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- L'ARCHIVIO delle news

QUANTO VALE UNO SQUALO? Dieci anni fa alle Maldive ogni squalo valeva circa 3.300 dollari USA. Vivo, naturalmente: e poiché gli squali grigi vivono una media di 18 anni, il valore totale della vita di uno squalo era di molto superiore. Soprattutto paragonato a quanto ricavava un pescatore vendendone le pinne: 32 dollari. Il valore degli squali è, ovviamente, del tutto teorico ma è stato ricavato da alcuni ricercatori tenendo conto dell’attrazione che i sub provano per gli squali e di quanto sono disposti a pagare pur di osservarli sott’acqua. Nel corso della ricerca si è stimato un numero totale di 76.850 immersioni di “shark-watching” su 35 punti di immersione. Con un spesa media – era il 1992 – di 30 USD per immersione, il totale è di oltre due milioni di dollari l’anno. Nello stesso studio i ricercatori hanno calcolato che gli squali “stanziali” nel punto d’immersione più popolare “valessero” 33.500 dollari l’anno. Includendo anche altri punti d‘immersione, la media per ciascuno squalo si aggirava a 3.300 dollari l’anno.

ANCORARE SULLA POSIDONIA Uno studio francese ha quantificato il danno procurato dalle imbarcazioni da diporto quando vi si ancorano sulle praterie di Posidonia. Ogni volta che l’ancora fa presa, spezza o strappa 20 ciuffi di Posidonia; altri 14 quando l’ancora viene recuperata da un verricello elettrico. Questa media di 34 ciuffi spezzati o dissotterrati rappresenta una perdita di circa 50 ciuffi per metro quadro di prateria. L’effetto non si limita solo a questo perché la scomparsa di quei ciuffi aumenta la frammentazione della prateria e ne indebolisce la compattezza. Lo studio, condotto nel parco marino francese di Port-Cros, suggerisce fra le misure di prevenzione anche una corretta informazione al pubblico del danno arrecato dalle ancore e la stesura di un “codice di comportamento per l’ancoraggio sulle praterie marine” (CASE) analogo a quello stilato per l’ancoraggio sulle Barriere Coralline, studiato in Australia dal Great Barrier Reef Marine Park.

AL’INQUINAMENTO DA PETROLIO E’ MOLTO PIU’ A LUNGO TERMINE DI QUANTO SI PENSASSE. 30 anni dopo l’affondamento della petroliera The Florida, nel Massachussets, il petrolio è ancora lì, sepolto sotto una tenue coltre di sabbia. Gli scienziati ritenevano che dopo una decina di anni l’ecosistema marino fosse in grado di “assorbire” incidenti di questo genere e sono stati quindi sorpresi di trovare in questi mesi le stesse concentrazioni di petrolio del 1976, sette anni dopo che la nave si era arenata. Questa scoperta fa ora temere che i ricercatori abbiano sottostimato l’impatto a lungo termine di incidenti come quello della Exxon Valdez, che nel 1989 ha sversato in Alaska una quantità sessanta volte superiore di petrolio a quella perduta dalla The Florida.

CALAMARI GIGANTI VITTIME DEL RISCALDAMENTO GLOBALE? E’ una delle ipotesi avanzate dai biologi spagnoli sulla morte del calamaro gigante spiaggiatosi a Luarca, nella regione settentrionale del paese. E’ il terzo esemplare comparso nell’arco di un mese, una frequenza davvero insolita se si pensa che dal 1962 ne sono stati segnalati solo 40 esemplari. “L’aumento di questi spiaggiamenti potrebbe essere legato a molti fattori, dalle manovre militari all’inquinamento, al riscaldamento globale” ha affermato Angel Guerra dell’Istituto Spagnolo di Ricerca Scientifica che sta studiando il caso. I calamari giganti, immensi animali di 18 metri di lunghezza e due tonnellate di peso che nessuno ha mai osservato nel loro ambiente naturale, vivrebbero a profondità comprese fra i 200 e i 700 metri di profondità. Gli scienziati ritengono che il riscaldamento delle acque superficiali impedirebbe al calamaro di riscendere in profondità. Uno degli esemplari spiaggiatosi a Luarca è un maschio, il primo mai stato ritrovato così a sud: “Potrebbe significare che il rapporto femmine-maschio è in favore delle prime o che questi calamari vivono esistenze separate e si incontrano nel periodo e nelle zone di riproduzione, magari proprio lungo fondali ripidi e profondi come quelli della costa delle Asturie” ha proseguito Guerra.

ARRIVA IN MEDITERRANEO LA NUBE INQUINANTE ASIATICA. Anche l’inquinamento si è globalizzato. Non esistono confini nell’atmosfera dove venti, correnti e depressioni miscelano e ridistribuiscono i gas provenienti anche da molto lontano. E il Mediterraneo agirebbe come lo scarico di un lavandino, risucchiando aria sporca da ogni dove: lo rivela un articolo su Science dei ricercatori del tedesco Istituto Max Planck e di altre istituzioni di ricerca europee e americane. Che spiegano: «Le prevalenti condizioni anticicloniche, soprattutto d’estate, favoriscono l'accumulo degli inquinanti. Alle più basse quote, fino a un paio chilometri d’altezza, si ritrovano i gas e le particelle dell’Europa del nord e dell’est. Più in alto si raccolgono gli inquinanti atmosferici provenienti dal Nord America e dall’Asia». La nube asiatica è il risultato delle emissioni delle centrali a carbone, degli scarichi delle automobili, degli incendi di spazzatura e legname onnipresenti in quei paesi; negli ultimi mesi è diventata più spessa e più ampia a causa dell’aumentare delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo. La grande nube avvelenata viene dapprima sospinta dalle correnti verso l’Africa quindi verso l’Atlantico per poi tornare indietro e finire in Mediterraneo. Se siete convinti di respirare aria buona andando per mare, sappiate che l’estate scorsa in mare aperto sono stati misurati valori dell’inquinamento atmosferico dieci volte superiori a quelli rilevati nelle zone rurali ai margini delle grandi città mediterranee.

BUONE NOTIZIE PER I PESCESPADA DELL’ATLANTICO. La sezione scientifica dell’ICCAT, la Commissione Internazionale per la conservazione dei Tonni atlantici, ha dichiarato che nel giro di tre anni il numero di pescispada del nord atlantico è tornato a livelli considerati accettabili. Il successo è stato determinato dalle drastiche misure di protezione adottate: quote fisse di cattura e chiusura delle aree di riproduzione nelle acque americane. I numeri vanno però interpretati: è vero che molti più pescespada nuotano ora nel Nord Atlantico, ma si tratta di giovani che non hanno ancora cominciato a riprodursi. L'ICCAT dovrà ora valutare se mantenere o allentare queste misure di protezione.



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