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Il divieto di fecondazione eterologa nega
la solidarietà e fraintende la famiglia

La donazione di gameti è l’unica possibilità per chi è sterile a causa di interventi chirurgici
o trattamenti antitumorali e per i portatori di gravi malattie trasmissibili alla prole

CLAUDIA LIVI, ELISABETTA CHELO

a scelta di questo argomento può sembrare anomala all’indomani della promulgazione di una legge che vieta questa pratica nel nostro paese, ma la grande diffusione a livello mondiale e l’incremento della richiesta che si registra nei paesi dove viene eseguita necessitano di una riflessione. Esistono molte situazioni in cui una coppia non può utilizzare i gameti di uno dei due partners in alcuni casi perché uno dei due ne è completamente privo, in altri perché l’uso dei propri gameti rappresenterebbe un rischio, come nel caso di persone portatrici di gravi patologie genetiche.
Nel 1884, presso la Jefferson Medical School di Filadelfia, William Pencoast eseguì la prima inseminazione utilizzando lo sperma di un donatore scelto tra i suoi studenti. L’intervento si svolse nell’anfiteatro anatomico mentre la paziente era anestetizzata ed esitò in una gravidanza. Il ricorso a questa tecnica aumentò gradatamente e discretamente nel corso degli anni. Tra il 1949 e il 1950 venne utilizzato con successo, per il congelamento degli spermatozoi bovini, il glicerolo come agente crioprotettivo e nel 1953 Jerome Sherman segnalò la nascita del primo bambino derivante da un’inseminazione con seme congelato. L’accettazione della tecnica fu comunque lenta: solo i cambiamenti culturali profondi degli anni sessanta, insieme a un atteggiamento più aperto nei confronti della sessualità e della coppia, indussero un mutamento radicale nei confronti dell’inseminazione con seme di donatore. Tra il 1986 e il 1987 si stimarono 8.000 tra centri e singoli medici che avevano praticato l’inseminazione con seme da donatore su 76.000, facendo nascere 33.000 bambini; è ragionevole ipotizzare che negli Stati Uniti siano circa un milione e trecentomila le persone concepite con questa tecnica.
In Italia la pratica dell’inseminazione artificiale è iniziata negli anni Cinquanta in completa clandestinità e per lo più utilizzando seme fresco. Il seme criocongelato fa la sua comparsa verso la fine degli anni Settanta, ma negli anni successivi la tecnica ha subito un’evoluzione veramente notevole ed è diventata utilizzabile su larga scala con il perfezionamento delle tecniche di crioconservazione (in azoto liquido, a -196°C) che hanno consentito di far osservare ai campioni di seme un periodo di quarantena: è possibile cioè eseguire ripetutamente sul donatore i test per le malattie infettive e utilizzare il campione depositato solo qualora si abbia la certezza che il donatore non ha contratto la malattia quando ha prodotto lo sperma. Si pensi al rischio di trasmissione del virus dell’Hiv, particolarmente elevato per la difficoltà di accertare la sieropositività dei donatori in un periodo di alcuni mesi durante il quale gli accertamenti fatti risultano negativi: il congelamento del campione e il suo utilizzo successivo dopo il periodo finestra rende sicura la procedura ed elimina questo rischio.
Prima dell’introduzione della legge 40 le cosiddette banche del seme promuovevano essenzialmente due programmi: conservare il liquido seminale di uomini che stessero per perdere la loro fertilità (per volontaria rinuncia, come con la vasectomia, o per sottoporsi a terapie chirurgiche o radianti a livello testicolare), e per conservare il liquido seminale di donatori esenti da malattie ereditarie o infettive, allo scopo di inseminare artificialmente una coppia in cui fosse stata riconosciuta una sterilità maschile non trattabile. In alcuni paesi, come la Francia, il dono del seme è gratuito e viene considerato il dono di una coppia fertile – si preferiscono uomini sposati con prole – a una coppia che non può avere figli; le donazioni avvengono in centri pubblici e sono sollecitate da iniziative pubblicitarie. In altri paesi, come Stati Uniti e Giappone, il prelievo di liquido seminale viene retribuito. Per evitare il rischio di consanguineità, da ogni donatore si ottengono al massimo otto gravidanze. Sebbene con la messa a punto della metodica Icsi, o iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo, la grande maggioranza dei pazienti, che fino ai primi anni ‘90 non poteva che rivolgersi all’eterologa, abbia potuto eseguire cicli di fecondazione assistita con i suoi stessi spermatozoi, anche se presenti in numero esiguo o addirittura prelevati direttamente dal testicolo, esistono tutt’oggi dei casi in cui non si può fare a meno del seme eterologo. Si tratta di pazienti azoospermici dopo terapie per tumori testicolari o altre neoplasie, pazienti con azoospermia cosidetta “secretiva” (che non producono spermatozoi del tutto ) o pazienti portatori di malattie genetiche gravi che possono essere trasmesse alla prole.


L'idea di paternità

Oggi la legge vieta questa procedura, ma nelle possibili revisioni della normativa c’è chi suggerisce di richiedere per l’inseminazione con seme di donatore le stesse procedure richieste per l’adozione. In realtà i presupposti dell’adozione sono completamente diversi: un bambino esiste già con la sua storia, spesso dolorosa, la sua personalità, la sua cultura e le sue esigenze ed è già una persona titolare dei suoi diritti fondamentali.



Quindi i magistrati, gli psicologi e gli operatori sociali hanno il dovere di cercare per ciascun bambino una coppia di genitori adatta e funzionale proprio a lui. Ma questo principio non può essere applicato a una coppia che consapevolmente decide di aver un figlio tramite inseminazione con seme di donatore (Aid) e riteniamo che solo gravi e specifiche situazioni giustifichino il rifiuto da parte di un centro di ammettere una coppia in un programma di inseminazioni.
L’Aid introduce un nuovo modo di concepire la paternità: le riflessioni sull’adozione hanno già messo in luce come il figlio “vero” non sia quello biologicamente proprio, ma sia quello voluto, indipendentemente dalla naturalità genitoriale di coloro che gli sono padre e madre. Il bambino nato dopo un’inseminazione con seme di donatore è figlio biologico della madre, ma non del padre, pur essendo nato da un progetto comune. Si leggono spesso frettolose analisi psicologiche sugli uomini che ricorrono alla Aid per avere un figlio: non saprebbero elaborare il lutto della propria sterilità oppure espierebbero così la “colpa” di essere sterili. Tutto ciò può essere vero in qualche raro caso, ma le coppie che ricorrono all’Aid sono coppie normali, che prima dell’entrata in vigore della legge 40/2004 ritornavano spesso per un secondo o terzo bambino, coppie che accettano e vivono questa esperienza in maniera meno problematica di quanto ci si possa aspettare dall’esterno. D’altra parte bisogna considerare come il concetto di famiglia vada rapidamente cambiando e stia subendo un’evoluzione rapida e significativa nel vissuto comune. Negli Stati Uniti, ad esempio, si calcola che il 60% dei bambini nati negli anni ‘90 prima dell’età adulta avrà conosciuto una situazione familiare diversa da quella di origine. Nei colloqui effettuati prima di entrare nel programma di inseminazione è emerso che la maggior parte dei maschi della coppia vede il figlio come un progetto, come qualcosa che parte da loro, anche se ci sono stati degli intermediari per ottenerlo. L’artificiosità dell’intervento, che permette una genitorialità impossibile per vie naturali, ma così presente a livello psichico, diventa quindi un dato relativo.



L’uso di ovociti eterologhi è diventato possibile negli anni ‘80 con la standardizzazione e la riproducibilità delle tecniche di fecondazione assistita. Infatti, la disponibilità di ovociti da donare è legata a una stimolazione ovarica effettuata con farmaci adeguati e al prelievo ovocitario: procedura sicuramente più invasiva rispetto alla modalità di raccolta del campione di sperma, che si effettua tramite masturbazione. L’uso di ovociti didonatrice è indicato quando nella donna sia cessata la funzione ovarica e questo può succedere per una menopausa precoce, oppure in seguito a interventi chirurgici a carico delle ovaie. Infine, può essere il risultato di cicli di radio o chemioterapia per patologie oncologiche come leucemie e linfomi. Si valuta il ricorso alla ovodonazione anche quando, dopo ripetuti cicli di stimolazione ovarica per fecondazione in vitro, la risposta delle ovaie in termini di ovociti è estremamente scarsa. Nel 1999 negli Stati Uniti sono stati eseguiti 6.500 cicli di ovodonazione e dal 1991 si calcola che nel Regno Unito siano 22.000 i bambini nati con donazione di gameti di cui 8.000 tramite ovodonazione. La mancanza di un Registro fa sì che in Italia sia difficile avere dati reali su quanti bambini sono nati con questa tecnica. La ricerca del primo figlio per le donne è differita di circa 10 anni in confronto alle loro nonne. Rispetto al 1981, l’età media delle primipare è passata da 25,2 a 28,2 anni, e le donne diventate mamme per la prima volta a 35 anni erano 60.000 nel 1990 e 81.000 nel 1996. Nel frattempo sono cambiate anche le abitudini sociali: le donne hanno accesso agli studi, entrano nel mondo del lavoro e attendono di avere consolidato la loro posizione prima di avere un figlio. La vita presenta sorprese e difficoltà e non è infrequente che dopo qualche anno di matrimonio avvenga una separazione, un divorzio e la nascita di un nuovo rapporto. Quando si forma una nuova coppia, anche se non più giovanissima, è comprensibile il desiderio di un bambino; si è quindi aperto un divario tra l’età biologica in cui la fertilità è al massimo (tra i 18 e i 25 anni) e l’età socialmente più idonea ad avere un figlio (30-35 anni e oltre). Un terzo delle donne che ritardano la gravidanza dopo i 37 anni e più della metà di quelle dopo i 40 avranno difficoltà a concepire indipendentemente dal fatto che abbiano già avuto figli in passato; si capisce quindi l’aumento della richiesta di ovodonazione, una tecnica che permette alla donna e alla coppia di vivere tutte le tappe biologiche legate alla gravidanza e al parto.


Solidarietà fra donne

Sin dagli albori del mondo le coppie infertili che desideravano figli sono ricorse a un aiuto esterno alla coppia per poterne avere. La Bibbia è un’autorevole testimonianza: «Abramo e Sara erano vecchi, ben avanti negli anni, e Sara non aveva più i corsi ordinari delle donne». Per avere un figlio, Sara concesse ad Abramo la sua schiava Hagar perché potesse partorire sulle sue ginocchia, per dare l’idea di un parto naturale così che Sara potesse diventare la madre effettiva del figlio che nasceva. In un contesto moderno e rispettoso delle singole individualità la donazione di ovociti può essere una grande testimonianza di solidarietà tra le donne. Una indagine svolta dal Cecos nel 1997 metteva in evidenza che il 50% delle donne infertili intervistate si dichiaravano disponibili in linea teorica a donare propri ovociti ad altre donne che solo attraverso questo dono avrebbero potuto avere un figlio, con motivazioni fortemente legate a solidarietà e altruismo. Parafrasando Dante – «intender non la può chi non la prova» – alcuni problemi della sfera intima e privata possono essere compresi solo da chi li ha sperimentati o è stato molto vicino a qualcuno che li ha vissuti personalmente. La proibizione alla donazione di gameti metterà fine a questa esperienza di solidarietà in Italia, ma certamente non farà desistere le coppie che hanno bisogno di ricorrere a questa tecnica negli altri paesi europei dove la legge la consente. È già stato ampiamente dimostrato che le proibizioni in ambito riproduttivo non arrestano una pratica, ma alimentano la clandestinità e il ricorso all’assistenza in altre nazioni. Nel caso della proibizione della donazione di gameti si è voluto ignorare la pluralità dei modelli genitoriali e familiari che la stessa adozione aveva messo in gioco, nel tentativo di legittimare un’unica forma di famiglia tradizionale basata sui legami biologici, senza alcuna considerazione riguardo al fatto che il concetto di famiglia va rapidamente cambiando nel vissuto comune e accanto al “legame di sangue” esistono altri legami basati sull’affetto e sull’assunzione di responsabilità. Inoltre riteniamo che nessuno abbia il diritto di giudicare il desiderio di procreare degli altri, distinguendo i desideri di paternità e maternità in buoni e cattivi, altruisti ed egoisti, e soprattutto pare assurdo che questa operazione si possa fare solo sulle coppie che hanno un handicap riproduttivo, che in questo modo si troverebbero a dover provare la loro adeguatezza a essere genitori. Si aprirebbe così una inaccettabile discriminazione tra chi è sterile e chi non lo è, trasformando una disfunzione – il non poter avere figli – in una condizione soggetta a permessi. Come se bastasse non avere problemi a riprodursi per essere genitori adeguati e consapevoli.
Claudia Livi e Elisabetta Chelo
Claudia Livi, Segreteria Nazionale del Centro Studi e Conservazione Ovociti e Sperma Umani (Cecos italia)
Elisabetta Chelo, Centro Procreazione Assistita Demetra di Firenze

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