L'opinione dei Redattori: Piero

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Gentilissima Signora Tonina Pantani,  

 

lo so che queste mie parole non le arriveranno mai, che in questo momento il suo cuore e la sua mente sono prese da altre cose, ma io scrivo lo stesso.

Fino a ieri non sapevo nemmeno della sua esistenza, forse avevo letto di lei qualche anno fa, quando suo figlio Marco era impegnato a scalare le montagne, ma lei, fino a ieri, era rimasta solo un nome. Poi ieri sera, guradando il telegiornale l’ho vista. 

Sfuocata, da lontano, ma l’ho vista e soprattutto ho ascoltato le sue parole. Quando pur distrutta come può essere distrutta una madre accanto alla bara del figlio, ha trovato dentro di sé la forza, una forza alimentata soltanto dalla rabbia, dall’indignazione, dallo schifo, per ribellarsi e per affrontare a muso duro tutti i giornalisti, i curiosi, tutta la gente inutile che stava rovinando quei momenti così tragici per lei e i suoi familiari. 

Sembrava una tigre, mentre, trattenuta a fatica da chi stava intorno a lei, ha scacciato chi, a suo avviso, le ha ammazzato il figlio. Non so se è vero, che quelle persone le abbiano effettivamente ammazzato Marco, forse no, non è vero, ma non è questo l’importante. L’importante è che ha fatto bene. Ha fatto bene ad avventarsi contro quella manica di sanguisughe, di squallide persone che ballavano intorno alla bara di suo figlio, con le loro facce di circostanza, fintamente tristi, ma attentissime a cogliere tutti i dettagli del vostro dolore e le vostre lacrime disperate. Ha fatto bene, e quasi mi spiace che siano riusciti a fermarla, prima che potesse mollare qualche sganassone, o a sputare in faccia a chi si merita solo uno sputo.

Da sabato sera, quando gli organi di stampa hanno dato notizia della morte di Marco, abbiamo assistito ad un’indegna sequela di sciocchezze, di lacrime di coccodrillo, di volti impostati e di discorsi vuoti. Da sabato sera mi è venuto in mente un pezzo di una canzone di Giorgio Gaber del 1978, una canzone che, cominciando a parlare dei giornalisti, dice così:

    Compagni giornalisti avete troppa sete 

    e non sapete approfittare delle libertà che avete, 

    avete ancora la libertà di pensare 

    ma quello non lo fate 

    e in cambio pretendete la libertà di scrivere, 

    e di fotografare immagini geniali e interessanti, 

    di presidenti solidali e di mamme piangenti. 

    E in questa Italia piena di sgomento 

    come siete coraggiosi, voi che vi buttate 

    senza tremare un momento: 

    cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti, 

    e si direbbe proprio compiaciuti. 

    Voi vi buttate sul disastro umano 

    col gusto della lacrima in primo piano.

Ecco perché ha fatto bene, ad urlare quello che ha urlato, ecco perché mi spiace che non sia riuscita a raggiungerne qualcuno. Ma non erano solo i giornalisti. 

Domenica sera, proseguendo l’orgia di retorica, di ipocrisie e di frasi fatte, l’allenatore di una delle più quotate squadre di calcio italiane (squadra guarda caso che attualmente è sotto processo, di fronte alla magistratura ordinaria, per doping), ha avuto l’ardire di criticare voi, i genitori di Marco. 

Ha detto, questo personaggiucolo, più o meno, che non si doveva lasciar solo Marco in questi momenti di depressione, e “dov’erano i suoi genitori? A fare una vacanza!”. Credo che solo l’ignoranza possa generare un’arroganza così meschina. L’ignoranza di chi non sa, di chi non ha mai avuto la fortuna di scontrarsi contro quel muro implacabile che è la fine della voglia di vivere, altrimenti detta ‘depressione’. 

Chi le scrive, in diversi momenti della sua vita ci si è scontrato, contro questo muro, in una duplice veste. Nella veste di chi avrebbe voluto fare quello che ha fatto suo figlio, chiudendosi da qualche parte, da solo, rifiutando qualsiasi aiuto, e nella veste di chi avrebbe voluto aiutare, senza riuscirci, chi a sua volta si era chiuso da qualche parte. Chi le scrive conosce bene il dolore, la disperazione e soprattutto l’impotenza di chi vorrebbe aprire una porta ed un cuore che invece non si vogliono aprire. 

E se, proprio in questi momenti, arriva un arrogante ignorante a sparare sentenze, allora la rabbia, l’indignazione, il furore arrivano a livelli incontrollabili. Mentre scrivo stanno per avere luogo i funerali di Marco. Avete lasciato fuori le telecamere e i curiosi. 

Avete fatto non bene, ma benissimo. E spero vivamente che qualcuno riesca comunque ad avvicinarla, a farle qualche domanda idiota e che nessuno riesca a fermarla. Che lei ritrovi quella rabbia e quell’indignazione che aveva ieri, e che riesca a colpire quel qualcuno, a tirargli quel manrovescio che sarà sempre comunque troppo poco. “Colpirne uno per educarne cento!”, e per stavolta Mao Tze Tung avrebbe ragione. 

Questo è tutto. Vorrei chiudere soltanto con un augurio: che Marco, là dov’è adesso, riesca a trovare quella serenità che i corvi che ora volteggiano sulla sua bara gli avevano negato. 

Ti sia lieve la terra, Pirata.

Piero Cavallotti

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ULTRAS Vs FORZE ARMATE 5-0

 

E’ una storia tipicamente italiana, quella che raccontiamo oggi, ed è la storia, tragica e beffarda di un ragazzo di 26 anni.

Valery Melis, come dice il cognome, era sardo. La sua vita era stata contraddistinta da due scelte: era ultras del Cagliari, ed era militare di carriera. La prima scelta, ne siamo sicuri, era stata dettata da passione e amore; la seconda non sappiamo se da ideali o da necessità di lavorare e di sopravvivere, ma questo non ha importanza ai fini della nostra storia. In quanto militare, con i gradi di caporal maggiore, Valery era andato prima in Kosovo e poi in Macedonia. Ad aiutare gli altri. Tornato a casa, Valery si era ammalato in maniera grave: linfoma di  Hodgkin, volgarmente detto ‘tumore diffuso’, perché colpisce le ghiandole linfatiche. Tutte le ghiandole linfatiche. E qui la storia diventa, oltre che tragica, anche desolante.

Dovete sapere che tra i militari italiani che sono andati nel Balcani, ben 260, con una percentuale spaventosa, si sono ammalati, chi di linfoma di Hodgkin, chi di leucemia. Di loro, 23 erano morti. Ma dovete sapere anche che nei Balcani, gli eserciti occidentali avevano utilizzato proiettili all’uranio impoverito. Già, perché rinunciare ad un rapporto spesa/resa assolutamente conveniente? I proiettili all’uranio impoverito costano poco, eliminano un noioso (e costoso) problema di riciclaggio, sono molto più efficaci di quelli normali… Peccato che ci sia un piccolo effetto collaterale, vale a dire che questi proiettili mantengono una percentuale di radioattività molto alta, e la radioattività non faccia particolarmente bene all’organismo umano. E infatti, sarà una coincidenza, ma dei militari italiani presenti nei Balcani, in moltissimi, in una percentuale spaventosa, si sono ammalati. Non d’influenza o di raffreddore, ma di leucemia e linfoma di Hodgkin. E ventitré di loro erano nel frattempo morti.

Anche Valery si era ammalato di linfoma. E dal momento in cui si era ammalato, lui e la sua famiglia avevano cominciato una lunga e dolorosa guerra. Non solo contro il male, purtroppo. Come tutti i militari che si sono ammalati, anche Valery e la sua famiglia avevano richiesto allo stato italiano e alle forze armate il riconoscimento della malattia per cause di servizio. Cosa ovvia, direte voi, ma siamo in Italia, ed in Italia le cose ovvie non sono mai tali. Già, perché riconoscere la malattia per cause di servizio ai militari italiani che si erano ammalati nei Balcani, avrebbe significato riconoscere che lo stato italiano e le forze armate avevano mandato dei militari allo sbaraglio, che li avevano esposti ad un pericolo molto più grave e subdolo dei nemici in divisa che avrebbero potuto incontrare. Che per meri motivi economici e militari, i vertici delle forze armate avevano dimostrato un disprezzo ed un’indifferenza vigliacca nei confronti della vita umana. E allora, niente. Attaccandosi a perizie di parte, disprezzando il buon senso, la logica, ogni più piccolo sentimento di umanità e di umana comprensione, lo stato italiano e le forze armate hanno negato e continuano a negare un rapporto di causa/effetto tra l’utilizzo di uranio impoverito nei Balcani e le malattie e le morti di chi là ci era andato. Eh sì, chi può andare contro il parere di qualche illustre e prezzolato scienziato di fama mondiale, contro le assicurazioni di qualche generale tronfio dietro la sua divisa e le sue decorazioni. Badate, noi non siamo scienziati, non siamo certo in grado noi di trovare e dimostrare quel rapporto causa/effetto, ma da inveterati ignoranti quali noi siamo, perché nessuno ci ha spiegato ‘perché’? Perché stranamente la percentuale di ammalati tra i militari presenti nei Balcani, ed esposti all’uranio impoverito, è decine e decine di volte più alta di quella presente nella popolazione?

E così Valery e la sua famiglia si sono trovati soli, in questa tremenda battaglia. Soli soli? No, per fortuna no. Un superiore di Valery, il tenente Cristiano Pireddu, aveva promosso tra amici e colleghi una colletta per pagare alcune sue costose cure. L’ultima, un complesso trapianto di cellule staminali effettuato a Milano, non aveva però sortito effetti positivi. Ma, per la serie “Al ridicolo non c’è mai fine”, il tenente Cristiano Pireddu è stato sospeso dal servizio per aver promosso quella colletta. Vi giuro, sembra una barzelletta, ma è andata proprio così. Sospeso dal servizio, per avere promosso una colletta. Ma come, un povero tenentucolo osa tirar fuori umanità e comprensione e va contro quanto stabilito dall’oncologo di fama mondiale e da impettiti generali in divisa e medaglie? Non sia mai!

Però, no, non erano rimasti soli, Valery  e la sua famiglia. Oltre ai colleghi, ai pochi superiori in possesso di quella dignità e di quell’umanità che sono mancate invece a troppe altre persone, Valery aveva degli amici. I suoi amici ultras. Domenica 1 febbraio, durante la partita casalinga del Cagliari, gli ultras hanno esposto uno striscione “Valery, lo stato ti ha dimenticato, noi no!” E quello striscione è stato la punta di un iceberg fatto di solidarietà, aiuto, umanità, amicizia, comprensione, che non sono mai mancati a Valery nei suoi ultimi giorni di vita. Già, perché Valery, martedì 3 febbraio, è diventato la ventiquattresima vittima. Chissà se la domenica è riuscito a vedere quello striscione in Tv, le magliette che i giocatori del Cagliari hanno esposto dopo ogni gol e alla fine della vittoriosa partita, che riportava lo stesso slogan dello striscione. Speriamo di sì.

E’ una brutta storia, questa di Valery. Una storia di amore, di comprensione, di amicizia, di umanità, da una parte, e di stupidità, di mancanza di onore e di ogni più piccolo sentimento, di vigliaccheria, dall’altra. Le forze armate italiane avevano già fatto delle partite contro la gente, contro quel popolo che dovrebbero difendere, e finora le avevano vinte. Per la faccenda di Ustica, ad esempio, anche se qui forse abbiamo qualche speranza di vincere, se quel gruppo di generali felloni imputati di alto tradimento saranno condannati alla pena che meritano. Per la faccenda del Salvemini a Casalecchio, dove invece la sconfitta del popolo e del buon senso è stata definitiva, purtroppo.

Ma a Cagliari, no. A Cagliari per fortuna la partita è finita diversamente. Ho scritto 5 a 0 per gli ultras contro le forze armate, ma forse non è andata proprio così. Forse il passivo per le forze armate è stato molto più alto e la partita è stata sospesa per manifesta superiorità degli ultras. La superiorità di persone che spesso vengono criticate, ma che in questo contesto, come in molti altri, hanno dimostrato una umanità, un senso dell’onore, un coraggio che li ha fatti vincere alla grande.

Ciao, Valery, buon tifo, là dove sei.

 

Piero Cavallotti