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BRUCKNER 8
coreografia di Uwe Scholz
musica di A. Bruckner
(eseguita dalla Leipziger Ballett Gewandhausorchester; diretta
da Olaf Henzold)
Lipsia 24 - 11 - 2001
Sulle tante note dell'ottava sinfonia
di Bruckner la coreografia di Uwe Scholz ci ha offerto il triste,
interminabile spettacolo di un balletto appiccicato a forza ad
una delle musiche meno "danzerecce" che siano mai state
composte, di uno dei compositori meno leggiadri e frivoli che
siano mai esistiti. Se si fosse giocato di più su questa assurdità,
invece di parodiare a tutti i costi la monumentalità della
musica con pose da gallina in tutù, forse ne sarebbe uscito fuori
qualcosa di decente. Le solite false partenze di applauso tra
una sezione e l'altra e un tripudio finale a scoppio ritardato
hanno contribuito a far passare il tempo che non passava. Una
scenografia scarna, lunghe e asimmetriche linee bianche sospese
tra palco e platea, rendevano l'atmosfera siderea (e i costumi
bianchi, scarni e attillati dei ballerini mantenevano l'effetto
complessivo in bilico tra Spazio 1999 e una parata della federazione
dei giovani comunisti della DDR). Sul palco, assolutamente spoglio,
si svolgeva l'azione. L'orchestra, posizionata - contro tutte
le leggi dell'acustica -invece che nella vicina buca, lontanissima
in fondo al palco, emmetteva gemiti scarsamente udibili, generalmente
soffocati dal tippettare odioso dei ballettanti. Il balletto dimostra
quanto sia inutile il mero raddoppiamento della musica
tramite l'azione scenica. Non rende la musica più comprensibile
nel suo contenuto strettamente musicale (si limita a esporne i
tratti più superficiali) e trasforma l'azione in assoluto non
senso. Se Merce Cunningham collaborando con John Cage ha dimostrato
qualcosa è proprio che la reciproca indipendenza rende
un servizio più grande alla musica e alla danza, rispetto al
tradizionale asservimento dell'una all'altra. Il principio assolutamente
meccanico dell'imitazione su cui si basava tutta la rappresentazione
dopo pochi minuti diveniva ridondante e fastidioso. Frammenti
melodici e i timbri degli strumenti venivano stupidamente raddoppiati
da gesti insignificanti. L'erompere dell'orchestra parodiato con
l'entrata in scena di masse più voluminose. Temi e sezioni ripetute
(si sa che Bruckner non aveva il dono della sintesi) portavano
a noiose ripetizioni delle azioni in scena, con l'unico accorgimento
di renderle "speculari" a quanto fatto prima. La spazializzazione
del tempo e la detemporalizzazione della danza hanno reso eterno
uno spettacolo interminabile. La musica è verbalmente muta
ma si esprime tramite questo mutismo. Se appiccicandoci le parole
non diventa più comprensibile, appiccicandoci i gesti non si
muove più veloce. Da muta diventa storpia.
DER ROSENKAVALIER
di Richard Strauss
libretto di Hugo von Hoffmanstahl
Diretta da G. Alexander Albrecht
Lipsia 3 - 2- 2002
Un negretto sgambetta sdraiato sul
palco mentre il pubblico prende posto. Ha due compiti principali.
Il primo è di appiccicare sul sipario tre foglietti da cui si
legge "è soltanto un sogno?". Ad ogni atto cade un
foglietto
e quando il sipario si abbassa la scritta cambia "soltanto
un sogno?" e "sogno". Il secondo compito, probabilmente
involontario, è di ricordarci che l'opera è stata scritta in
pieno imperialismo coloniale, quando le principali potenze europee
si preparavano al massacro della guerra mondiale. Richard Strauss
ha scritto un'opera che è quasi un'operetta degna dell'omonimo
Johan. La musica, una pallida imitazione della potenza dell'Elettra,
gorgheggia su e giù tra il solito ghiotto colorismo orchestrale
straussiano e mezzucci da due soldi che catturano l'attenzione
dello spettatore distratto. Anche se, va detto, l'azione non è affatto noiosa. A parte il primo atto, abbastanza statico, il
resto fila via liscio, tra trovate sceniche, scherzi, scenette
etc.
Scenografia (A. Kirchner - M. Keller) costumi (J. Herzog) senza
infamia e senza lode; perfetti, azzeccati, inutili. Un'esecuzione
pulita ma non brillante di un'opera invece troppo pulita e brillante;
un'opera che brilla del luccichio del mestiere che tanto fa ridere
il publico e a cui tanto arride il successo. Alla fine c'è ancora
posto per il negretto che sgambetta buffamente qua e là, raccoglie
il fazzoletto perduto dai protagonisti e glielo porta strappando
l'ultimo sorrisino della serata. Applausi. La perfezione indiscreta
della borghesia in un'opera che è la quintessenza di Strauss,
il borghese . Il giovane cavaliere della rosa è interpretato
da una donna. La cosa migliore erano le scene di amore lesbico
che ne venivano fuori. Veramente molto sensuali.
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