|
" Beauty is
a lie "
(Zappa, You are what you is)
" Diciamolo con una bella menzogna "
(Platone, Simposio)
Marco:
Invito pubblicamente il caro Pasquale a parlarci del rapporto
tra Zappa e Barba, approfondendo, se ha voglia, la relazione tra
improvvisazione teatrale e musicale.
Pasquale:
Frank Zappa ed Eugenio Barba: tra i pochi nel novecento a rifiutare
il concetto stesso di "corrente artistica", l'uno riappropriandosi
della musica, l'altro del teatro, come manifestazioni atemporali
dell'uomo e non come evoluzione di forme artistiche. Non si tratta
di inventare nuove tecniche compositive ma di rigenerare le antiche,
le eterne presenti forme espressive della natura, e non solo della
natura umana. Uno spettacolo di Barba sembra di averlo già
visto, chissà, in sogno o in qualche mondo precedente.
Così pure in Zappa sembra di riascoltare tutta la musica
esistente come rinata.
Marco:
E l'improvvisazione?
Pasquale:
Si nota subito che c'era e non c'è più. C'era nella
musica d'organo, nel compositore che riscriveva quanto improvvisato
da lui stesso, nella commedia dell'arte, in qualsiasi produzione
che noi chiamiamo "artistica".
Marco:
Sul fatto che non ci sia più avrei qualche dubbio.
Pasquale:
E' risorta nel jazz, ma sta già morendo, è nata
aborto nella musica rock, ogni tanto ce la ricorda Dario Fo.
Marco:
E quella che oggi si definisce "improvvisazione"? Non
parlo solo nel jazz mummificato, ma, visto che citi Dario Fo,
anche di quella che si fa a teatro (quando si fa).
Pasquale:
Ciò che passa per "improvvisazione", in realtà,
si progetta. Sta tornando, moda, anche nei conservatori o nei
corsi di musicoterapia. Ma non se ne sente l'urgenza, è
terapia riservata a una nuova classe di professionisti. Altrimenti
è palliativo, fregola, distrazione, passatempo, rimedio
alla noia. Non è più una necessità. Nelle
forme più celebrate è pura letteratura, narcisismo
artistico.
Marco:
Cosa distingue l'improvvisazione "vera" da quella "fasulla"?
Pasquale:
L'improvvisazione è donarsi, denudarsi, diventare suono
tra i suoni, corpo tra i corpi, cosa tra le cose, rispondere,
reagire; essere presenti fisicamente, ci diceva Barba; muovere
l'aria coi suoni, diceva Zappa, o muovere i suoni col corpo. Senza
alcuna contropartita. Non ha nulla a che vedere con un progetto
artistico, con una produzione. Barba ci faceva partire da poche
parole, sempre ripetute, come una litania, o da pochi suoni, come
una cantilena, fino a trasformarla in un organismo vivente. Improvvisazione
è riprendersi il proprio corpo, le cose, anche quando decidiamo
di fare arte convenzionale...
Marco:
Sì, questa è certamente una lezione che la rivalutazione
del concetto di improvvisazione nel novecento ha dato a quella
che hai chiamato "arte convenzionale" o classica, anche
se la convenzione non è affatto estranea all'improvvisazione,
diciamo così, "tradizionale" di cui parli. D'altronde...
Pasquale:
Forse Omero.
Marco:
Omero?!
Pasquale:
Non inventava ciò che narrava, ma incorporava ciò
che tutti narravano (l'arte non era proprietà esclusiva
degli artisti). Non esisteva il pubblico, perché attore
era anche lo spettatore. Mai sentito un cantastorie con la chitarra?
In attesa di una nuova strofa la chitarra continua col suo basso
ostinato, senza mai interrompere la corrente temporale, nella
quale entrare e uscire, nella quale ospitare. Nei suoi concerti
Zappa riprende tale 'tradizione', tale istinto. In Barba tale
ritrovare o rivisitare avviene anche negli spettacoli di strada,
dove l'improvvisazione si mimetizza con persone, cose, ambienti,
strutture urbanistiche.
Marco:
Mi interessa molto quest'ultimo aspetto e credo non sia da sottovalutare
il rapporto tra l'improvvisazione e l'ambiente dove l'improvvisazione
ha luogo. Una curiosità: che ne pensi del Living Theater?
Pasquale:
L'improvvisazione non è libera lì, si copia quanto
avviene nella società, si tenta di documentare spezzoni
di realtà. L'improvvisazione dovrebbe avere, secondo loro,
uno scopo.
Marco:
Insomma, mi pare di capire che non ti piace.
Pasquale:
No, sono contento che il Living Theater esista ancora. Mi meraviglio
anzi che, nonostante l'esempio del Living, esistano ancora gli
edifici teatrali con tutto l'apparato di sprechi finanziari che
li mantengono in piedi.
Marco:
Quello che dici sugli edifici teatrali può essere esteso
a tutte le altre forme artistiche. E qui si può aprire
un discorso molto ampio sul rapporto tra arte e spazio. L'avvento
della modernità ha portato a una razionalizzazione dello
spazio civico (la città "razionalmente" organizzata,
amministrata) che ha influenzato anche il modo di fare, quando
non addirittura di "pensare" l'arte. Il museo è
l'esempio più eclatante della neutralizzazione della pittura.
Pasquale:
Questa è bella davvero. Un'eccellente definizione del museo.
Anzi, estenderei la definizione a tutta l'arte borghese: una neutralizzazione
della cultura.
Marco:
Infatti. Non solo la pittura ma anche la musica ha perso parte
del suo potere (o comunque alcune sue caratteristiche un tempo
considerate essenziali) nel momento in cui è stata dirottata
dalle chiese, dalle piazze e dalle strade alle sale da concerto.
Per non parlare dei grandi stadi della musica rock. Nel momento
in cui l'arte moderna ha bisogno di un'istituzione che ne preservi
l'esistenza, e ne condizioni così dall'esterno il modo
in cui va pensata e fruita, è già morta. L'arte
pre-moderna, popolare, tradizionale e religiosa, infatti, ha sempre
vissuto l'iscrizione in riti, tempi e luoghi stabiliti come un
fattore costitutivo. Questi tempi, questi luoghi e questi riti
erano la sua ragion d'essere immanente. Ma l'arte moderna, liberandosi
da tutte le barriere e i limiti tradizionali, mirava in questo
modo all'universalità. Questo è il suo aspetto "progressivo",
per questo era sovversiva e per questo è stato necessario
incapsularla in appositi spazi, in appositi tempi e ridurla nuovamente
a rito (andare a teatro, andare al concerto, andare alla mostra).
Un primo passo verso un'arte che dia nuovamente fastidio è
proprio la necessità di spezzare questa gabbia istituzionale,
questi nuovi riti. Abbattere, letteralmente, le mura.
Pasquale:
Sono d'accordo.
Marco:
Noi una volta abbiamo fatto una serata di avanguardia adolescenziale
in una birreria. Dal punto di vista del pubblico è stato
un fiasco (il "luogo" non era adatto, non c'era la necessaria
"attenzione", gli avventori si aspettavano "altro"
etc.)...ma è stata una delle cose più giuste che
abbiamo fatto: portare l'arte (o qualcosa che le assomigliasse)
dove non era previsto che fosse. Il problema è stato che
bisognava continuare su quella strada e farne altri cento di spettacoli
in luoghi non spettacolabili! A Roma, ad esempio, a differenza
che a Londra è vietato suonare per strada. E dov'è
che puoi permetterti di fare musica "fuori programma"
se non per strada?
Pasquale:
Certo, però anche a Londra che fanno sulle strade? Sono
semplicemente avvantaggiati dalla tolleranza dei poliziotti. Ma
c'è qualcuno che li ringrazia per il dono della poesia
che offrono? Non dovrebbero finanziarli o retribuirli con offerte
milionarie invece della mezza sterlina? Non sono folclore o attrazione
turistica per gente distratta?
Marco:
Certo, tuttavia la strada non è che uno dei luoghi che
andrebbero sfruttati. Anzi, se vogliamo, anche è diventata
noiosa e prevedibile.
Pasquale:
Anche lì vedo un museo, come per strade e locali di New
Orleans il jazz.
Marco:
Esattamente. Bisognerebbe portare in strada ciò che non
è pensato per essere fatto lì.
Pasquale:
Il fatto è che ci hanno tolto pure le strade, non sono
più nostre, appartengono a macchine e negozi, uffici, locali,
cancelli, porte. Non esistono che poche strade privilegiate dove
si va solo per passeggiare e non ne esistono più per incontrarsi
senza bisogno di un appuntamento. La strada è il luogo
della fretta.
Marco:
Per questo trovo spesso superficiali e nostalgici i cosiddetti
spettacoli "di strada". I buffoni, i trampolieri e i
musicanti che ripropongono spettacoli per strade che non esistono
più...Quelle cose andavano bene nel medioevo e lì
avevano un senso. Uno spettacolo circense, oggi, starebbe bene
al teatro dell'opera. In una periferia di Milano bisognerebbe
inscenare un bel Kammerspiel.
Pasquale:
Eravamo dei poveri illusi nel pensare che si potesse ritornare
sulla strada. Continua a crederci il Living, ci crede ancora Barba.
Ci credeva anche Pasolini. Dove fare ancora improvvisazione? Forse
nei pub? Nelle discoteche? Nei supermercati? Il problema che poni
non è minuscolo. Artaud, Jarry hanno sofferto la mancanza
di spazi naturali per il loro teatro. Ne soffre ancora Barba.
Ne soffriva talmente Grotowsky che si è ritirato in silenzio
a Pontedera. E' morto l'anno scorso.
Marco:
Non lo sapevo. L'improvvisazione è un luogo, su questo
mi pare siamo d'accordo. L'improvvisazione ha bisogno di un luogo
per esistere, un luogo fertile. Allo stesso tempo essa crea un
suo luogo ogni volta che accade. Il fatto che spesso non
sia concesso alcuno spazio all'improvvisazione (ti cacciano dalla
strada, ti bussano dal piano di sopra, ti staccano la corrente
etc.) vuol dire solo che i luoghi istituzionali (e casa propria
è un luogo istituzionale come ogni altro) non le permettono
di essere, ne hanno paura. Non è l'improvvisazione ad essere
invadente. E' la normalità che è onnipresente, ossessiva,
eterofobica.
Pasquale:
Questa parola?
Marco:
Sì, l'ho coniata adesso.
Pasquale:
Parliamo di Zappa. Che mi dici delle sue improvvisazioni?
Marco:
Ecco, è interessante confrontare questa "impotenza"
dell'improvvisazione con la strategia di Zappa. In fondo non riduceva
anche lui l'improvvisazione a intrattenimento nei grandi stadi?
Tuttavia, in Zappa il discorso è più complesso.
La forza di Zappa è proprio, come tu accennavi, la capacità
non solo di bilanciare l'approccio improvvisativo con quello compositivo
ma addirittura di fonderli insieme. La xenocronia e la trascrizione
di assoli sono i suoi maggiori contributi in questo campo.
Pasquale:
Ci sono musiche di Zappa che sembrano composte a tavolino (e non
ne mancano affatto: Peaches En Eegalia, il tema iniziale
di Big Swifty, di Waka Jawaka ecc. ecc.), ma che
nascono da improvvisazioni, sue o dei suoi musicisti, trascritte
o mixate non importa...
Marco:
...effettivamente, il tema di Big Swifty è proprio
una trascrizione di un assolo arrangiata per fiati.
Pasquale:
Ricorderei, a proposito, anche le innovazioni "tecnologiche"
di Zappa, dall'uso del wah-wah alla chitarra, a quello del mini
moog, a quello del collage, ecc. Anche in Barba il collage di
diverse improvvisazioni è diventato un metodo di lavoro.
Di decine e decine di improvvisazioni, di decine e decine di ore
di training. L'improvvisazione è sempre stata alla base
di qualsiasi produzione artistica. Abbiamo dimenticato, per esempio,
l'improvvisazione in metro e rima, che fino all'ottocento era
praticata nel mondo occidentale. Musicisti e poeti trascrivevano
quanto avevano improvvisato, non sempre componevano a tavolino.
Marco:
E la drammaturgia?
Pasquale:
La drammaturgia! Senza svalutare i drammaturghi che scrivono a
tavolino, bisogna ammettere che anche il teatro della commedia
dell'arte era tutto basato sull'improvvisazione. Sappiamo che
Shakespeare e Goldoni scrivevano su canovacci della commedia dell'arte.
O, almeno, vi attingevano idee. Bisognerebbe rileggersi il teatrino
delle meraviglie di Cervantes.
Marco:
C'è quindi sempre stata una simbiosi continua tra improvvisazione
e scrittura. Nel caso, citato prima, di Big Swifty e di
molti brani zappiani mi pare tuttavia che la stessa distinzione
tra improvvisazione e scrittura perda di importanza. Zappa ha
dimostrato che un assolo può essere trascritto, trasformato
in quartetto d'archi e restare un oggetto sonoro ascoltabile in
sé, autonomo. Però, paradossalmente, ha dimostrato
che la scrittura può essere libera, aperta, imprevedibile
come e più dell'improvvisazione. Si tratta in Zappa, certo,
di quel normale atteggiamento di attesa, intuizione, ripresa che
caratterizza ogni possibile improvvisazione (dal cantastorie al
musicista raga) ma se lo prendiamo un po' alla larga, se estendiamo
il concetto di improvvisazione alla capacità di creare
una continuità nel tempo accogliendo l'imprevisto etc.
allora in Zappa non solo la musica ma anche i testi, le copertine
dei dischi, gli spettacoli dal vivo rientrano in questa sua straordinaria
dote.
Pasquale:
Riascoltando The Best Band You Never Heard In Your Life:
Godfather part II sembra suonato da un gruppo di scalcagnati
che non hanno mixato bene il pezzo, tromba troppo alta rispetto
agli altri strumenti. La cosa naturalmente è costruita
ad hoc da Zappa.
Marco:
Esatto. Lui lo chiamava progetto/oggetto (o continuità
concettuale). Io e Daniele Timpano ne abbiamo spesso parlato come
di una sorta di predilezione per la "mutazione". La
capacità di riprendere, modificare fino anche a stravolgerlo
un pezzo musicale, un'immagine o un concetto a seconda dei contesti
e delle esigenze (basta ascoltare le varie versioni di un brano
in diversi concerti per rendersene conto o le rielaborazioni esplicite
tipo Son Of Mr. Green Genes) mantenendo un senso di continuità,
una coerenza sui generis sulla quale davvero sarebbe interessante
interrogarci. Una risposta plausibile mi pare sia l'interesse
di Zappa per l'inconscio culturale degli americani (e, per riflesso,
anche nostro) con cui egli gioca costantemente, che stuzzica e
provoca con suoni, immagini e parole. Egli rovista nel ciarpame
mediatico come lo psicanalista fa con i nostri incubi. Non solo
in quello che solitamente passa esplicitamente per "spazzatura
culturale" (b-movies, jingles, fumetti etc.) ma anche con
l'avanguardia e con l'arte cosiddetta "nobile" che invece
non è che un'altra parte dell'intera industria culturale
che ci inonda giornalmente col suo liquame (The Slime).
Tutto è ridotto ormai a spazzatura e questa mancanza di
gerarchie "oggettive" lungi dal giustificare un levigato-sbarazzino-innocuo
divertissement post-moderno diventa in Zappa vero e proprio terrorismo
sonoro. Per ascoltare Zappa è così: o capisci subito
il senso del gioco, ne diventi partecipe e ci godi oppure te la
fai sotto dalla paura e dal raccapriccio. Perché certi
dischi di Zappa (tipo 200 Motels, che adoro) sono terrificanti,
eccessivi, mostruosi! Una vera e propria discarica che ti assale
e ti stordisce. In Make A Jazz Noise Here si affoga letteralmente
nella musica: improvvisazione, atonalità, clownerie, musichette
idiote, rumori...Se Zappa rivitalizza la musica e le tecniche
compositive del passato lo fa però a costo di presentar
loro il conto della loro parzialità. Rendendole definitivamente
del passato in quanto pretendono di essere autonome e non
si rendono conto che sono oggettivamente, socialmente, ridotte
ad essere solo un tassello di un sistema dell'informazione e del
divertimento che ci prende per i fondelli ogni giorno. Zappa prende
la totalità per la gola e la fa cantare. L'urlo
agonizzante, patetico, violento, ridicolo che ne consegue è
causa di gioia perché è un urlo, per noi, liberatore.
Ci rende consci del mondo che ci circonda, delle sue illusioni,
dei suoi miti stantii, delle sue parole d'ordine. Zappa riesce
a fare tutto questo perché prende il Sistema e ci gioca
sopra; non si abbandona a nessuna mistica dell'immediatezza prendendola
come via di salvezza o di fuga: non il rock'n'roll, non l'avanguardia...e
non l'improvvisazione. Ecco, nonostante tutto io credo che Zappa
mantenga sempre un interesse centrale per la scrittura (opere
della maturità come The Yellow Shark e Civilization
Phase III sono monumenti alle delizie della partitura) che
non può essere reso "subalterno" a quello per
l'improvvisazione. Anzi, credo che alla fine egli aspirasse ad
essere sempre un organizzatore di suoni, eventi ed immagini e
che vedesse in questa sua capacità organizzativa (che certo
era molto libera e si serviva dell'improvvisazione come un momento
ineludibile) il proprio contributo "artistico".
Pasquale:
Devo concordare con te che in Zappa la scrittura ha un ruolo fondamentale,
non sognava da adolescente di diventare un musicista "classico"?
Usò una cospicua somma, avuta in regalo, per affrontare
un viaggio a New York solo per incontrare Edgar Varese. In Barba
non esiste, al contrario, "scrittura", il suo inchiostro
è il corpo vivente dell'attore. Se in Zappa e Barba l'improvvisazione
è un metodo di lavoro e di ricerca, è certo che
non ci sono soltanto somiglianze, ma anche differenze.
Marco:
Immagino di sì, anche se non conosco abbastanza Barba per
poter fare paragoni.
Pasquale:
La differenza più esteriore è l'accettazione del
mezzo tecnologico in Zappa e il rifiuto di esso da parte di Barba.
Altra differenza è il materiale usato: in Zappa anche il
ciarpame della produzione discografica, in Barba, come ho già
detto, il corpo vivente dell'attore, ma, in comune, la forza creativa
della natura, il ritorno al concreto, alla materia fisica: attori
e musicisti toccano, odorano, sentono, guardano con tutti i sensi,
non con le idee. I pensieri nascono dalle cose, non le cose dai
pensieri. Il che richiede una disciplina artistica che non è
la tecnica corporeo/musicale che si può coltivare nelle
accademie e nei conservatori, ma quella che si raggiunge con una
dedizione sovrumana alla scoperta delle proprie energie espressive.
Il virtuosismo è essenziale all'arte, ma non la salva.
Marco:
Le prove con Zappa erano notoriamente massacranti. Anche con Barba?
Pasquale:
Otto dieci ore di lavoro al giorno.
Marco:
Cavoli. Sì, effettivamente, vedo delle affinità.
Pasquale:
Alcuni musicisti/attori si sono ritirati dal duro metodo di Zappa/Barba.
Cinico sistema di selezione dei propri attori/musicisti. Anche
il jazz, è vero, richiede un duro lavoro quotidiano, come
del resto qualsiasi arte. Ma non richiede il superamento irrazionale
e impossibile delle proprie abilità espressive. A parte,
appunto, nei grandi artisti. I quali hanno dato più di
quanto offrissero le proprie possibilità tecniche. Su cos'è
questo di più...
Marco:
...sì è vero, anche nel jazz è talvolta avvenuto
qualcosa di simile. Molti musicisti, poi divenuti famosissimi
e modelli da imitare, suonavano in modo poco ortodosso, con palesi
limitazioni tecniche. Per me l'improvvisazione è davvero
un'esperienza fisica prima che strettamente musicale, mi spinge
a misurarmi fisicamente con lo strumento, percuoterlo, tirare
le corde, avvinghiarmi sui tasti. Tutto ciò che produco
è il risultato di una ricerca che è espressiva e
logica allo stesso tempo. Espressiva: perché mi porta dove
il consueto modo di suonare (addomesticato, prevedibile, pulito)
non mi porta. Logico: perché il materiale fonico che produco
possiede intrinsecamente un valore strutturale...melodico, armonico
o ritmico. E su questo lavoro per costruire l'improvvisazione.
Scusa l'interruzione.
Pasquale:
Anch'io interrompo spesso l'interlocutore. Non mi considero perciò
un maleducato. Stavo solo dicendo che su cos'è questo 'di
più', rispetto alla mera tecnica che si manifesta nei grandi
artisti, ne discutono già abbastanza i filosofi e i critici
d'arte.
Marco:
E tu che ne dici? Vogliamo lasciarlo nell'indeterminato o nel
mistico?
Pasquale:
Le parole non mi aiutano. Penso che qui ci basta nominarlo col
termine del divino Platone: delirio delle Muse.
Marco:
Parliamo di "improvvisazione" e tiri in ballo Platone!
Niente male.
Pasquale:
Ci siamo chiesti come mai nessun drammaturgo scriva oggi tragedie?
Le tragedie scritte negli ultimi due secoli non sono più
che esercitazioni letterarie. Non vado troppo per il sottile,
le eccezioni confermano.
Marco:
Posso anche darti ragione, ma che c'entrano Barba e Zappa?
Pasquale:
Abbiamo perso il dono di piangere. E di ridere. Zappa e Barba
ce ne fanno sentire nostalgia. Riascoltiamo il bandito di Chicago,
dove riso e pianto mi ricordano quello della tragedia greca. Ha
tentato Pasolini di riprendersi la tragedia, ma puzzava di citazioni.
Provo a ricordare alcuni brani di Zappa dove, per dirla alla Nietzsche,
si sente di più lo spirito dionisiaco: "The Final"
da 200 Motels, Flower Punk, I don't even care, l'accennato
Illinois Enema Bandit, Dickie's Such An Asshole, Peaches En
Regalia, King Kong. Ma tutta la sua musica ne è pervasa,
anche quando a quelli di Dioniso preferisce i doni di Apollo.
Tutta l'opera di Barba ci ridona la tragedia. Il problema è
che se ne fa subito un'opera artistica, anche questa reificata,
confezionata, da vendere; così torniamo alla 'neutralizzazione'
di ogni forma artistica. Ecco perché il tentativo barbiano
di portare gli spettacoli tra la gente comune è fallito
(ma chi ci dice che non sia un seme?). Vi è riuscito di
più Zappa. Anche qui non vado troppo per il sottile: mi
piace punzecchiare.
Marco:
Mi pare che quanto dici a proposito di apollineo e dionisiaco
si ricolleghi a quello che hai detto prima sul superamento "irrazionale
e impossibile delle proprie capacità" tramite l'improvvisazione.
Pasquale:
Sì, non solo superamento "irrazionale e impossibile
delle proprie capacità" tecniche, ma anche fisiche,
di sfida nei confronti della fatica. Non la resistenza atletica
tipica delle gare sportive o degli esercizi acrobatici circensi.
Barba chiamava 'organico' tutto ciò che riguardasse anima
e corpo, forza fisica e intellettuale. Movimento organico del
corpo era il corpo che si faceva pensiero e il pensiero che si
faceva corpo: il gesto non veniva programmato, non doveva nascere
da un esercizio ginnico o da gestualità stereotipe delle
scuole di danza o di teatro, non importa se di origine cinese,
balinese o della commedia dell'arte. Il gesto, per poter nascere
unico e differente anche da ciò che ne possa immaginare
chi lo compie, deve nascere dal training, dalla fatica portata
all'eccesso, solo allora il corpo si riconcilia con le cose. Ciò
è stato preso per raggiungimento dello stato di trans,
ma, se in qualsiasi momento gli attori fossero stati interrotti
durante un'improvvisazione, avrebbero ripreso dal punto in cui
si erano fermati. Un po' come nell'improvvisazione musicale. Mi
pare che proprio Zappa dicesse che non si fidava del musicista,
che, richiesto di interrompere un'improvvisazione, non sapeva
in quale tempo di quale battuta si trovasse.
Marco:
Lo considerava essenziale.
Pasquale:
Non è anche la capacità dei migliori jazzisti? Non
è il difetto di molti jazzisti quello di non sapere in
che zona del chorus si trovano e aspettano la rullata del batteritsta?
Beh, temo di offendere la suscettibilità dei milioni di
fans di Miles Davis, non la tua, spero, ma costui non sapeva dove
si trovasse durante le sue improvvisazioni. Almeno nella produzione
strettamente jazzistica, perché nel rock, ci si può
permettere di tutto. Scusami la divagazione pettegola.
Marco:
Figurati. Su Miles Davis non ti preoccupare non è un mio
idolo. Adoro i dischi che ho sentito: Bitches Brew, ovviamente,
e Nefertiti.
Pasquale:
Non ho presente Bitches Brew, ho invece presente molta
musica successiva alla produzione di Zappa che, se non lo scopiazzava
malamente, ne scimmiottava trovate ritmiche, timbriche, perfino
melodiche. Comunque, caro Marco, non prendere per verità
dimostrate quanto dico e non fartene influenzare troppo. Lontana
da me l'idea di moltiplicare il numero degli epigoni di Barba
o di Zappa. Già il mio gruppo teatrale era abbastanza autonomo
dal metodo barbiano da indirizzare la ricerca secondo le nostalgie
teatrali dei singoli attori.
Marco:
Parli del tuo lavoro col Teatro di Ventura?
Pasquale:
Si. Il nostro regista Ferruccio Merisi e, prima di lui, Silvio
Castiglioni, era abbastanza oculato da tener conto delle nostre
passioni teatrali, pur conservando la rigidità e i principi
generali del metodo di Barba: non meno di otto ore al giorno tra
acrobatica, esercizi vocali, danza, improvvisazioni sui testi,
ripetizioni - ma sempre nel delirio delle Muse o in 'estasi' -
di azioni teatrali fissate per il montaggio finale, ecc. ecc.,
in un'atmosfera di enorme concentrazione 'organica' che faceva
scorrere le ore senza che ce ne accorgessimo.
Marco:
Che intendi precisamente quando parli di "delirio delle muse",
di "stato di esaltazione"?
Pasquale:
...lo stato di esaltazione (uso tale termine solo per comodità)
permette al corpo di sprigionare energie di cui si meraviglia
lo stesso attore e non le considera esibizionisticamante come
bravura, ma come un dono del proprio corpo liberato dai condizionamenti
gestuali che subiamo fin dall'infanzia. Per raggiungerlo era necessario
un atteggiamento di totale fiducia nel regista e di totale abbandono
nel compiere i movimenti che il corpo ci dettava. Senza pudori
di sorta. Anche qui potremmo trovare analogie con Zappa e con
il jazz.
Marco:
Questo è molto interessante. Mi ci ritrovo abbastanza anche
se non so se quando suono raggiungo una forma di estasi e visto
che col mio gruppo di improvvisazione, i MMMC, le battute in genere
non ci sono...non posso verificare alla lettera quello che dici.
D'altronde a parlare di "estasi" mi sento un po' in
imbarazzo. Ma se si prende il termine nel senso originario, come
un "saltar fuori", e se quel "fuori" non è
una dimensione semplicemente trascendente, "spirituale",
ma una pratica di liberazione sociale che è, a un tempo,
personale e collettiva, allora sono pienamente d'accordo.
Pasquale:
Se parlo di superamento dell'impossibile parlo sempre anche di
ciò che alla ragione sembra impossibile. Pensare
col corpo, ci diceva Barba. E Zappa intende dire più o
meno la stessa cosa quando dice che la separazione tra mente e
corpo è un'illusione, un'ideologia. Quella del logos che
si fa carne è una considerazione che il cristianesimo ha
quasi subito asservito alla teologia e alla scolastica. Non ha
tollerato che il corpo, mortale, potesse pensare: il pensiero
appartiene all'anima immortale (in paradiso penseremo soltanto,
bella prospettiva!). Ne parla meglio Nietzsche.
Marco:
Senza dubbio.
Pasquale:
Pensare col corpo vuol dire per Barba portarlo dalla massima leggerezza
alla massima pesantezza, da un'assoluta immobilità a un'improvvisa
esplosione di forze: così vedevi corpi quasi dormienti
saltare all'improvviso per aria e ricadere con un tonfo sul pavimento,
senza che ci si rompesse le ossa, oppure, vedevi un oggetto, una
palla, una piuma, una bacchetta che, non come fanno i giocolieri
del circo, danzavano col corpo con imprevedibili voli: l'esercizio
non aveva un modello da seguire, quello per esempio degli esercizi
di acrobati, clowns, attori della commedia dell'arte, mimi o giocolieri,
ma doveva creare o rigenerare rapporti sepolti nella memoria del
nostro corpo martoriato dalle abitudini cittadine. Forse un riacquistare
il movimento di insetti, pesci, uccelli, leoni, elefanti, gazzelle.
Già Talete ci ricorda che l'uomo era in origine un altro
animale, un pesce. Sì, la sensazione del pubblico era quella
di assistere a uno spettacolo di animali, più che di uomini.
Un esercizio veniva portato all'estremo delle possibilità
di resistenza fisica; allorché sembrava che il sudore non
trasparisse più dalla pelle, tanto il corpo sembrava disidratato
(i critici più maligni dicevano che puzzavamo di sudore,
ed era vero), la lingua si seccava e, miracolo, allorché
sembrava che fossimo allo stremo delle forze, proprio allora riprendevamo
con più veemenza di prima, con sorprendenti movimenti,
energie vocali, gestuali, simboliche, in una condizione di estrema
autocoscienza e di padronanza della volontà. Ho fatto anche
dello psicodramma e so l'abisso che lo separa da quegli allenamenti.
Tali esplosioni di energie fisiche le ritrovo nei giochi dei bambini,
arrampicarsi sulla cima di un albero, rincorrere farfalle o lottare
per gioco. Ecco che il nostro corpo riviveva bambino, o riviveva
sciamano, o rabdomante. E ora tutto questo è morto per
sempre, ecco la tragedia. Il corpo non è più il
corpo, le stelle si confondono, in falsi cieli, coi lampioni.
Il nostro corpo pensava senza idee. Tornava a nominare le cose,
a parlare con esse.
Marco:
Dici "ora tutto questo è morto per sempre". Mi
infastidiscono i necrologi dell'arte, mi pare - in effetti - un
attività prediletta dell'estetica di cui l'arte
poco o nulla si cura. Chi parla d'arte per professione ne trae
buoni proventi anche nel celebrarne la scomparsa. Un paradosso
tipico del nostro prezioso modello sociale, direi. Al contrario,
l'artista non può mai fare a meno di credere in quello
che fa. Questo senza volermi nascondere la situazione orribile
che si trova intorno chiunque oggi voglia ancora dire qualcosa.
Allora mi chiedo: è davvero senza uscite la condizione
dell'arte e dell'improvvisazione oggi? Non si rischia di celebrarne
l'ormai solito funerale di maniera?
Pasquale:
L'arte, mi pare proprio lo dicesse Adorno, è come una donna
che si dona e, se non ricordo male, è il momento che ci
costringe finalmente a pensare senza idee, come di fronte a uno
spettacolo della natura. Non c'è più posto ormai
per la donna che si dona, come per doni di qualsiasi altro tipo.
|