' esito del referendum sulla legge 40 del febbraio
2004 che stabilisce le norme per la fecondazione
assistita è destinato a segnare
profondamente non solo e non tanto la vita e la condizione
delle donne (come accadde per il referendum del
1981 sull’interruzione volontaria di gravidanza), quanto
il carattere del nostro paese, il rapporto che verrà a
stabilirsi tra la legge dello Stato e i principi della Chiesa
Cattolica con inevitabili ricadute sulla vita privata
dei cittadini e sulla ricerca scientifica. E infatti, dal giorno
in cui i referendum sono stati dichiarati ammissibili,
la donna è sparita o quasi come soggetto della legge
e oggetto della controversia. Il suo posto è stato preso
dall’embrione. Il dibattito così si è spostato dal soggetto
concreto interessato alla legge (la donna o la coppia
affetta da sterilità) a una entità di cui è controversa persino
la definizione (zigote, preembrione, embrione) e
di cui è impossibile, allo stato attuale della ricerca e del
pensiero filosofico, definire l’identità. E dunque, i temi
che nel corso di questi anni erano apparsi i più importanti,
quelli in virtù dei quali la legge è stata proposta,
sono stati sospinti in secondo piano, quando non siano
stati addirittura espunti dal dibattito pubblico. Si è evitato
ad esempio finora di discutere del numero di embrioni
che si possano o debbano trasferire in utero, o
della possibilità/necessità di sottoporre gli stessi embrioni
all’indagine preimpianto nel caso di coppie portatrici
di una malattia genetica. I difensori della legge,
dalle gerarchie cattoliche ai cosiddetti teocon, vanno
conducendo la loro «battaglia culturale» in
due direzioni. Da una parte colpevolizzando
il legittimo desiderio
di maternità della
donna (ridotto a mero capriccio
o velleità di onnipotenza),
dall’altra affermando
che l’embrione o
preembrione o zigote sarebbe
non una vita in potenza
come sostenuto da numerosi
filosofi e scienziati, ma già persona
titolare dunque di specifici
diritti. Si è scivolati così
dal terreno legislativo e politico
a quello della ideologia.
Il dibattito teologico
Nessuna sorpresa che dalla parte dell’embrione come
persona si sia collocata la Chiesa Cattolica. La posizione
di Giovanni Paolo II è sempre stata assai rigida
in materia, arrivando a negare a Parlamenti liberamente
e democraticamente eletti il diritto di legiferare
in tema di aborto e di fecondazione. È singolare
che, invece, la Chiesa si sia dimostrata assai più «laica
» quando si è trattato di definire la morte clinica.
Ma questo è un altro discorso. Alla fine degli anni ‘80,
con l’Istruzione Donum Vitae del cardinal Ratzinger e poi
con la Evangelium Vitae il Vaticano ha chiuso ogni spiraglio
di dialogo sui temi della sessualità e della procreazione
pure presente ai tempi di Paolo VI e in alcuni
settori della stessa Chiesa. Ma la Chiesa Cattolica
non può pretendere il monopolio della verità.
Non solo perché nel contrasto tra scienza e fede molto
spesso la Chiesa ha sostenuto posizioni sbagliate,
basti ricordare il caso più clamoroso, quello di Galileo.
Ma anche perché proprio sul problema in questione,
lo status del feto, il dibattito teologico è stato
nel corso dei secoli vivace. Se per Tertulliano infatti
«il concepito è già uomo, così come il frutto è già nel
seme», con Agostino cominciò a prevalere la tesi
dell’«animazione ritardata», sostenuta da
Tommaso d’Aquino basandosi sulla scansione
dei 40 giorni per la formazione
del feto maschile e degli 80 per quello
femminile. E ancora, a metà del
Settecento, il Sant’Uffizio confermava
il divieto del battesimo in
utero, dato che il «non nato», finché
nell’utero materno, non poteva
considerarsi parte dell’«umana
società». Vale la pena di tenere
presente questo lungo e tormentato
dibattito non per considerarne
valide le conclusioni, ma per
ricordare che le attuali posizioni
della Chiesa non possono considerarsi
verità di fede, ma, appunto,
posizioni frutto di un
lungo dibattito e quindi sempre
passibili di verifica e correzioni.
Il mito del Far West
Prima del febbraio 2004, prima cioè dell’approvazione
dell’attuale legge, non esisteva in Italia alcun Far
West della procreazione. Non avevamo un’organica
legge in materia, questo è vero. Ma le coppie infertili
potevano risolvere il problema rivolgendosi alle
strutture pubbliche o a quelle private che, in virtù di
una circolare emanata nel
1985 dal ministro della
Sanità, il democristiano
Costante Degan, erano le
uniche autorizzate alla fecondazione
eterologa. E
nelle strutture pubbliche
come in quelle private era
lecito il congelamento degli
embrioni sovrannumerari
e largamente praticata,
per fortuna, la diagnosi
preimpianto nel caso di
coppie affette da malattie
genetiche. Lo ricordo per
sottolineare che, caso
piuttosto raro, l’attuale
legge ha rappresentato,
dal punto di vista medico
e sociale, un arretramento
rispetto alla condizione
precedente. Ma c’è da
chiedersi anche perché
per tanti anni, da quando
la fecondazione assistita ha cominciato a essere praticata
nel nostro paese, non sia stata esercitata nei
confronti del personale politico, da parte delle gerarchie
cattoliche, una pressione analoga a quella che si
è manifestata nel corso dell’attuale legislatura. Può
darsi, naturalmente, che queste pressioni ci siano state
anche in passato senza tuttavia conseguire pieno
successo. Una sola spiegazione è possibile: il venir
meno della unità dei cattolici, con la fine della Dc, ha
rappresentato paradossalmente un vantaggio per le
gerarchie vaticane che hanno potuto esercitare la loro
influenza e trovare una sponda sia nello schieramento
di governo sia in quello dell’opposizione. Detto
in modo un po’ rozzo: nella Seconda Repubblica
tutti i leader, sia quelli che provenivano dagli affari e
dalla destra estrema, sia quelli che provenivano dalla
vecchia Dc, hanno ritenuto di avere bisogno di un
surplus di legittimazione. E l’hanno cercato, e spesso
ottenuto, dalla gerarchie vaticane.
Dopo una prima fase d’incertezza, che aveva consentito
a esponenti del mondo cattolico, laici e prelati,
di esprimersi in piena libertà sui singoli punti della
legge, è giunta, ai primi di marzo la decisione della Cei
che impegna i cattolici italiani a non andare a votare,
e dunque a far fallire il referendum in virtù del non raggiungimento
del quorum. A questa indicazione hanno
dichiarato di «sottomettersi» uomini politici dichiaratamente
cattolici della maggioranza come dell’opposizione.
Il caso più clamoroso, al momento in cui scrivo
è quello del senatore Andreotti costretto a rinnegare
una sua precedente dichiarazione favorevole alla
partecipazione al voto. La scelta della Chiesa è abile
sul piano tattico in quanto
si annette surrettiziamente
quel 30% circa di italiani,
cattolici o meno, che di
norma non partecipano alle
consultazioni referendarie.
Ma con questa decisione
la Chiesa ammette
anche la sua debolezza
scegliendo di sottrarsi (e
su un tema che dichiara di
grande rilevanza etica) al
dibattito pubblico e alla
verifica di maggioranza. E
cosa accadrebbe se, grazie
alla strategia del cardinal
Ruini, dalle urne uscisse
una straordinaria maggioranza
di sì, non sufficiente
tuttavia a modificare la
legge dato il non raggiungimento
del quorum? La
legge resterebbe giuridicamente
in vigore, ma socialmente
delegittimata dall’esito elettorale.
La convocazione del referendum ha impegnato
tutte le forze politiche a precisare la propria posizione.
I dirigenti del centrosinistra hanno sperato di tenere
le elezioni regionali al riparo dal dibattito referendario,
per questo pagando anche il prezzo della
mancata alleanza con i radicali della lista Coscioni.
Ma il cardinal Ruini ha deciso diversamente e ha colto
l’occasione della campagna elettorale regionale per
inserirvi i temi oggetto del referendum. La formazione
in maggiore difficoltà appare la Fed che, pur presentatasi
con un unico simbolo alle regionali e in prospettiva
alle politiche del 2006, non riesce a definire
una posizione unitaria, per le resistenze della Margherita
che pretende di rifugiarsi dietro il principio
della «libertà di coscienza». Un principio ambiguo se
il singolo che lo rivendica rispetto al proprio partito lo
fa in quanto vincolato a un’altra disciplina, in questo
caso quella della confessione cui appartiene. Ma un
principio che, per quanto legittimo quando rivendicato
dal singolo, non può servire da alibi a un organismo
politico incapace di assumersi le proprie responsabilità
di fronte a un problema di tanta rilevanza.
Miriam Mafai lavora per la Repubblica