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di Marco Maurizi, 13.03.2002
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BRUCKNER 8
coreografia di Uwe Scholz
musica di A. Bruckner
(eseguita dalla Leipziger Ballett Gewandhausorchester; diretta da Olaf Henzold)
Lipsia 24 - 11 - 2001

Sulle tante note dell'ottava sinfonia di Bruckner la coreografia di Uwe Scholz ci ha offerto il triste, interminabile spettacolo di un balletto appiccicato a forza ad una delle musiche meno "danzerecce" che siano mai state composte, di uno dei compositori meno leggiadri e frivoli che siano mai esistiti. Se si fosse giocato di più su questa assurdità, invece di parodiare a tutti i costi la monumentalità della musica con pose da gallina in tutù, forse ne sarebbe uscito fuori qualcosa di decente. Le solite false partenze di applauso tra una sezione e l'altra e un tripudio finale a scoppio ritardato hanno contribuito a far passare il tempo che non passava. Una scenografia scarna, lunghe e asimmetriche linee bianche sospese tra palco e platea, rendevano l'atmosfera siderea (e i costumi bianchi, scarni e attillati dei ballerini mantenevano l'effetto complessivo in bilico tra Spazio 1999 e una parata della federazione dei giovani comunisti della DDR). Sul palco, assolutamente spoglio, si svolgeva l'azione. L'orchestra, posizionata - contro tutte le leggi dell'acustica -invece che nella vicina buca, lontanissima in fondo al palco, emmetteva gemiti scarsamente udibili, generalmente soffocati dal tippettare odioso dei ballettanti. Il balletto dimostra quanto sia inutile il mero raddoppiamento della musica tramite l'azione scenica. Non rende la musica più comprensibile nel suo contenuto strettamente musicale (si limita a esporne i tratti più superficiali) e trasforma l'azione in assoluto non senso. Se Merce Cunningham collaborando con John Cage ha dimostrato qualcosa è proprio che la reciproca indipendenza rende un servizio più grande alla musica e alla danza, rispetto al tradizionale asservimento dell'una all'altra. Il principio assolutamente meccanico dell'imitazione su cui si basava tutta la rappresentazione dopo pochi minuti diveniva ridondante e fastidioso. Frammenti melodici e i timbri degli strumenti venivano stupidamente raddoppiati da gesti insignificanti. L'erompere dell'orchestra parodiato con l'entrata in scena di masse più voluminose. Temi e sezioni ripetute (si sa che Bruckner non aveva il dono della sintesi) portavano a noiose ripetizioni delle azioni in scena, con l'unico accorgimento di renderle "speculari" a quanto fatto prima. La spazializzazione del tempo e la detemporalizzazione della danza hanno reso eterno uno spettacolo interminabile. La musica è verbalmente muta ma si esprime tramite questo mutismo. Se appiccicandoci le parole non diventa più comprensibile, appiccicandoci i gesti non si muove più veloce. Da muta diventa storpia.

DER ROSENKAVALIER
di Richard Strauss
libretto di Hugo von Hoffmanstahl
Diretta da G. Alexander Albrecht
Lipsia 3 - 2- 2002

Un negretto sgambetta sdraiato sul palco mentre il pubblico prende posto. Ha due compiti principali. Il primo è di appiccicare sul sipario tre foglietti da cui si legge "è soltanto un sogno?". Ad ogni atto cade un foglietto
e quando il sipario si abbassa la scritta cambia "soltanto un sogno?" e "sogno". Il secondo compito, probabilmente involontario, è di ricordarci che l'opera è stata scritta in pieno imperialismo coloniale, quando le principali potenze europee si preparavano al massacro della guerra mondiale. Richard Strauss ha scritto un'opera che è quasi un'operetta degna dell'omonimo Johan. La musica, una pallida imitazione della potenza dell'Elettra, gorgheggia su e giù tra il solito ghiotto colorismo orchestrale straussiano e mezzucci da due soldi che catturano l'attenzione dello spettatore distratto. Anche se, va detto, l'azione non è affatto noiosa. A parte il primo atto, abbastanza statico, il resto fila via liscio, tra trovate sceniche, scherzi, scenette etc.
Scenografia (A. Kirchner - M. Keller) costumi (J. Herzog) senza infamia e senza lode; perfetti, azzeccati, inutili. Un'esecuzione pulita ma non brillante di un'opera invece troppo pulita e brillante; un'opera che brilla del luccichio del mestiere che tanto fa ridere il publico e a cui tanto arride il successo. Alla fine c'è ancora posto per il negretto che sgambetta buffamente qua e là, raccoglie il fazzoletto perduto dai protagonisti e glielo porta strappando l'ultimo sorrisino della serata. Applausi. La perfezione indiscreta della borghesia in un'opera che è la quintessenza di Strauss, il borghese . Il giovane cavaliere della rosa è interpretato da una donna. La cosa migliore erano le scene di amore lesbico che ne venivano fuori. Veramente molto sensuali.

 


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