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L’embrione e la scala cromatica

Il fatto che il concepito sia vivo e umano non implica che sia una persona riconoscergli dei diritti comporta gravi conseguenze filosofiche e legali

CHIARA LALLI
Intervento pubblicato sul numero 6 di Darwin III-IV / 2005


l 13 gennaio la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito referendario di abrogazione totale della legge sulla procreazione medicalmente assistita. Ha invece ritenuto ammissibili i quattro quesiti di abrogazione parziale, che riguardano i limiti sulla sperimentazione embrionale; la fecondazione di soli tre embrioni e l’obbligo di impianto contemporaneo, conseguenza del divieto di crioconservazione; l’attribuzione di diritti al concepito; il divieto di fecondazione eterologa. Il quesito referendario concettualmente più significativo è quello che riguarda l’attribuzione dei diritti al concepito. Prendere una decisione al riguardo, infatti, condiziona la valutazione morale della sperimentazione embrionale o della crioconservazione degli embrioni. È evidente che considerare il concepito come una persona condanna automaticamente ogni manipolazione su di esso.
La questione non è se il concepito è vita o se il concepito è un essere umano; certamente è vita e indubitabilmente appartiene alla specie Homo sapiens. La questione è se il concepito sia anche persona, e quindi titolare degli stessi diritti di cui godono le persone. Le domande cruciali allora sono: quali proprietà deve possedere un organismo per essere una persona? Quando si diventa persona, in un momento coincidente con il concepimento oppure in un momento successivo? Per rispondere non è possibile confidare in una soluzione fattuale; stabilire l’inizio della vita personale è una questione morale, e indicarne i criteri presenta alcune difficoltà. Queste difficoltà, tuttavia, non devono scoraggiarci nel cercare una risposta.
Il processo evolutivo che ha inizio con il concepimento è continuo e privo di scosse; non c’è modo di individuare un salto che abbia una rilevanza morale, proprio come in una scala cromatica è impossibile individuare il punto in cui un colore sfuma nell’altro. Questo è il cosiddetto problema della soglia: individuare quando una pre-persona diventa persona. La difficoltà di stabilire una soglia, secondo alcuni, è sufficiente per dimostrare che il concepito è persona, perché in futuro sarà sicuramente una persona e allora, procedendo a ritroso in un percorso senza fratture, deve essere persona anche adesso. Sebbene non sia possibile individuare il momento esatto in cui una pre-persona diventa persona, come non lo è stabilire il momento cruciale in cui il nero diventa grigio, la differenza concettuale permane. La graduale trasformazione da uno stadio al successivo non può giustificare la negazione della differenza tra una pre-persona e una persona, o tra il nero e il grigio.


Potenza e atto

Tutte le fasi evolutive umane presentano questo problema, e ogni classificazione costringe l’incessante fluire dell’esistenza in categorie severe e dai contorni inevitabilmente sfumati: è impossibile additare il momento esatto in cui un ragazzo diventa adulto, vi sarà una fase di dubbio e l’impercettibile e inarrestabile mutamento si sottrarrà a rigidi confini. Tuttavia, non siamo disposti a rinunciare alla differenza tra giovinezza e maturità basandoci sulla considerazione che la prima si trasforma nella seconda dolcemente. Né saremmo disposti a sostenere che, dal momento che è impossibile indicare un punto preciso di passaggio, l’adulto non sia mai stato ragazzo. Se riteniamo assurdo questo ragionamento, dovremmo ritenere altrettanto assurdo affermare che si è da sempre e da subito persone in base al fatto che il carattere personale non si manifesta come la luce elettrica dopo aver acceso l’interruttore, e piuttosto somiglia all’arrivo dell’aurora.
Un altro argomento spesso usato a sostegno del conferimento di diritti all’embrione è quello della potenzialità: il concepito ha gli stessi diritti di una persona perché è una persona in potenza. Questo argomento inferisce l’esistenza di diritti attuali da future proprietà. La possibilità o la certezza che in futuro un organismo acquisisca determinate caratteristiche che non possiede allo stato attuale non ci giustifica però a trattarlo come se le avesse già acquisite. Altrimenti andremmo incontro a grottesche conseguenze: siamo autorizzati a trattarci come se fossimo morti, dal momento che lo saremo sicuramente prima o poi? Siamo disposti a permettere a un bambino di otto anni di votare in base al fatto che tra dieci anni avrà quelle caratteristiche che giudichiamo necessarie per il conferimento del diritto di voto? Certamente non lo siamo; allo stesso modo, non siamo autorizzati a conferire all’embrione diritti attuali in virtù del fatto che l’esito del suo sviluppo, se non interrotto, sarà una persona.
La vita e l’appartenenza alla specie umana non sono sufficienti per essere una persona: anche uno spermatozoo è vivo e appartiene alla specie umana, ma nessuno vorrebbe attribuirgli dei diritti. E nemmeno il fatto che al concepimento si formi una identità genetica unica è significativo per il conferimento di una identità personale, perché i geni non sono che istruzioni per sviluppare in futuro quelle caratteristiche necessarie per essere una persona, ma abbiamo nuovamente a che fare con l’argomento della potenzialità.
I requisiti minimi per essere una persona sono la presenza di stati mentali coscienti e di una pur rudimentale capacità di autocoscienza, cioè la possibilità di percepirsi come soggetti di esperienza cosciente. È abbastanza inverosimile attribuire all’embrione – sebbene umano e geneticamente irripetibile, e sebbene potenzialmente personale – queste caratteristiche; quindi, non è ammissibile considerarlo come una persona attuale e come titolare di pieni diritti.


Una gerarchia dei diritti

Il conferimento di diritti al concepito implica conseguenze gravi sia sul piano filosofico che su quello legale. Se il concepito è equiparato a una persona si delinea inevitabilmente un conflitto tra i suoi diritti e quelli della madre. Che succede nel caso in cui sia possibile assicurare la sopravvivenza di uno a discapito dell’altra? Non solo: in presenza di un diritto alla vita conferito al concepito, sarebbe ragionevole giudicare più deboli altri diritti, come quello di scegliere del proprio corpo oppure quello di scegliere il modo in cui condurre la propria vita. Questa gerarchia di diritti rischia di trasformare ogni donna incinta in un organismo deputato a portare a termine la gravidanza ad ogni costo, in nome dei diritti attribuiti al concepito. E rischia di trasformare quasi ogni sua azione in un atto potenzialmente criminale, in quanto violazione dei diritti del concepito.
Gli obblighi morali che ogni donna ha nei confronti del concepito non possono implicare una qualche attribuzione di diritti al concepito, se non al prezzo di una violazione intollerabile dei diritti di una persona attuale per preservare quelli di una persona potenziale. Inoltre, l’attribuzione di diritti al concepito costituirebbe un’insanabile contraddizione con la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Se il concepito gode di diritti, tali che non possa essere crioconservato né soppresso, allora come può quello stesso soggetto essere distrutto dalla madre che decide di abortire?
Il concepito avrebbe diritto all’inviolabilità nella fase iniziale della sua esistenza; tale diritto sarebbe revocato nel periodo di tempo tra l’impianto e il termine per interrompere la gravidanza concesso per legge (periodo in cui il concepito si trova in una fase di sviluppo più avanzata rispetto alla prima); poi gli sarebbe riconsegnato al terzo mese, sebbene vincolato al diritto alla salute della donna; infine, gli sarebbe restituito alla nascita nella sua inviolabilità. Questo andamento oscillatorio è palesemente assurdo. La donna si troverebbe nelle condizioni di poter interrompere la vita del concepito nel suo ventre, ma non a poter rifiutare l’impianto o deciderne l’eliminazione.
Paradossalmente, la donna sarebbe punibile se distruggesse la provetta in cui è conservato il suo concepito, ma non se abortisse, anche se in entrambi i casi l’esito dell’azione è l’interruzione della vita biologica del concepito.
Il rimedio alla contraddizione consiste nella cancellazione dei diritti del concepito, oppure nella cancellazione della possibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza. Non esiste una soluzione intermedia, e non esiste la possibilità di conciliare la frattura in altro modo.

Chiara Lalli, filosofa, è autrice di Libertà procreativa (Liguori, 2004)

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