Poesia siciliana
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Origini e originalità della poesia siciliana

 

A parte le ricerche filologiche di molti valentuomini, che ancora non ànno detto l'ultima parola, molti storici della nostra letteratura si accordano pacificamente nello stabilire che la poesia italiana, nei suoi primi documenti, derivi le sue forme e i suoi soggetti dalla provenzale. 

Ritengo che si tratti di un malinteso - comune, del resto,.agli storici di tutte le altre letterature neolatine - non difficile però a chiarire, solo che si vogliano esaminare da un punto di vista meno unilaterale le origini, anche, della poesia provenzale e delle altre del medioevo. 

Con l'affermarsi e il diffondersi del cristianesimo, noi vediamo affievolirsi e spegnersi la letteratura amena e le belle arti nel mondo romano: considerate come manifestazioni sensuali e voluttuarie, quasi alla stessa stregua dei giochi ginnici e atletici, degli spettacoli nei circhi, esse cedono il posto ai riti religiosi, celebrati con grande fervore, alle preghiere, alle omelie, alle narrazioni delle vite dei santi. L'insorgere del pudore, l'ostentato aborrimento per tutto ciò che sa di mondano, come copre di spessi e pesanti vestiti i corpi umani che il paganesimo si era compiaciuto a mostrare nudi o seminudi, abolisce anche le nudità marmoree o dipinte : seppellisce o distrugge le belle statue, raschia o ricopre d'intonaco gli affreschi, brucia i libri d'amore. L'amore sembra anzi bandito dall'uman vivere: non se ne parla più, come di cosa sozza - benché molte vere sozzerie continuino a consumarsi, e non soltanto nelle suburre. 

Solo ad Alessandria arde l'ultima fiaccola dell'ellenismo: in quel propizio lembo d'oriente mediterraneo sopravvivono i documenti e gli studi da cui prenderanno luce nuove civiltà in formazione. Mentre l'occidente s'oscura col susseguirsi delle invasioni, e poi mentre i barbari del continente si assoggettano al nuovo impero spirituale di Roma, un nuovo popolo si prepara a invadere il bacino del Mediterraneo, non con la sola forza della spada ma anche con quella della genialità e della cultura, quasi come avevano fatto i greci di Pericle prima, i romani di Augusto dopo. 

Un popolo a metà nomade, e quindi più libero, in una regione ormai delle meno frequentate e prese di mira dai conquistatori, la regione che sta fra il Mar Rosso e il Golfo Persico, fra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano ; un popolo che, in un'epoca in cui sono interrotti e travolti dalle guerre i traffici marittimi, coglie l'opportunità di diventare navigatore dei deserti e delle catene di montagne, e sui fiumi o con le carovane dei suoi dromedari trasporta e scambia le merci e i prodotti dell'india con quelli dell'Egitto e dell'Etiopia, mantenendosi così a contatto coi paesi più ricchi, più floridi e più sereni di quel tempo, e accoglie nel suo grembo ebrei fuggiaschi e abissini intraprendenti ed egiziani sapienti, assimilandone i pregi e le conoscenze: il popolo arabo, attorno al sesto secolo, è il più atto a raccogliere e fondere in sé gli elementi delle antiche civiltà, ravvivandole di nuovo sangue e nuovo vigore di vita. 

Liberali, ospitali, coraggiosi, audaci, perseveranti, pure se superstiziosi, vendicativi, rapaci e crudeli, gli arabi delle città come anche i nomadi, i beduini, ànno comune l'ingegno pronto e la predisposizione all'eloquenza, all'arguzia e alla poesia. Poesia che andava accoppiata all'affinamento delle usanze, all'ingentilirsi dei rapporti fra tribù e tribù, fra individuo e individuo, secondando la liberalità naturale che diventava spesso magnanimità. Fra loro nacquero certi riti e usanze che dovevano più tardi spandersi pel mondo come dettami d'onore e di cavalleria ; si videro competizioni fra tribù, cominciate con risse e guerre, risolversi di comune accordo con una singolar tenzone o in un'adunata tra un partito e l'altro, ove oratori e poeti sostenevano le ragioni della propria parte, a gara, con ornati discorsi o canti in cui si esaltavano le virtù e i diritti degli antenati o del clan o della famiglia, affidandosi poi pel giudizio finale a un arbitro estraneo. 

La poesia appare dappertutto fra gli arabi, fin da quando sono ancora nello stato barbarico, poesia improvvisata e poi affidata alla memoria, poiché l'uso della scrittura fino al 700 è limitatissimo. Con l'accrescersi del benessere, aumenta la cultura: è superfluo ricordare come gli arabi dell'ottavo secolo fossero già alla testa di tutti i popoli nelle scienze e nella letteratura. Nelle città, ma sopratutto nei douars, i villaggi di tende instabili, si canta, si suona, s'improvvisano o si ripetono canzoni di gesta tradizionali, canti epici (più sicuri, questi, delle tanto discusse «cantilene» germaniche) s'inizia anche una poesia lirica volta a esaltare le cacce, le corse dei cavalli, la bellezza delle donne, gli amori. 

Appunto, anche le donne e gli amori: non c'è in quel medesimo periodo di tempo nessuna altra traccia di poesia amorosa, e viva, e popolare, fra tutte le nazioni mediterranee. Non è nata ancora nessun'altra letteratura nuova in Europa: la greca e la latina agonizzano. Il più grande monumento in lingua latina dell'alto medioevo è il Corpus Juris Civilis: siamo agli antipodi dalla poesia. La nazione araba, invece, se ne impregna; presso di lei fioriscono e sono coronati i più grandi poeti del tempo, che tutto il popolo onora e acclama. Perfino le donne, libere beduine e sottomesse concubine recluse negli harem, amano la poesia come il migliore dei passatempi, talune perfino la praticano, gareggiando con gli uomini che le incoraggiano e se ne compiacciono. 

Dopo Maometto, con la rapida espansione dell'Islam per l'Asia e l'Africa, il primato letterario arabo s'insedia nella coltissima sconfitta e invasa Persia. Gli Abassidi ànno assicurato alla cultura la loro massima gloria, grazie alla diffusione dell'uso della scrittura. Ma anche gli arabi occidentali, quelli che ànno conquistato la Berberia, quelli che si sono sovrapposti in molte isole ai bizantini, quelli che sono arrivati ad affacciarsi fino all'Oceano Atlantico e si impianteranno in Sicilia e nella penisola Iberica, anche questi ànno imparato a scrivere. Non c'è emiro che, insieme coi suoi generali, le sue donne e i suoi eunuchi non conduca dietro di sé medici, astrologhi, alchimisti, geografi, matematici, storici, falconieri, musici e poeti. 

Dopo il primo tentativo da parte di Habib-ibn-Obeida d'impadronirsi della Sicilia, feudo bizantino, e ridotta a uno stato deplorevole per l'incuria e le malversazioni, ecco che il parlamento saraceno di Kairouan decide di riprendere l'impresa e l'affida al saggio Ased-ibn-Forât. Costui sbarca con un esercito a Mazzara, travolge le difese imperiali, assoggetta una parte dell'isola. Pochi anni dopo Abu-el-Aghlab si elegge primo emiro di Sicilia, conquista quasi tutti gli altri centri principali, stabilisce la sua sede a Panormo, che gli arabi denominano Balermi: e l'antica città fenicia e romana in pochi decenni assurge al fasto di grande capitale, gareggiando con Bagdad, con Cordova e Granata. Non più soltanto di lamenti o di stanche preghiere cattoliche essa risuona (1) ma pure del vociare animato dei mercanti e dei soldati e già anche dei cantàri dei poeti trovatori. 

Fin dal nuovo secolo, appunto, questa insolita forma d'arte appare in Sicilia e in Ispagna, nei territori occupati e resi attivi e fiorenti dai mussulmani, che vi ànno introdotto i loro costumi, le loro usanze, i loro giochi. I poeti dell'islam celebrano le loro prime vittorie sui melanconici greco-latini che formavano il grosso della popolazione di Sicilia e sugli sbandati latini e visigoti della penisola iberica. Costoro accolgono in parte le nuove costumanze, o vi si adattano facendo buon viso a cattivo gioco. Ma il dominio saraceno apporta benessere e apporta anche gaiezza: si lavora, si combatte, il denaro circola, le terre, i commerci son divenuti attivi, i porti si popolano di navi, l'incremento demografico anima le città, sorgono nuovi centri, la gioia di vivere rinasce tra le popolazioni già fruste e avvilite. Tutto è propizio al canto e alla poesia. 

I siciliani, come gli spagnoli, dato l'intimo contatto con gli arabi, acquistano dimestichezza con la loro favella, capiscono anche i loro canti. Le Kaside che esaltano gli eroi, i gran signori, i fatti d'arme, corrono da un capo all'altro dei territori. Cosa vuoi dire Kasida? Letteralmente suona «trovata», poesia improvvisata: è il termine con cui fin dal sesto secolo, prima della nascita di Maometto, gli aedi, i trovatori d'Arabia, designarono i canti epici ; termine non adoperato ancora da nessun altro popolo d'Europa, come ancora - da quel che a noi risulta - non esisteva neppure il genere. I bardi gallici prima di loro e in Inghilterra contemporaneamente a loro erano piuttosto impiegati, che esercitavano la poesia per scopi religiosi o a uso e consumo del signore che li stipendiava. 

I trovatori arabi furono invece liberi cittadini, che giravano esercitando la loro arte a suono di el-eud, cioé di liuto. E i loro canti, con lo stesso strumento dei loro suoni, furono appresi in tutte le terre ove gli arabi si insediarono o dove soggiornarono anche non a lungo, come in Provenza. In Provenza e nella Francia meridionale ebbero modo di spingersi spesso, dalla limitrofa Spagna, pure quando il ventennale dominio musulmano venne a cessare. Così, più che le Kaside, celebranti glorie e personaggi nazionali, che non toccavano quindi simpaticamente gli altri popoli, ma che lasciarono l'esempio pei sirventesi, furono più gradite in Provenza e nella Spagna affrancate e principalmente in Sicilia, le canzoni di galanteria e d'amore, più brevi e snelle, quali la mowasceha e lo zegel

Mentre la Kasida è, ripeto, un componimento piuttosto lungo, in versi numerosi divisi in emistichi e dalla cadenza esametrica - componimento e versi classici della poesia araba, risalenti alle origini - ove appare una rima unica, la mowasceha è invece un componimento non solo dal tema più leggero e mondano, ma anche in versi più brevi che, per la loro musicalità e per gli accenti quasi costanti, si possono senz'altro mettere accanto ai nostri decasillabi e ottonari. Benché non sia possibile asserire che gli arabi non misurassero più questi versi secondo il metodo quantitativo che essi avevano usato come i greci e i latini, pure è certo che le mowascehe si possono costantemente misurare per sillabe e accenti come i versi dei poeti neolatini che apparvero qualche secolo dopo. Qui si trovano i primi esempi - volontari o meno - di metrica moderna, quale sarà più tardi presso gli spagnoli, i provenzali, i normanni e i siciliani. A ciò si aggiunga la rima intrecciata, non più unica e monotona, ma con leggi svariate, disponendo i metri ora in terzine, ora in stanze di cinque versi, ora in strofi variamente alterne, in cui anche s'introducono fra i decasillabi e gli ottonari versi più brevi, come quinari e quaternari. 

Lo zegel è un canto ancora più succinto e dall'andatura e dallo stile più popolaresco, in versi più corti e strofe più piccole, che veniva eseguito con accompagnamento di musica e talvolta di danza, e che anche nella struttura somiglia a quei metri che nella nostra poesia si chiameranno ballate e sonetti, così come le mowascehe preludono alle odi e alle canzoni. C'è infine da aggiungere che i poeti arabi diedero il nome di beit alle strofe simmetriche di questi loro componimenti. Beit suona «stanza»; e per la prima volta questa particolare denominazione appare nella poesia medievale: spagnoli, provenzali e italiani l'adotteranno più tardi, tradotta nelle rispettive lor lingue. 

Queste nuove forme della lirica araba risonarono in Ispagna, a Cordova specialmente, fin dal IX° secolo e nel X° cominciarono a sentirsi anche in Sicilia. Non c'è dubbio che in quell'istessa epoca fossero udite nella Provenza e nelle altre regioni della Francia meridionale. 

Oggi come oggi, anzi, dopo lo smantellamento delle teorie del Wolf, dei Grimm, di Gaston Paris e di Pio Rajna, asserenti con argomentazioni sia pur diverse una pretesa remota origine carolingia e merovingia delle Chansons de geste francesi, tanto pel contenuto che per la forma - smantellamento operato in modo definitivo grazie a ricerche esaurienti e con dimostrazioni geniali da Giuseppe Bèdier, che assegna alla più antica canzone epica in lingua d'oïl una data di nascita non anteriore all'X1° secolo - io mi domando se non sia il caso di cercare piuttosto nell' antica poesia araba dell' VIlI° e IX° secolo di cui ci rimangono documenti e memorie certe, che non esistono per le altre letterature, nei canti esaltatori, nelle brevi epopee con cui si ricordavano le imprese semileggendarie degli eroi patrii, in versi uniritmici e dal ritmo decasillabico spiccato dalla musica che ne accompagnava ha declamazione, se non sia il caso, ripeto, di cercare quivi la spinta determinante dell'epopea neolatina, sia essa la Chanson de Roland in Francia, che le romanze, le cronache rimate e il poema del Cid in Ispagna. I francesi e gli spagnoli avevano sentito gli arabi cantare le gesta dei loro guerrieri vincitori di cristiani; essi furono indotti a rispondere nello stesso modo, e solo con le differenze proprie alla loro indole e alla loro religione, cantando le gesta degli eroi vincitori di mussulmani. 

In Sicilia, dunque, è ovvio che le canzoni d'amore arabe fossero popolarmente diffuse lungo i due secoli di dominazione saracena e anche oltre. Ce ne rimane qualche esempio di poeti arabi siciliani: nella Biblioteca arabo-sicula a pag. 580, si legge una di siffatte poesie, dovuta ad Abul-Hasan detto 'es Sikilli dal suo paese di nascita, vissuto nella seconda metà del secolo XI° e da considerare già tra i poeti arabi della decadenza. (2

Ma gli storiografi dell'epoca ci ànno anche lasciato i nomi e tratti dell' opera di parecchi scrittori di pregio che poetarono in Sicilia fra il 985 e il 1100, segnatamente alla corte del magnanimo e sapiente emiro Jussuf e poi di suo figlio Giahfar, che fu buon rimatore egli stesso. E così si possono ricordare Mohammed-ibn-Abdun; Abdallah-ben-Tonûkh; Abu-ibn-Tûbi che, specialmente pei suoi versi d'amore, Michele Amari che lo tradusse trova paragonabile ai poeti amorosi di Grecia e d' Italia; il palermitano Ibn-Sebbâgh; due Abd-er-Rahman e parecchi altri. In quel medesimo periodo la poesia araba - ripeto - trovava altrettanto propizia sede in Ispagna, specialmente a Cordova e Siviglia e da queste città si spingevano in Sicilia numerosi gli uomini di lettere e i poeti, cresciuti nelle corti dei signori saraceni ove la poesia e le arti erano lusso assai apprezzato; e viceversa trovatori noti in Sicilia emigravano e trovavano lieta accoglienza nelle corti spagnuole. Tra questi Abul-Arab-Abi-Forât, ritenuto il più grande trovatore del secolo, che - caduta Palermo in potere dei Normanni - lasciò per sempre la terra natia rifugiandosi nel 1072 alla corte di Siviglia. Di lui ci rimane uno squarcio di una Kasida bellissima, indirizzata alla natia Sicilia da cui si ritiene abbandonato ora che non è più mussulmana: 

«Poiché tu mi abbandoni, o patria, io vado a soggiornare nei nidi delle aquile gloriose. 
«Io nacqui dalla terra, e tutto il mondo potrà essere mia patria, tutti gli uomini miei congiunti.. 
«Non mi mancherà un cantuccio nello spazio; se non l'ò qui, lo cercherò altrove. 
«Ài tu ingegno? abbi anche cuore !... ecc. » 

Pure dalla Sicilia fuggi negli stessi anni e si rifugiò a Siviglia il siracusano lbn Hamdis, dopo aver combattuto contro i Normanni. Egli fu un esaltatore della terra che gli aveva dato i natali e ne tessé le lodi in molti componimenti ricchi di pregi, ed anche nell'ospitale terra di Spagna non finì mai di cantare e rimpiangere l'isola «cui la colomba prestò la sua collana e il pavone il suo splendido manto». 

Ma trovo degni di speciale segnalazione due trovatori arabi siciliani vissuti tra il 960 e i primi anni del secolo seguente, non per altezza d'ingegno, ma per la forma con cui trattarono, in brevi ballate o sonetti, l'argomento amoroso, la donna bella e crudele, l'amata irraggiungibile, caposaldo - poi - della lirica provenzale e provenzaleggiante. L'uno fu Giahfar-ibn-Taib, che in un frammento ci lasciò questa frase: 

«Mi tormenta un dolore che io ignoravo; un padrone tiranneggia me debole, eppure io volentieri gli son servo. 
«Una sua perfida parola mi fa sempre bramare colei che pro- mette e non mantiene. 
«O Dio, accresci in me il desiderio del suo amore e conserva sempre nel mio cuore gli affetti che lo struggono».

 L'altro, il giovane patrizio Abul-Fotûh, soprannominato il malinconico, cantò sullo stesso tono di parecchi suoi colleghi neolatini di due secoli dopo:

«Non c'è letizia al mondo; il mondo è pieno d'angosce. 
«Se letizia appare, è poca e di breve durata. 
«La Eletta degli uomini lascia il mondo, poiché essa e questo non possono stare insieme». .

Divenuta normanna, la Sicilia non cessò di allevare poeti, e poeti arabi. Essi erano graditi non alla popolazione soltanto, ma anche alla corte dei nuovi dominatori che ne appresero il linguaggio e ne adottarono molte usanze. Tranne pei riti religiosi, quasi tutti i costumi mussulmani sopravvissero lungo i regni dei due Ruggeri, dei due Guglielmi, e ancora sotto Federico secondo e Manfredi. 

I normanni, come i decaduti emiri, accolsero nella loro corte trovatori arabi e giullari. Trovatori e giullari sono da intendere fra gli arabi e alle corti e nelle piazze di Sicilia e di Spagna né più, né meno quali furono considerati dopo alle corti e nelle piazze della Francia meridionale: il trovatore era il compositore e l'improvvisatore della poesia; «trovare» per «improvvisare» è, stabiliamolo, definizione araba prima che provenzale o normanna. Il giullare era colui che, fra le tante altre sue attività, poneva anche quella di ripetere, accompagnandosi con uno strumento - el eud: liuto, parola e strumento arabo - canti composti da trovatori e poeti di rango elevato. Il passatempo, il piacere di creare e di udire poesie, .di carattere narrativo, descrittivo ed epico dapprima, amoroso, galante o lepido poi, ebbe suo principio nell'alto medioevo, almeno - come si è già visto - fin dal VI° secolo, nel mondo arabo e persiano. Questo passatempo fu appreso e imitato da popoli entrati in diretto contatto con gli arabi, e parecchi secoli dopo costoro, in forme simili e molto vicine a quelle di costoro: vicine nei soggetti, vicine nella metrica, nella disposizione strofica, nei ritmi sillabici e nella rima vera e propria, ben distinta dalla semplice assonanza. L'unica differenza è data dallo stile, che dipende dall'indole della lingua e della immaginazione dei vani popoli. 

I re normanni e svevi, dunque, coltivarono in Sicilia la scienza, l'arte e la letteratura araba. Si contano almeno cinquanta poeti di lingua araba in Sicilia da Ruggero I° a Manfredi. E' molto probabile che i normanni abbiano accolto anche menestrelli della Francia settentrionale, e cioé del loro paese d'origine, che portarono fra noi saggi della poesia in langue d'oïl, poesia che lasciò tracce nelle nostre tradizioni popolari, come è stato dimostrato in un'acuta monografia dal nostro Luigi Natoli e come del resto attestano parecchi documenti. (3

E' certo, altresì, che nessuna prova abbiamo di poeti provenzali venuti in Sicilia a esercitarvi la propria arte, come andarono in Piemonte, in Liguria e in altre regioni del settentrione d'Italia: il breve soggiorno a Messina e a. Catania di Rambaldo di Vaqueiras, al seguito del marchese di Monferrato, non poté avere una grande influenza sulla nostra nascente poesia. I poeti provenzali furono conosciuti, certamente, da Federico secondo e dai suoi gentiluomini, nei loro frequenti viaggi in terraferma e per letture. Ma l'imperatore, i suoi cortigiani e il popolo siciliano avevano già le orecchie piene della poesia araba, delle cadenze e delle musiche arabe. E poiché queste cadenze e queste musiche esercitarono sul sentimento dei siciliani un sì forte ascendente da trovarsi ancora, dopo novecento anni, vive nel nostro popolo che si tramanda le vecchie nenie, i tradizionali strambotti che accompagnano i suoi lavori, le, sue gioie, le sue tristezze, le sue funzioni propiziatrici di carattere pagano e barbarico, è ovvio che la contemporanea musa trovadorica araba agisse allora in qualche modo, più direttamente della provenzale, sui siciliani. 

I provenzali ebbero il merito indiscutibile di essere stati i primi - appena venuti a contatto con gli arabi - a imitarli nella propria lingua, a trasportare in una lingua neolatina l'arte poetica, 1' improvvisazione, la lode della bellezza, dell' eroismo, della nobiltà, il lamento amoroso, con accompagnamento di musica, messi in voga dagli arabi.

I. provenzali si lasciarono influenzare nei pochi anni che rimasero soggetti alla podestà saracena, dalla quale - liberati definitivamente nel 972 dopo l'ultima invasione proveniente dalla Spagna - non subirono la tirannia della lingua. Liberi, li imitarono da liberi in quel che loro conveniva o piaceva: il loro orgoglio nazionale li portò naturalmente e volontariamente a comporre e poi manifestarsi in pubblico al modo arabo, ma nella propria lingua e in forme più signorili, più latine e cristiane, quindi più spiritualizzate e lontane dalla sensualità e dalla voluttuosità saracena. 

Dopo i provenzali, lo stesso avviene presso altri popoli che pure sono stati a contatto diretto col mondo arabo: spagnoli, portoghesi, siciliani. Ma presso costoro il dominio arabo durò a lungo: e dominio non vuoi dire soltanto preminenza politica e militare, ma anche industriale, economica e culturale. In Sicilia, e nella penisola Iberica, prima dell'arrivo degli arabi, imperavano disordine e barbarie, I piaceri, i divertimenti, i giochi non avevano ancora i caratteri eleganti e intellettualistici che avevano già presso i ricchi ed evoluti saraceni. Il più importante di cotesti giochi e divertiment - il canto, la poesia - apparso coi dominatori, vi restò nelle forme che i dominatori stessi gli mantennero: le classi colte, le classi dirigenti, conoscevano il latino o il greco, lingue morte o moribonde, da archivio e da biblioteca, e l'arabo sola lingua vivente e operante in quelle regioni. Quando il dominio politico-militare arabo cessa, però sopravvive la sua cultura, poiché i nuovi dominatori non ànno una cultura nuova e più potente da soprapporvi e ne sentono il fascino vivo. Ma il linguaggio arabo parlato si ritrae, si rarefà: il linguaggio del popolo, gergo misto formatosi col lento lavorio dell' uso, prende il sopravvento, accomuna gli autoctoni, i primi dominatori e i novelli, improvvisa a poco a poco, sulla bocca di popolani oscuri; i suoi primi canti, che non vengono trascritti, perché il popolo è ancora analfabeta e perché nessuno osa ancora scrivere se non in latino o in arabo, ma si trasmettono oralmente. 

I poeti provenzali, per orgoglio nazionalistico e per amore di popolarità, nonché per propizie condizioni politiche e ambientali, osarono prima degli altri scrivere quel che si cantava e si recitava in linguaggio popolaresco, cioé nell' idioma accessibile a tutti nel loro paese e in parte nei limitrofi. I poeti spagnoli e portoghesi, poco dopo, osarono cominciare a trascrivere qualche cantiga adorna di bella musica arabizzante, come quelle di Mocadem de Cabra e di Avempace, dopo che il popolo aveva segnato la strada con le sue canciones, con le tonadas e coi vlllancicos, senza pensare certamente a imitare i provenzali che ancora non avevano libertà di circolazione in Ispagna. 

Un po' più tardi i siciliani. Ma più tardi perché? per le ragioni letterarie che ne danno molti storici ? o non piuttosto perché tardivi sono i documenti rimastici? 

Certo nessuno prima di Federico secondo, uomo di genio, spirito eccezionale, aveva saputo scrivere in versi nella lingua parlata dal popolo del suo regno o in quella parlata dalla sua corte - lingua per lo più siciliana, ma anche un po' pugliese, un po' napoletana, un po' tosca, quale a lui era familiare, movendosi con l'esercito e i dignitari e soggiornando or qua or là anche nel continente. (4) Fu lui che diede il primo esempio, imitando i letterati d' Italia che facevano capo alla sua munificenza, a seguirlo. 

« I provenzali - egli disse - cantano e rimano alla maniera araba nella propria lingua; i signori dell'Italia settentrionale imparano quella lingua e quei modi. A noi non occorre imparare la lingua provenzale: abbiamo quella di un regno, di uno stato ben più importante della Provenza - il mio stato. Non sarò certo io, né i miei sudditi, a usare il linguaggio di un paese che mi odia, di poeti che aizzano il papa contro di me e contro il mio stato. (5) Imponiamo all' Italia, che balbetta dietro quei giullari, il linguaggio di noi regnicoli, il linguaggio del re d'I talia, il linguaggio della monarchia e del popolo, anche contro quello del papa e dei guelfi!» - E la corte che aveva fino alla vigilia risonato delle ballate e delle canzoni dei trovatori arabi, dei poemi normanni, delle saghe germaniche e dei romanzi bretoni risonò delle ballate e delle canzoni del re di Sicilia, dei suoi figli, dei signori siciliani e dei pugliesi e toscani e napoletani che frequentavano quella corte. Le forme di questi canti ànno in comune con quelli provenzali le origini arabe; più - taluni - lo stile cortigiano, ricercato, il meccanismo da giocattolo sotto il fare spiritualizzante e talvolta bigotto del tempo. Ma gli strumenti principali, la lingua e le cadenze, la metrica e 1' andatura, erano stati tolti in prestito alla musa popolaresca, a quella che già da tempo imprecisabile cantava nelle piazze e nelle campagne e sulle navi pescherecce o mercantili, alla maniera degli arabi di cui aveva percepito - più che le parole e il senso - il ritmo e la melodia. 

Musa popolaresca che era venuta svolgendosi e maturando certo da secoli, se attorno al 1232 produceva già un capolavoro, perfetto nelle proporzioni, nella versificazione e nell'espressione, qual'è il celebre contrasto di colui che si chiamò Celo o CiuIlo, d'Alcamo o di Carini, non importa, ma che fu certamente un popolano siculo abbastanza letterato o un signore del Cassaro capace d'intendere le bellezze d'una poesia popolaresca e trascriverla, forse adornandola e limandola, e facendola sua. «Rosa fresca aulentissima...» è documento di alto valore anche perché ci dà un'idea dei mancati documenti che dovettero a forza precederlo. Una poesia di questo genere non nasce tutto a un tratto, come un fungo, ma è il frutto di una elaborazione lenta e forse lunga, cominciata a germinare quando ancora la Sicilia era occupata dagli arabi e, sull'esempio di questi, i siciliani già cantavano allegramente o malinconicamente, nel loro rozzo e ancora informe dialetto quale preesisteva fin d'all'ottavo secolo e che diventò fondamento della lingua aulica nel XIII°. Certo, sotto gli emiri, la Sicilia non ebbe - come altre regioni d'Italia in quell'epoca - monasteri cristiani ove si raccogliessero scritti e documenti, sicché tutto quel che poteva rimanerci era saraceno. Ma più tardi è facile che, come la poesia attribuita a Ciullo d'Alcamo e, prima di questa, altre che correvano sulle bocche di poeti popolani fossero trascritte, ma col tempo andassero perdute. 

Basta, però, questa poesia a dimostrare che i siciliani non furono imitatori dei provenzali e che una lirica popolare in volgare si era svolta, con perfetta indipendenza, e con senso d'arte, presso di loro in epoche in cui, sotto una dominazione straniera di lingua diversissima, non c'era luogo a scritturazioni in italico. Che questa poesia popolare continuasse, acquistando in vigore e in efficacia, ce lo dimostra anche il frammento della Kasida siciliana, cantata durante la guerra del Vespro e più precisamente fra il 1282 e l'85.

Ahi, com'egli è gran pietate 
delle donne di Messina, 
veggendole scarmigliate 
portare pietre e calcina... 

Nella stessa poesia di corte, iniziata da Federico secondo, il convenzionalismo, le somiglianze coi modi provenzali sono - del resto - limitate e si riscontrano nei componimenti più scadenti, in quelli molto probabilmente eseguiti come esercitazioni, tra i primi, per farsi la mano al genere; ma la massima parte degli altri, dei migliori che ci rimangono, come dimostrò il Cesareo e come aveva anche affermato il Gaspary, derivata dall'imitazione piuttosto dei modi popolari locali, che Federico e i signori apprezzavano e secondavano, è più viva e spontanea e non à nulla a che fare con la poesia provenzale. 

Poesia provenzale alla quale il popolo siciliano non ebbe mai bisogno di attingere e che, ripeto, ignorò. Un paese che, fino all'VIII° secolo era in dimestichezza col greco e che poteva quindi ripetersi le antiche pastorali e i contrasti dei suoi poeti siracusani e subito dopo poté avere alimentata la sua predisposizione alla poesia e al canto dal lungo e fecondo esempio degli arabi, non aveva affatto necessità di ricorrere alla così lontana Provenza per continuare e sviluppare le sue tradizioni artistiche. I siciliani furono a stretto contatto coi provenzali soltanto dal 1264 al 1282: quando l'onta e il dolore della sconfitta e del giogo straniero avevano spento i canti sulle loro labbra; e fu un contatto sì poco cordiale che sentirono la necessità di troncarlo con la spada. 

NOTE

(1) Palermo fu la città che ebb e il più numeroso nucleo saraceno, tanto che, quando vi soggiornò il geografo di Bagdad Ibn-Haukal (972), vi si contavano trecento maestri di scuola che insegnavano in arabo e ben cinquecento moschee, molte delle quali servivano agli studii superiori, come le nostre università. Le comunità greche e latine rimasero più dense nella Sicilia orientale. Più tardi, secondo racconta il Malaterra, all'inizio della conquista normanna, la massima parte di cristiani si trovavano in provincia di Messina o Val Demona. Quelli delle altre valli, meno numerosi, erano anche di fede più tepida, tanto che l'arcivescovo Nicodemo di Palermo nel 1061 non sapeva più a che santo votarsi per mantenerli praticanti e dissuaderli dal l'abiura. 

(2) Mi piace riportare la trascrizione delle prime due stanze clic ne fa Michele Amari, per dare un'idea del metro:

Wa ghazalin musciannefi 
Kad retha li ba da bu'di 
Lamma rea ma lakaìtu

Mitlu raudhin muffawwefi 
La obali wahwa ' iudi 
Fi hubbihi ids dhaneìtu.

Tutta la poesia, tradotta dallo stesso, suona così:

«Cotesta gazzella adorna d' orecchini - mi canta le nenie quando io son lungi - e quando vede ciò che m'è avvenuto. 
«Come (s'io fossi in un) giardino variopinto - quand'ella è meco, non mi cale (d'altro) - poiché per l'amor suo mi consumo. .
Il suo volto è luna che spunta - superbisce quando ha occupati tutti gli affetti miei - dond'io mi travaglio. 
«Sur un tralcio sottile - si sollazza nel mio lungo dolore - allontanasi ed io sto per morire. 
«Sdegnosa, inaccessa a pietà - non rifugge dal romper la fede - non ha (per me) che il silenzio. 
«Tiranna, ingiusta, - mutata da quella che fu una volta; - sì ch'è felicità rarissima a trovarsi con lei».

Mi pare che sia abbastanza... provenzaleggiante prima dei provenzali, e che i poeti della scuola di Federico secondo non avessero bisogno di andare a cercare presso i Peire Vidal, Uc de Sain Circ, Gaucelm Faidit ecc. i modelli per la loro arte, quando da più di un secolo in Sicilia stessa ne avevano altri a portata di mano. 

(3) Luigi Natoli: Le tradizioai cavalleresche in Sicilia, ne Il Foklore italiano Anno 2. N. 1-1926.

(4) Non so spiegarmi come esegeti illustri e acutissimi discutano tanto della differenza tra il siciliano parlato e il siciliano dei poeti della scuola sveva e attribuiscano la maggiore italianità di questo a correzioni e modificazioni di copiati toscani (ciò di cui è stata dimostrata l'infondatezza,) e non abbiano piuttosto pensato alla differenza notevole che esiste ancor oggi tra il dialetto siciliano parlato dai popolani e dai contadini e quello parlato dalle classi signorili; differenza che a maggior ragione doveva essere notevole tra il popolo del secolo XIII° e la corte imperiale, ove si accoglievano signori, diplomatici e letterati di tutte le province dell'isola e di tutte le regioni d'Italia, e che quindi era un crogiuolo in cui le varie favelle italiche naturalmente venivano a fondersi o mescolarsi, dando luogo a quella prima forma letteraria italiana che la poesia aulica della Sicilia ci à tramandato. 

(5) Benché alcuni poeti provenzali lodassero e adulassero Federico, parecchi fra i più rappresentativi si scagliarono contro suo padre e contro di lui: e in un uomo come Federico l'odio superava l'amore.

 
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