a scelta di questo argomento
può sembrare
anomala all’indomani della promulgazione di
una legge che vieta questa pratica nel nostro
paese, ma la grande diffusione a livello mondiale e l’incremento
della richiesta che si registra nei paesi dove
viene eseguita necessitano di una riflessione. Esistono
molte situazioni in cui una coppia non può utilizzare
i gameti di uno dei due partners in alcuni casi perché
uno dei due ne è completamente privo, in altri perché
l’uso dei propri gameti rappresenterebbe un rischio,
come nel caso di persone portatrici di gravi patologie
genetiche.
Nel 1884, presso la Jefferson Medical School di
Filadelfia, William Pencoast eseguì la prima inseminazione
utilizzando lo sperma di un donatore scelto tra i
suoi studenti. L’intervento si svolse nell’anfiteatro anatomico
mentre la paziente era anestetizzata ed esitò in
una gravidanza. Il ricorso a questa tecnica aumentò
gradatamente e discretamente nel corso degli anni. Tra
il 1949 e il 1950 venne utilizzato con successo, per il
congelamento degli spermatozoi bovini, il glicerolo
come agente crioprotettivo e nel 1953 Jerome Sherman
segnalò la nascita del primo bambino derivante da
un’inseminazione con seme congelato. L’accettazione
della tecnica fu comunque lenta: solo i cambiamenti
culturali profondi degli anni sessanta, insieme a un atteggiamento
più aperto nei confronti della sessualità e
della coppia, indussero un mutamento radicale nei
confronti dell’inseminazione con seme di donatore.
Tra il 1986 e il 1987 si stimarono 8.000 tra centri e singoli
medici che avevano praticato l’inseminazione con
seme da donatore su 76.000, facendo nascere 33.000
bambini; è ragionevole ipotizzare che negli Stati Uniti
siano circa un milione e trecentomila le persone concepite
con questa tecnica.
In Italia la pratica dell’inseminazione artificiale è
iniziata negli anni Cinquanta in completa clandestinità
e per lo più utilizzando seme fresco. Il seme criocongelato
fa la sua comparsa verso la fine degli anni
Settanta, ma negli anni successivi la tecnica ha subito
un’evoluzione veramente notevole ed è diventata utilizzabile
su larga scala con il perfezionamento delle
tecniche di crioconservazione (in azoto liquido, a
-196°C) che hanno consentito di far osservare ai campioni
di seme un periodo di quarantena: è possibile
cioè eseguire ripetutamente sul donatore i test per le
malattie infettive e utilizzare il campione depositato
solo qualora si abbia la certezza che il donatore non
ha contratto la malattia quando ha prodotto lo sperma.
Si pensi al rischio di trasmissione del virus dell’Hiv,
particolarmente elevato per la difficoltà di accertare la
sieropositività dei donatori in un periodo di alcuni mesi
durante il quale gli accertamenti fatti risultano negativi:
il congelamento del campione e il suo utilizzo
successivo dopo il periodo finestra rende sicura la procedura
ed elimina questo rischio.
Prima dell’introduzione della legge 40 le cosiddette
banche del seme promuovevano essenzialmente
due programmi: conservare il liquido seminale di uomini
che stessero per perdere la loro fertilità (per volontaria
rinuncia, come con la vasectomia, o per sottoporsi
a terapie chirurgiche o radianti a livello testicolare),
e per conservare il liquido seminale di donatori
esenti da malattie ereditarie o infettive, allo scopo
di inseminare artificialmente una coppia in cui fosse
stata riconosciuta una sterilità maschile non trattabile.
In alcuni paesi, come la Francia, il dono del seme
è gratuito e viene considerato il dono di una coppia
fertile – si preferiscono uomini sposati con prole – a
una coppia che non può avere figli; le donazioni avvengono
in centri pubblici e sono sollecitate da iniziative
pubblicitarie. In altri paesi, come Stati Uniti e
Giappone, il prelievo di liquido seminale viene retribuito.
Per evitare il rischio di consanguineità, da ogni
donatore si ottengono al massimo otto gravidanze.
Sebbene con la messa a punto della metodica Icsi, o
iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo, la
grande maggioranza dei pazienti, che fino ai primi anni
‘90 non poteva che rivolgersi all’eterologa, abbia
potuto eseguire cicli di fecondazione assistita con i
suoi stessi spermatozoi, anche se presenti in numero
esiguo o addirittura prelevati direttamente dal testicolo,
esistono tutt’oggi dei casi in cui non si può fare a
meno del seme eterologo. Si tratta di pazienti azoospermici
dopo terapie per tumori testicolari o altre
neoplasie, pazienti con azoospermia cosidetta “secretiva”
(che non producono spermatozoi del tutto ) o
pazienti portatori di malattie genetiche gravi che possono
essere trasmesse alla prole.
L'idea di paternità
Oggi la legge vieta questa procedura, ma nelle possibili
revisioni della normativa c’è chi suggerisce di richiedere
per l’inseminazione con seme di donatore le
stesse procedure richieste per l’adozione. In realtà i
presupposti dell’adozione sono completamente diversi:
un bambino esiste già con la sua storia, spesso dolorosa,
la sua personalità, la sua cultura e le sue esigenze
ed è già una persona titolare dei suoi diritti fondamentali.
Quindi i magistrati, gli psicologi e gli operatori
sociali hanno il dovere di cercare per ciascun bambino
una coppia di genitori adatta e funzionale proprio
a lui. Ma questo principio non può essere applicato a
una coppia che consapevolmente decide di aver un figlio
tramite inseminazione con seme di donatore (Aid)
e riteniamo che solo gravi e specifiche situazioni giustifichino
il rifiuto da parte di un centro di ammettere
una coppia in un programma di inseminazioni.
L’Aid introduce un nuovo modo di concepire la
paternità: le riflessioni sull’adozione hanno già messo
in luce come il figlio “vero” non sia quello biologicamente
proprio, ma sia quello voluto, indipendentemente
dalla naturalità genitoriale di coloro che gli sono
padre e madre. Il bambino nato dopo un’inseminazione
con seme di donatore è figlio biologico della
madre, ma non del padre, pur essendo nato da un progetto
comune. Si leggono spesso frettolose analisi psicologiche
sugli uomini che ricorrono alla Aid per avere
un figlio: non saprebbero elaborare il lutto della
propria sterilità oppure espierebbero così la “colpa” di
essere sterili. Tutto ciò può essere vero in qualche raro
caso, ma le coppie che ricorrono all’Aid sono coppie
normali, che prima dell’entrata in vigore della legge
40/2004 ritornavano spesso per un secondo o terzo
bambino, coppie che accettano e vivono questa
esperienza in maniera meno problematica di quanto ci
si possa aspettare dall’esterno. D’altra parte bisogna
considerare come il
concetto di famiglia
vada rapidamente
cambiando e stia
subendo un’evoluzione
rapida e significativa
nel vissuto
comune. Negli Stati
Uniti, ad esempio, si
calcola che il 60%
dei bambini nati negli
anni ‘90 prima
dell’età adulta avrà
conosciuto una situazione
familiare
diversa da quella di
origine. Nei colloqui
effettuati prima
di entrare nel programma
di inseminazione
è emerso
che la maggior parte
dei maschi della
coppia vede il figlio
come un progetto, come qualcosa che parte da loro,
anche se ci sono stati degli intermediari per ottenerlo.
L’artificiosità dell’intervento, che permette una genitorialità
impossibile per vie naturali, ma così presente
a livello psichico, diventa quindi un dato relativo.
L’uso di ovociti eterologhi è diventato possibile negli
anni ‘80 con la standardizzazione e la riproducibilità
delle tecniche di fecondazione assistita. Infatti, la disponibilità
di ovociti da donare è legata a una stimolazione
ovarica effettuata con farmaci adeguati e al prelievo
ovocitario: procedura sicuramente più invasiva rispetto
alla modalità di raccolta del campione di sperma,
che si effettua tramite masturbazione.
L’uso di ovociti didonatrice è indicato quando nella donna sia cessata la
funzione ovarica e questo può succedere per una menopausa
precoce, oppure in seguito a interventi chirurgici
a carico delle
ovaie. Infine, può essere
il risultato di cicli
di radio o chemioterapia
per patologie
oncologiche
come leucemie e linfomi.
Si valuta il ricorso
alla ovodonazione
anche quando,
dopo ripetuti cicli
di stimolazione
ovarica per fecondazione
in vitro, la risposta
delle ovaie in
termini di ovociti è
estremamente scarsa.
Nel 1999 negli
Stati Uniti sono stati
eseguiti 6.500 cicli
di ovodonazione e
dal 1991 si calcola
che nel Regno Unito
siano 22.000 i
bambini nati con donazione di gameti di cui 8.000 tramite
ovodonazione. La mancanza di un Registro fa sì
che in Italia sia difficile avere dati reali su quanti bambini
sono nati con questa tecnica. La ricerca del primo
figlio per le donne è differita di circa 10 anni in confronto
alle loro nonne. Rispetto al 1981, l’età media
delle primipare è passata da 25,2 a 28,2 anni, e le donne
diventate mamme per la prima volta a 35 anni erano
60.000 nel 1990 e 81.000 nel 1996. Nel frattempo
sono cambiate anche le abitudini sociali: le donne hanno
accesso agli studi, entrano nel mondo del lavoro e
attendono di avere consolidato la loro posizione prima
di avere un figlio. La vita presenta sorprese e difficoltà
e non è infrequente che dopo qualche anno di matrimonio
avvenga una separazione, un divorzio e la nascita
di un nuovo rapporto. Quando si forma una nuova
coppia, anche se non più giovanissima, è comprensibile
il desiderio di un bambino; si è quindi aperto un
divario tra l’età biologica in cui la fertilità è al massimo
(tra i 18 e i 25 anni) e l’età socialmente più idonea ad
avere un figlio (30-35 anni e oltre). Un terzo delle donne
che ritardano la gravidanza dopo i 37 anni e più della
metà di quelle dopo i 40 avranno difficoltà a concepire
indipendentemente dal fatto che abbiano già avuto
figli in passato; si capisce quindi l’aumento della richiesta
di ovodonazione, una tecnica che permette alla
donna e alla coppia di vivere tutte le tappe biologiche
legate alla gravidanza e al parto.
Solidarietà fra donne
Sin dagli albori del mondo le coppie infertili che desideravano
figli sono ricorse a un aiuto esterno alla
coppia per poterne avere. La Bibbia è un’autorevole testimonianza:
«Abramo e Sara erano vecchi, ben avanti
negli anni, e Sara non aveva più i corsi ordinari delle
donne». Per avere un figlio, Sara concesse ad Abramo
la sua schiava Hagar perché potesse partorire sulle
sue ginocchia, per dare l’idea di un parto naturale
così che Sara potesse diventare la madre effettiva del
figlio che nasceva. In un contesto moderno e rispettoso
delle singole individualità la donazione di ovociti
può essere una grande testimonianza di solidarietà tra
le donne. Una indagine svolta dal Cecos nel 1997
metteva in evidenza che il 50% delle donne infertili
intervistate si dichiaravano disponibili in linea teorica
a donare propri ovociti ad altre donne che solo attraverso
questo dono avrebbero potuto avere un figlio,
con motivazioni fortemente legate a solidarietà e altruismo.
Parafrasando Dante – «intender non la può
chi non la prova» – alcuni problemi della sfera intima
e privata possono essere compresi solo da chi li ha sperimentati
o è stato molto vicino a qualcuno che li ha
vissuti personalmente.
La proibizione alla donazione di gameti metterà
fine a questa esperienza di solidarietà in Italia, ma certamente
non farà desistere le coppie che hanno bisogno
di ricorrere a questa tecnica negli altri paesi europei
dove la legge la consente. È già stato ampiamente
dimostrato che le proibizioni in ambito riproduttivo
non arrestano una pratica, ma alimentano la clandestinità
e il ricorso all’assistenza in altre nazioni.
Nel caso della proibizione della donazione di gameti
si è voluto ignorare la pluralità dei modelli genitoriali
e familiari che la stessa adozione aveva messo
in gioco, nel tentativo di legittimare un’unica forma di
famiglia tradizionale basata sui legami biologici, senza
alcuna considerazione riguardo al fatto che il concetto
di famiglia va rapidamente cambiando nel vissuto
comune e accanto al “legame di sangue” esistono altri
legami basati sull’affetto e sull’assunzione di responsabilità.
Inoltre riteniamo che nessuno abbia il diritto
di giudicare il desiderio di procreare degli altri,
distinguendo i desideri di paternità e maternità in buoni
e cattivi, altruisti ed egoisti, e soprattutto pare assurdo
che questa operazione si possa fare solo sulle
coppie che hanno un handicap riproduttivo, che in
questo modo si troverebbero a dover provare la loro
adeguatezza a essere genitori. Si aprirebbe così una
inaccettabile discriminazione tra chi è sterile e chi non
lo è, trasformando una disfunzione – il non poter avere
figli – in una condizione soggetta a permessi. Come
se bastasse non avere problemi a riprodursi per essere
genitori adeguati e consapevoli.
Claudia Livi e Elisabetta Chelo
Claudia Livi, Segreteria Nazionale del Centro Studi e Conservazione Ovociti e Sperma Umani (Cecos italia)
Elisabetta Chelo, Centro Procreazione Assistita Demetra di Firenze