l 13 gennaio la Corte Costituzionale ha giudicato
inammissibile il quesito referendario di
abrogazione totale della legge sulla procreazione
medicalmente assistita. Ha invece ritenuto ammissibili
i quattro quesiti di abrogazione parziale, che
riguardano i limiti sulla sperimentazione embrionale;
la fecondazione di soli tre embrioni e l’obbligo di impianto
contemporaneo, conseguenza del divieto di
crioconservazione; l’attribuzione di diritti al concepito;
il divieto di fecondazione eterologa. Il quesito referendario
concettualmente più significativo è quello
che riguarda l’attribuzione dei diritti al concepito.
Prendere una decisione al riguardo, infatti, condiziona
la valutazione morale della sperimentazione embrionale
o della crioconservazione degli embrioni. È
evidente che considerare il concepito come una persona
condanna automaticamente ogni manipolazione
su di esso.
La questione non è se il concepito è vita o se il
concepito è un essere umano; certamente è vita e indubitabilmente
appartiene alla specie Homo sapiens. La
questione è se il concepito sia anche persona, e quindi
titolare degli stessi diritti di cui godono le persone.
Le domande cruciali allora sono: quali proprietà deve
possedere un organismo per essere una persona?
Quando si diventa persona, in un momento coincidente
con il concepimento oppure in un momento
successivo? Per rispondere non è possibile
confidare in una soluzione fattuale;
stabilire l’inizio della vita personale
è una questione morale, e indicarne
i criteri presenta alcune
difficoltà. Queste difficoltà, tuttavia,
non devono scoraggiarci
nel cercare una risposta.
Il processo evolutivo che ha
inizio con il concepimento è
continuo e privo di scosse; non
c’è modo di individuare un salto
che abbia una rilevanza morale, proprio
come in una scala cromatica è impossibile
individuare il punto in cui un colore
sfuma nell’altro. Questo è il cosiddetto
problema della soglia: individuare quando una
pre-persona diventa persona. La difficoltà di stabilire
una soglia, secondo alcuni, è sufficiente per dimostrare
che il concepito è persona, perché in futuro
sarà sicuramente una persona e allora, procedendo a
ritroso in un percorso senza fratture, deve essere persona
anche adesso. Sebbene non sia possibile individuare
il momento esatto in cui una pre-persona diventa
persona, come non lo è stabilire il momento cruciale
in cui il nero diventa grigio, la differenza concettuale
permane. La graduale trasformazione da uno
stadio al successivo non può giustificare la negazione
della differenza tra una pre-persona e una persona, o
tra il nero e il grigio.
Potenza e atto
Tutte le fasi evolutive umane presentano questo problema,
e ogni classificazione costringe l’incessante
fluire dell’esistenza in categorie severe e dai contorni
inevitabilmente sfumati: è impossibile additare il
momento esatto in cui un ragazzo diventa adulto, vi
sarà una fase di dubbio e l’impercettibile e inarrestabile
mutamento si sottrarrà a rigidi confini. Tuttavia,
non siamo disposti a rinunciare alla differenza tra
giovinezza e maturità basandoci sulla considerazione
che la prima si trasforma nella seconda dolcemente.
Né saremmo disposti a sostenere che, dal momento
che è impossibile indicare un punto preciso di
passaggio, l’adulto non sia mai stato ragazzo. Se riteniamo
assurdo questo ragionamento, dovremmo ritenere
altrettanto assurdo affermare che si è da
sempre e da subito persone in base al fatto che il
carattere personale non si manifesta come la luce
elettrica dopo aver acceso l’interruttore, e
piuttosto somiglia all’arrivo dell’aurora.
Un altro argomento spesso usato a
sostegno del conferimento di diritti
all’embrione è quello della potenzialità:
il concepito ha gli stessi diritti
di una persona perché è una persona
in potenza. Questo argomento
inferisce l’esistenza di diritti attuali
da future proprietà. La possibilità o la
certezza che in futuro un organismo
acquisisca determinate caratteristiche
che non possiede allo stato attuale non
ci giustifica però a trattarlo come se le
avesse già acquisite. Altrimenti andremmo incontro a
grottesche conseguenze: siamo autorizzati a trattarci
come se fossimo morti, dal momento che lo saremo
sicuramente prima o poi? Siamo disposti a permettere
a un bambino di otto anni di votare in base al fatto
che tra dieci anni avrà quelle caratteristiche che
giudichiamo necessarie per il conferimento del diritto
di voto? Certamente non lo siamo; allo stesso modo, non siamo autorizzati a conferire all’embrione diritti attuali in virtù del fatto che l’esito del suo sviluppo, se non interrotto, sarà una persona.
La vita e l’appartenenza alla specie umana non
sono sufficienti per essere una persona: anche uno
spermatozoo è vivo e appartiene alla specie umana,
ma nessuno vorrebbe attribuirgli dei diritti. E nemmeno
il fatto che al concepimento si formi una identità
genetica unica è significativo per il conferimento
di una identità personale, perché i geni non sono
che istruzioni per sviluppare in futuro quelle caratteristiche
necessarie per essere una persona, ma abbiamo
nuovamente a che fare con l’argomento della
potenzialità.
I requisiti minimi per essere una persona sono la
presenza di stati mentali coscienti e di una pur rudimentale
capacità di autocoscienza, cioè la possibilità
di percepirsi come soggetti di esperienza cosciente. È
abbastanza inverosimile attribuire all’embrione – sebbene
umano e geneticamente irripetibile, e sebbene
potenzialmente personale – queste caratteristiche;
quindi, non è ammissibile considerarlo come una persona
attuale e come titolare di pieni diritti.
Una gerarchia dei diritti
Il conferimento di diritti al concepito implica conseguenze
gravi sia sul piano filosofico che su quello legale.
Se il concepito è equiparato a una persona si delinea
inevitabilmente un conflitto tra i suoi diritti e
quelli della madre. Che succede nel caso in cui sia possibile
assicurare la sopravvivenza di uno a discapito
dell’altra? Non solo: in presenza di un diritto alla vita
conferito al concepito, sarebbe ragionevole giudicare
più deboli altri diritti, come quello di scegliere del
proprio corpo oppure quello di scegliere il modo in
cui condurre la propria vita. Questa gerarchia di diritti
rischia di trasformare ogni donna incinta in un organismo
deputato a portare a termine la gravidanza ad
ogni costo, in nome dei diritti attribuiti al concepito.
E rischia di trasformare quasi ogni sua azione in un atto
potenzialmente criminale, in quanto violazione dei
diritti del concepito.
Gli obblighi morali che ogni donna ha nei confronti
del concepito non
possono implicare una
qualche attribuzione di diritti
al concepito, se non al
prezzo di una violazione
intollerabile dei diritti di
una persona attuale per
preservare quelli di una
persona potenziale. Inoltre,
l’attribuzione di diritti
al concepito costituirebbe
un’insanabile contraddizione
con la legge sull’interruzione
volontaria di
gravidanza. Se il concepito
gode di diritti, tali che
non possa essere crioconservato
né soppresso, allora
come può quello stesso
soggetto essere distrutto
dalla madre che decide di
abortire?
Il concepito avrebbe
diritto all’inviolabilità nella
fase iniziale della sua esistenza; tale diritto sarebbe
revocato nel periodo di tempo tra l’impianto e il termine
per interrompere la gravidanza concesso per legge
(periodo in cui il concepito si trova in una fase di
sviluppo più avanzata rispetto alla prima); poi gli sarebbe
riconsegnato al terzo mese, sebbene vincolato
al diritto alla salute della donna; infine, gli sarebbe restituito
alla nascita nella sua inviolabilità. Questo andamento
oscillatorio è palesemente assurdo. La donna
si troverebbe nelle condizioni di poter interrompere
la vita del concepito nel suo ventre, ma non a poter
rifiutare l’impianto o deciderne l’eliminazione.
Paradossalmente, la donna sarebbe punibile se
distruggesse la provetta in cui è conservato il suo concepito,
ma non se abortisse, anche se in entrambi i casi
l’esito dell’azione è l’interruzione della vita biologica
del concepito.
Il rimedio alla contraddizione consiste nella cancellazione
dei diritti del concepito, oppure nella cancellazione
della possibilità di ricorrere all’interruzione
di gravidanza. Non esiste una soluzione intermedia,
e non esiste la possibilità di conciliare la frattura
in altro modo.
Chiara Lalli, filosofa, è autrice di Libertà procreativa (Liguori, 2004)
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