Correzioni alla storia
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Un illustre professore di storia, col quale mi sono incontrato un anno fa, rimase scandalizzato quando io gli dissi che per me la storia è «la ragione di chi vinse su chi fu sconfitto, la verità sacrosanta di chi è presente e vivo contro chi è lontano o morto». 

Scandalizzato; ma non poté dimostrarmi contrario. 

- Ci sono, però, dei casi in cui la storia dà ragione a chi fu sconfitto e a chi è morto. 

- Sì, quando serve a dimostrare le ragioni di qualche vivo. 

Ma c'è quando la storia fa torto ad alcuni vivi, che neppure sono stati sconfitti. E' il caso che io voglio brevemente considerare e che riguarda noi siciliani.

Da tempo immemorabile la storia d'Italia, quale s'insegna nelle scuole, è la storia di alcune città e regioni italiane nei rapporti fra loro o con gli stranieri, ricavata quasi di peso dalle cronache dei Villani, del Compagni, del Malespini, del Guicciardini e via via fino al Muratore,al Sismondi e agli annalisti e cronisti del Risorgimento, da Napoli in su. Ma, tranne Cesare Cantù che fu il più scrupoloso e il più obbiettivo degli storiografi italiani, pare che nessuno degli altri, tanto meno dei più recenti, conosca neppure di nome o abbia mai letto o consultato il Fazello, l'Auria, il Serio, il Baronio, il Pirri, il Mongitore, il Di Blasi, l'Amari e il La Lumia. 

In questa storia di regioni e di città che comincia, nelle scuole, con la storia orientale e greca, vediamo dato largo posto anche a Ninive, Babilonia e Cartagine; ma si accenna appena di sfuggita a Siracusa, Agrigento, Gela, Erice, Lentini, Catana, Zancle ecc, e solo perché talune di queste città ebbero in comune qualche episodio di guerra con Atene, coi fenici o coi romani. 

Sta di fatto che la storia d'Italia propriamente detta, piuttosto che dagli etruschi di cui si sa ben poco, potrebbe cominciare dalla Sicilia di cui si conosce abbastanza fin dall'VIII° secolo avanti Cristo e che - come valore politico internazionale nel mondo antico e fino alle guerre puniche contò più di Roma, la quale soltanto dal secolo III° cominciò ad affermare il suo predominio politico italiano e mediterraneo. Il primo nucleo statale, la prima potenza civile italica che segnò orme profonde fu in Sicilia, capitale Siracusa. Nelle scuole ciò non è stato mai insegnato, e i più degli italiani lo ignorano, dato che essi studiano (male) un po' di storia soltanto nei ginnasi e nei licei e pel resto non si tengono al corrente che attraverso le riviste, i giornali, qualche romanzo e qualche biografia romanzata, tra le quali nessun editore à dato posto a nulla di siciliano. 

Nondimeno, si potrebbe in parte giustificare questa manchevolezza con l'importanza morale e ideale che Roma deve avere per noi italiani fin dalle sue origini favolose, tale da assorbire ogni altro evento cd ogni altra grandezza quasi contemporanea. E poi, quella è storia antIca... 

Ma andiamo avanti.

Dalle invasioni barbariche al trasferimento del seggio papale ad Avignone la storia d'Italia non è che un continuo frazionarsi d'interessi, di guerre, di ripicchi fra imperatori e papi, di insurrezioni e punizioni fra vassalli e imperatori, di combutte fra signorotti e sovrani stranieri, di leghe fra comuni e pontefici; e poi tradirsi e assalirsi tra vecchie combriccole, e rinnegarsi fra comuni. Non c'è che Venezia a fare un po' di politica estera e a esportare un poco della vecchia latinità, altrove dissanguata e isterilita. 

Ma le storie non insegnano che, in quello istesso lungo periodo, c'era uno stato in Italia, uno stato siciliano. E tacciono completamente i duecento e più anni di Emirato di Sicilia che - per quanto barbarico e straniero - portò una delle più importanti regioni italiane, compatta, a un grado di civiltà e di benessere quali nessuna delle altre regioni italiane aveva, in quel medesimo periodo di tempo, raggiunto; tacciono che dalla Sicilia cominciò il rinnovamento economico e intellettuale, nonché quello demografico (Palermo, dal 900 al 1100, fu la città più popolosa d'Italia e la più industre). 

Non c'è da obbiettare che quel periodo appartenga alla storia araba poiché gli arabi stessi considerarono la Sicilia nazione a sé, che fece anzi valere il suo predominio su altri stati - arabi e non arabi - finitimi, e dove il massimo contingente della popolazione era rappresentato da siciliani, e cioè dalle stesse genti siculo-greco-fenicio-latine presso cui già veniva elaborandosi, come nelle altre regioni italiane, e contemporaneamente, lo strumento più vivo della nazionalità: il linguaggio. Linguaggio fin da allora, e malgrado la presenza degli arabi, italico. 

Le storie scolastiche accennano appena alla conquista della Sicilia da parte degli avventurieri normanni e danno nozioni poco chiare sul susseguente periodo. I giovani che studiano sto- ria su tali testi non intendono, per esempio, come i normanni fossero pochi guerrieri, valorosi ma incolti e quasi barbarici, che trovarono presso il popolo siciliano una maggiore civiltà, dalla quale rimasero allettati e, a loro volta, conquistati; che la favorirono adoperandosi principalmente a darle un nuovo marchio cristiano. Non apprendono da questi testi, i giovani, che in quel tempo si formò in Sicilia il primo regno italiano, il più importante stato italiano autonomo, il primitivo nucleo nazionale, ben più considerevole come stato e come idea di nazione - di qualsiasi altro staterello della penisola; che attorno alla corte palermitana gravitò, dal 1130 circa al 1250, il meglio del nascente pensiero italiano; che col maggior successore dei normanni, con Federico secondo, primo realizzatore dell'unità d'Italia - si spostò verso la Sicilia il centro del mondo civile d'allora e per quasi un cinquantennio Italia e impero romano d'occidente parlarono dalla Sicilia con voce la più alta e la più eloquente che, dopo Carlomagno, si fosse udita nella storia del medio-evo. 

Ma c'è di peggio. 

Imbevuti di guelfismo e del falso presupposto che l'idea patria e nazionale risiedesse allora nel papato il quale invece appoggiava il proprio potere sulle fazioni interne e fomentava le lotte intestine fra italiani e italiani, e chiamava stranieri in Italia a spartirsene le straziate membra --- molti storiografi lasciano ancora in ombra la storia della ghibellina Sicilia, facendo maggior posto a signorie, repubblichette e città dell'alta e media Italia, delle quali non ebbero nessuna o ben poca influenza sui grandi eventi nazionali. Il Vespro Siciliano è trattato come avvenimento secondario, mentre fu la prima, grande e vera rivoluzione a carattere nazionalistico di gente italica contro stranieri. E' (lata importanza a tutte le piccole congiure e rivolte locali contro signori e tirannelli; nessun cenno o trovato della congiura e della rivolta contro i primi vicerè spagnoli, capeggiata dallo Squarcialupo a Palermo e in Sicilia. L'insurrezione napoletana del 1647 capitanata da Masaniello, benché sterile e non tutta ammirevole, non solo à ispirato innumeri poeti, romanzieri, musicisti e drammaturghi, ma è stata ampiamente illustrata per le scuole; mentre si menziona appena come un epigone Giuseppe D'Alessi che nello stesso anno a Palermo fu capitano generale del popolo e scacciò gli spagnuoli e impose leggi sennate e provvedimenti innovatori che in gran parte gli sopravvissero e iniziarono un nuovo regime economico e sociale per le corporazioni degli artigiani di Sicilia. La figura di Giuseppe D'Alessi è ben più alta e complessa di quella del pescatore napoletano finito megalomane o pazzo; ma essa non è stata degnamente illustrata che da Isidoro La Lumia e da chi scrive queste righe. Oggi che si tende a dare giusto risalto alle individualità più notevoli della storia della patria, il D'Alessi merita di essere messo in luce, specialmente agli occhi dei giovani, come uno degli eroi meglio significativi del seicento italiano, dei secolo cioè che fu più povero di grandi figure pel nostro paese. 

Non si fa parola neppure, nelle storiette, del periodo intercorso fra il 1647 e il 1674, lunga e penosa vigilia in cui il popolo siciliano attese il re che ne assicurasse l'indipendenza fino all'ultimo, eroico, folle sforzo di Messina, mandato a vuoto dalle vane lusinghe e dal tradimento di Luigi XIV. 

Per tutto il secolo XVIII° la Sicilia nelle scuole è mentovata soltanto, e con poche parole scivolose, pel baratto non nobilissimo di cui fu oggetto tra le case regnanti di Spagna, di Francia, d'Austria e di Savoia. 

E veniamo all'epoca moderna e al più sodo. 

Tutti i libri di testo dei ginnasi e dei licei parlano del 1848-49 come dell'anno classico delle rivoluzioni, dell'anno cruciale del risorgimento italiano e citano anche i moti di Francia e d'Ungheria ed esaltano la gloria di Milano, di Venezia, di Roma, e dei piemontesi e dei toscani. Ma come e perché si tace completamente dei siciliani e si trascura di dire che fu Palermo a dare il primo segnale in Europa, in nome degli stessi ideali che infiammavano gli animi nelle altre città, nelle altre regioni, nelle altre nazioni ? E se si spendono pagine e pagine per narrare le epiche cinque giornate del marzo milanese, perché non dedicare una pagina al dodici gennaio palermitano, quando - esempio unico nella storia - un popolo intero affigge alle cantonate il suo proclama di sfida all' oppressore e io avverte che la rivoluzione scoppierà nei giorni e nei modi in cui infatti scoppiò e trionfò? S'insegni ai giovani a onorare la Lombardia che malgrado l'aiuto piemontese e toscano vide naufragare il suo sogno d'indipendenza; e Roma costretta ad arrendersi malgrado l'aiuto garibaldino; e Venezia che cede alla fame e al colera. Ma s'insegni ad ammirare anche la Sicilia che resiste un anno, da sola, reietta dal duca di Genova al quale aveva offerto la corona, abbandonata da tutti, tradita a Palermo, macellata a Messina che, indomita, s'era lasciata bombardare piuttosto che ammainare la bandiera tricolore! 

E s'insegni finalmente che l'unità d' Italia non mosse soltanto dall'alto verso il basso, ma che per lo meno si spinse contemporaneamente dalle due estremità, da settentrione e da mezzogiorno per incontrarsi nel centro, a Roma, più tardi; e che a fare l'unità d'Italia Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele secondo non bastavano senza colui che Giosuè Carducci chiamò «novello Procida», senza Francesco Crispi. 

Dovrei ricordare anche l'impresa dei Mille e gli episodi che la precedettero e la seguirono, di cui è giusto e sacrosanto dare il massimo onore a Garibaldi e ai suoi compagni di Quarto: ma senza misconoscere - direi - l'influenza decisiva che ebbero sul più grandioso e romanzesco evento dell'unità italiana l'azione di molti siciliani, il contegno e il disinteressato entusiasmo del popolo di tutta l'isola... 

Lasciamo stare. Caliamo il sipario sui settantacinque anni di storiografia trascorsi dalla fondazione del regno a oggi. So che sono pronti i nuovi programmi per l'insegnamento della storia nelle scuole italiane; e non dubito che un ministro essenzialmente fascista qual'è colui che li à dettati oggi a nuovo, non riparerà alle omissioni e alle trascuratezze di trenta suoi predecessori. 

 
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