adatto ad espandersi e perpetuarsi anche nell'indole dei siciliani. 

Se voi domandate a un nostro monello chi siano stati i re d'Italia, quali le vittorie di Garibaldi e le guerre del risorgimento, nove volte su dieci non vi risponderà senza esitazione e svarioni. Ma provatevi a chiedergli qualche cosa che tocchi le storie dei paladini e dei reali di Francia, e sentirete che eloquenza. Le battaglie di Orlando, le imprese di Buovo d'Antona, la genealogia dei Montalbano egli ce l'à sulla punta delle dita! 

Rinaldo, specialmente, con la sua bravura scapestrata e allegrona, è l'eroe preferito del popolo siciliano. Per vendicarsi della corte che lo à bandito, si dà alla strada e diventa un paltoniere di grande linea, pieno d'ardire e di trovate originali, che combatte tutto e tutti con la spada e con lo spirito mordace. Né il Pulci, né il Boiardo, né l 'Ariosto ànno fatto di Rinaldo una figura così affine a quella del romanzo francese come la tradizione siciliana. Modellanlandosi appunto su lui e considerandolo addirittura come loro patrono, vennero fuori quelle figure di briganti - cavalieri, di masnadieri riparatori di torti e difensori di deboli, di cui e piena la storia delle campagne siciliane. Antonio il Testalonga, Leone, Rinaldi (questi ne ebbe perfino il nome) e sopratutti Pasquale Bruno, immortalato da Alessandro Dumas padre in un suo celebre romanzo, sono allievi di Rinaldo di Montalbano. 

Con l'andar del tempo, scomparsi dalla cronaca questi cavalieri della macchia, nella tradizione orale verrà loro attribuito qualche episodio della leggenda rinaldiana; e viceversa si attribuirà al sire di Montalbano qualche capitolo della storia di Pasquale Bruno. 

Ma l'imitazione dei campioni della cavalleria franca non s'arresta qui, non si limita al grande ed ora estinto banditismo. La gioventù plebea, fin dagli anni dell'infanzia, à cominciato a vivere a contatto con la leggenda cavalleresca, se ne è impregnata coi racconti, con le forme d'arte. E così i ragazzi giocheranno ai paladini, sulla pubblica via, rifacendone i duelli con tutte le regole della scherma, armati di spadette di legno e di scudi di cartone. Divenuti adulti, continueranno più seriamente, per motivi seri, per motivi d'onore e d'amore, come i cavalieri antichi dei romanzi, dei poemi e dell'opera dei pupi. 

Motivi d'onore e d'amore che diventano anche il sustrato dell'arte siciliana non popolare soltanto, ma delle canzoni, del teatro, del celebre poemetto della Baronessa di Carini. Secondo i detrattori, tutto ciò è indizio di primitività e di barbarie. Ma gli osservatori sereni diranno forse che è indizio di nobiltà d'animo. Nello stesso poeta della Baronessa trucidata dal padre, in nome dell'onore di famiglia, attraverso la grande pietà per la morta, la simpatia per l' amante, non v'è riprovazione per l'uccisore. Il diritto a punire è tacitamente riconosciuto. L'unica condanna, l'unica esecrazione è pel monaco delatore: il «cane traditore». Cane traditore come Gano di Maganza nel teatro dei paladini. 

Il senso smodato della propria personalità che ebbero sempre i siciliani, si è pasciuto dei grandi racconti eroici, delle affascinanti fiabe cavalleresche. I paladini di Francia, Rinaldo che combatte per l'onore e sopratutto per amor proprio, Orlando che a Roncisvalle si rifiuta di sonare l'olifante che richiamerebbe indietro il grosso dell'esercito per folle bravura, non sono - ormai - che fantasmi per i popoli di Francia, d'Italia, di tutto il mondo e, come larve, non sopravvivono più che pei letterati, pei critici, pei professori. Continuarono però a vivere fieramente in questo triangolo di terra ancorato in mezzo al mare dei tre continenti che è la Sicilia, perché il carattere esageratamente indipendente e orgoglioso dei siciliani - primitivo ancora se si vuole - era il solo che potesse custodire ancora, come un culto sacro, la loro memoria. 

E così, questo desiderio di eccellere, di non essere inferiori a nessuno, con parola spagnuola fin dal secolo XVII° si chiamò «maffia», ed ebbe per regola - un po' all'ingrosso e incoltamente - i dettami cavallereschi dei paladini. Disonore accusare, fare la spia, tradire, testimoniare contro. Farsi giustizia da sŠ, ma viso a viso e ad armi eguali. Non era un uomo della maffia, non un giovane d'onore colui che assalisse alle spalle, che colpisse un inerme, che ferisse l'avversario caduto. Ricorrere all'autorità, costituita, alla polizia, ai tribunali per un torto ricevuto? Mai. Immaginereste voi Orlando che si querelasse dinanzi al pretore, perché Ferraù lo à chiamato «cane d'un cristiano?». Precisamente così ragionava il paladino della strada siciliano. 

La donna è, pel maffioso, intangibile e degna del maggior rispetto, anche se appartenga al nemico, come per Orlando Bramimonda. I legami di amicizia giungono fino al sacrificio. Per il compare, cioè pel fratello d'armi, come pure per gli amici, si può anche morire: non morì forse Olivieri per Orlando? 

Con l'andar del tempo la maffia traviò. Dopo la guerra europea specialmente. Fra la cavalleria popolare vennero a infiltrarsi elementi della più torbida delinquenza. Si costituirono associazioni contro i beni e le persone, nei suburbi e nelle campagne. Ma associazioni a delinquere quali potevano sorgere e sorgono sotto vani aspetti in tutte le metropoli e in qualsiasi regione del mondo e che non bastavano in ogni modo a diffamare e infamare una regione carica di civiltà millennaria. 

La maffia, attributo personale, più o meno adatto ai tempi, non à nulla in comune con la volgare delinquenza della rapina e dell'abigeato, con quella che scrive lettere anonime per calunniare e colpire persone invidiate e odiate o lettere di scrocco per depredare. Tutto ciò è pattume sociale è abbassamento, mentre la maffia classica è tendenza a innalzarsi. E malgrado tutti i difetti dei siciliani, essi non sono certamente un popolo di criminali. E' perciò doloroso che, negli ultimi anni specialmente, siano corse leggende macabramente ridicole sul conto della Sicilia, ridotte alle giuste proporzioni dai più recenti processi; e che fino a poco tempo fa riviste straniere abbiano pubblicato notizie esagerate o menzognere, corredandole di documenti apocrifi, di falsità sfacciatamente evidente. 

La Sicilia partecipa, ma senza febbre smodata, a tutti i grandi movimenti rinnovatori. Ma mentre l'americanismo che produce a serie macchine, utensili e folle d'uomini meccanizzati per gli affari, invade l'Europa, tutto riducendo a motori, questa nostra terra chiusa nella sua corazza marina, col suo attaccamento agli eroi dell'antica cavalleria difende ancora inconsapevolmente i diritti ideali dell'individuo. 

E forse gran parte di quel che rimane dell'antica bellezza tenta disperatamente serbarsi immortale, rifugiato nell'isola pagana, fiammeggiante cuore del mediterraneo italiano.

 
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