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A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
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"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
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Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
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AA.VV., Psychoanalysis
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G. Leo (Editor)
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Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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"Psicologia
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"Id-entità mediterranee.
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Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
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"Vite soffiate. I vinti della
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
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Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
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Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
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STORIA
DELLO SHELL SHOCK
Durante
la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) i soldati si trovarono esposti a
un’ampia gamma di danni da esplosione. I soldati al fronte,
impegnati in una statica guerra di trincea, sperimentarono lo
sbarramento dell’artiglieria, gli attacchi dei mortai e la minaccia
delle mine devastanti. Il 60% delle morti nel corso della Prima Guerra
Mondiale fu causato dalle granate shrapnel (Jones et al., 2007).
«La
Grande
Guerra fu la prima guerra totale. […] Ciò che sconvolse la
gente non fu tanto la scala senza precedenti della tragedia, quanto lo
stallo
difensivo che trovò il suo simbolo nella trincea.
Ne risultò un nuovo paesaggio psichico oltre che geografico:
cunicoli, esplosione di mine, paura di essere sepolti vivi, rumori e
vibrazioni assordanti, l’insidia del gas, disorientamento,
frammentazione, mancanza di riferimenti visivi, cancellazione della
differenza tra notte e giorno, identificazione con il nemico,
riduzione della coscienza» (Zaretsky, 2004).
Nei
militari inglesi al fronte si presentarono molto presto problemi
psichiatrici: nel dicembre 1914 un rapporto ufficiale segnalò che
negli ospedali dell’area di Boulogne in Francia una percentuale
relativamente alta di ufficiali (7-10%) e di soldati (3-4%) della British
Expeditionary Force (BEF) erano affetti da esaurimenti nervosi e
mentali (Stone, 1985). I soldati stessi coniarono il termine shell shock (shock da granata o da esplosione) per indicare la
comparsa sempre più frequente nelle truppe dispiegate sulla linea del
fronte di sintomi, quali stanchezza, tremore, confusione, incubi e
disturbi della vista e dell’udito. Si trattava di uno spettro
clinico di condizioni neuropsichiatriche, che andavano dalla
“commozione cerebrale alla pura e semplice paura” (Mcleod, 2004).
Nel
maggio 1915 William Aldren Turner, epilettologo londinese di larga
fama, incaricato dal Ministero della Guerra della Gran Bretagna di
indagare su questo “nuovo disturbo”, descrisse lo shell
shock nel modo seguente: «… tipo di “esaurimento nervoso”
passeggero che non giustifica il nome di nevrastenia, che sembrerebbe
essere caratteristico di questa guerra … attribuito ad una causa
improvvisa o spaventosa quale essere testimoni di una visione orribile
o di una esperienza opprimente … il paziente diventa “nervoso”,
ingiustificatamente emotivo e malsicuro, e – fatto più tipico di
tutto – il suo sonno è disturbato da brutti sogni … di esperienze
avute. Anche le ore di veglia possono essere tormentate dal ricordo di
questi eventi. Le probabilità di guarire sono buone, soprattutto se
il paziente è rimandato a casa per un periodo di completo riposo» (Turner,
1915).
Nella
letteratura scientifica il termine shell
shock venne usato per la prima volta alla fine del 1915 e
all’inizio del
1916, in
una serie di articoli pubblicati su The Lancet da Charles S.
Myers (1873-1946)
per indicare i disturbi psicologici a carico della memoria, della
vista, dell’olfatto, del gusto e della sensibilità cutanea, che
avevano causato il rimpatrio di molti militari fin dal dicembre 1914.
Già molti anni prima erano stati osservati disturbi psichici
specifici, che si manifestavano in battaglia, ed erano stati chiamati
in vari modi, tra cui “cuore irritabile” o “cuore del soldato”
(“Sindrome di Da Costa”, dal nome del medico che la descrisse nel
corso della Guerra Civile Americana) e “shock nervoso generale” (Shorter,
2005).
Per
quanto riguarda la sua eziopatogenesi da principio si pensò che lo shell
shock fosse espressione di una lesione neurologica, una forma di
commozione cerebrale, conseguente all’urto di potenti agenti
esterni. La comunità scientifica considerò lo shell shock
come un’opportunità di studiare la localizzazione delle funzioni
psicomotorie nei casi con lesioni cerebrali causate dai frammenti
metallici delle granate, ma presto dovette fare i conti con un numero
crescente di soldati che, essendo stati vicini o avendo assistito a
un’esplosione e non avendo subito nessuna ferita al capo,
presentavano una serie di sintomi di difficile interpretazione:
amnesia, scarsa concentrazione, mal di testa, ronzio auricolare,
vertigini e tremore, che non guarivano con le cure ospedaliere.
Presto sorsero dubbi sulla relazione di causa-effetto tra il
traumatismo cerebrale diretto e lo shell shock e alcuni
avanzarono l’ipotesi che quei sintomi fossero di origine psicologica
piuttosto che organica, fino a considerarli una nevrosi traumatica (Jones
et al., 2007). Il termine nevrosi
traumatica era stato coniato nel lontano 1888 dal neurologo
tedesco Hermann Oppenheim (1858-1919) per indicare i disturbi
psichiatrici conseguenti a incidenti ferroviari e riconducibili a una
probabile origine organica. Quindi, inizialmente, per nevrosi
traumatica non si intendeva la natura funzionale dei sintomi
osservati.
Storicamente
ricordiamo che «l’interesse per le conseguenze psichiatriche dei
traumi [fisici] nacque dopo l’adozione dei sistemi assicurativi
sulla salute e sugli incidenti nella seconda metà del diciannovesimo
secolo» (Shorter, 2005). Particolarmente studiato fu il quadro
clinico denominato railway spine,
che si riscontrava nelle vittime di incidenti ferroviari, noto
all’inizio come malattia di Erichsen dal nome del medico inglese,
che per primo la descrisse nel 1875 attribuendolo a fattori organici.
Anche altri neurologi dell’epoca associarono ai traumi una serie di
quadri sintomatologici psichici e/o somatici. Tra questi vanno
ricordati il tedesco Carl Moeli (1849-1919), l’inglese Herbert Page
(1845-1926) e il francese Jean-Martin Charcot (1825-1893), che propose
il termine di
“isteria
traumatica” per certe forme di disabilità fisica che si
manifestavano a seguito di modesti traumi. Per ultimo ricordiamo il
tedesco Emil Kraepelin (1856-1926), che nella 4° edizione del suo
Manuale di psichiatria (1893) accettò la tesi di Oppenheim, ma
sostituì il termine nevrosi traumatica con quello di nevrosi
da paura (Schrecknevrose).
Con
il protrarsi del conflitto mondiale tra i soldati di tutti gli
eserciti si presentarono sempre più frequentemente quadri clinici
riconducibili allo shell shock,
e, dopo le gravissime perdite di uomini nelle battaglie della Somme e
di Verdun nell’autunno del 1916, le diverse nazioni cercarono di
approntare interventi in grado di far tornare a compiere il proprio
dovere al fronte il maggior numero di militari “traumatizzati”,
non più considerati semplicemente codardi o deboli. Inoltre, quando
nel 1917 fu chiaro che molti casi di shell
shock non erano direttamente riconducibili a traumi cranici, le
autorità militari tentarono di ridurre l’utilizzo di questa
diagnosi: ai militari, che arrivavano invalidi dal fronte, veniva
fatta la diagnosi provvisoria di NYDN (stato nervoso, non ancora
diagnosticato), mentre quelli che non guarivano, malgrado non avessero
lesioni cerebrali, erano classificati come “nevrastenici”. La
diagnosi di shell shock fu
gradualmente sostituita da quella di “nevrosi di guerra”.
Tuttavia,
il riconoscimento della natura psicogena, funzionale, dei sintomi
delle nevrosi di guerra portò come conseguenza che in molti casi
i nevrotici di guerra, che avevano presentato sintomi di
conversione isteriforme anche prima della guerra, venissero
considerati simulatori. Come possiamo immaginare, la valutazione dei
precedenti anamnestici di un numero crescente di pazienti non poteva
che essere grossolano. Ne derivò, pertanto, che da parte delle
autorità militari e sanitarie venne sostenuta la necessità di
ricorrere a terapie aggressive per ottenere un rapido ritorno al
fronte. Gli psichiatri misero a disposizione l’ampio armamentario di
metodi di cura, di cui allora disponevano, e i militari con diagnosi
di nevrosi di guerra furono trattati con la faradizzazione elettrica,
l’ipnosi, l’isolamento, le diete forzate e l’inganno. In
Francia, per esempio, per i casi “intrattabili” il neurologo
Clovis Vincent (1879-1947) ideò una forma “persuasiva” di
psicoterapia, chiamata torpillage (affondamento,
dal francese torpille
= siluro), nella quale venivano utilizzate correnti elettriche
faradiche e galvaniche.
LE
NEVROSI DI GUERRA E LA PSICOANALISI
Tra
i militari e nell’opinione pubblica crebbe l’opposizione ai
sistemi di cura violenti dei casi di nevrosi di guerra e, di
conseguenza, «la situazione fu quanto mai favorevole alla
psicoanalisi. Poiché accettava la dimensione psicologica, essa poteva
presentarsi come un’alternativa più umana e non coercitiva alla
psichiatria tradizionale» (Zaretsky, 2004).
Quasi
tutti i più stretti collaboratori di Freud presero parte alla Prima
Guerra Mondiale e molti di essi lavorarono con i soldati vittime di
nevrosi di guerra: il tedesco Karl Abraham
(1877-1925), presentatosi volontario, fu inviato a dirigere
l’Ospedale di Allenstein sul fronte orientale; l’ungherese Sandor Ferenczi
(1873-1933), arruolato come medico di un corpo di ussari a Pápa, fu
in seguito nominato primario del Servizio di neurologia
dell’Ospedale militare Maria-Valeria di Budapest, destinato ad
accogliere i nevrotici di guerra; il tedesco Ernst
Simmel (1882-1947) fu medico capo dell’Ospedale psichiatrico
da campo di Posen in Slesia; l’austriaco Otto Rank (1884-1939),
arruolato nell’artiglieria pesante, venne inviato a Cracovia; lo
slovacco Viktor
Tausk (1879-1919), arruolato come ufficiale nell’esercito
austro-ungarico, fu impiegato come perito psichiatra presso il
tribunale militare di Lublino e come patrocinatore dei soldati
processati per diserzione.
All’inizio
del 1915, l’inglese M. David Eder (1865-1936), uno dei fondatori
della Società Psicoanalitica di Londra nel 1913, si arruolò
volontario e fu assegnato come capitano medico al Reparto
Psico-Neurologico dell’Ospedale Militare di Malta, nel quale
venivano curati soprattutto i soldati ritenuti vittime di shell-shock,
una parte dei quali era reduce dalla cruenta campagna dei Dardanelli
nella penisola di Gallipoli contro le truppe turche.
Nel
1917 Eder pubblicò il libro War-Shock:
the Psycho-Neuroses in War. Psychology and Treatment (Shock da
guerra: le psiconevrosi di guerra. Psicologia e trattamento), nel
quale presentò i primi cento casi di psiconevrosi giunti alla sua
osservazione nel War Hospital di Malta con il duplice scopo di fornire
una comprensione psicologica dei loro sintomi e di mostrare «che i
soldati affetti da shock da guerra rispondevano particolarmente bene
al trattamento psicoterapeutico» (Eder, 1917).
Eder
concluse il suo libro con una serie di affermazioni: il war-shock (shock
da guerra) a)
non era una nuova malattia, ma una varietà di isteria, nella
quale il fattore “trauma psichico” era di gran lunga più
importante del fattore “predisposizione”; b)
non era causato dallo shell shock né
dall’avvelenamento da gas né da altre lesioni fisiche; c)
presentava una fenomenica sintomatologica proteiforme: «paralisi,
analgesia, ambliopia, mutismo, sordità, disturbi del sistema
vegetativo come il “cuore di soldato”, vomito, diarrea, insonnia,
perdita della memoria, sonnambulismo, fobie e ossessioni di tutti i
tipi» (ibid.). Le diagnosi dei cento pazienti presi in esame,
in accordo con la classificazione di Freud, erano state: isteria da
conversione (77 casi), isteria d’angoscia (17 casi) e psicastenia
(6), mentre i metodi di trattamento utilizzati erano stati:
suggestione ipnotica (79 casi), suggestione non ipnotica (5 casi),
suggestione sotto anestetico (6 casi), psicoanalisi (5 casi), altri
metodi (2 casi), nessun trattamento (3 casi).
Il
libro di Eder fu il primo in assoluto a trattare in modo specifico le
nevrosi di guerra e «servì molto all’avanzamento della psicologia
clinica. Fino ad allora una quantità di disturbi funzionali che si
presentavano nelle condizioni di guerra veniva inquadrata e
classificata, per mancanza di comprensione psicologica, nel gruppo
delle malattie organiche. Il libro di Eder contribuì molto al
salvataggio di quei disturbi dall’oblio terapeutico. Inoltre,
mettendo il titolo di war shock al posto di shell shock,
Eder riuscì ad ampliare enormemente la concezione di allora
dell’eziologia dell’intero gruppo delle nevrosi di guerra» (Glover,
1945).
Su
The Lancet del 2 febbraio 1918 comparve l’articolo An
address on the repression of war experience di William Rivers
(1864-1922). Si trattava del testo della conferenza tenuta due mesi
prima (4 dicembre 1917) davanti alla Sezione di Psichiatria della
Royal Society of Medicine, nella quale lo stesso Rivers aveva esposto
i meccanismi che stavano alla base delle nevrosi di guerra, aveva
descritto il trattamento di quattro casi e discusso i fattori che
avevano determinato i suoi successi terapeutici. Rivers utilizzò il
termine rimozione (repression) per indicare il processo
attraverso il quale le esperienze dei soldati nelle trincee avevano
dato origine a una serie di disturbi, quali ansia, alterazioni del
sonno e incubi terrifici, messo in atto come «tentativo di eliminare
dalla mente i ricordi angoscianti della guerra e gli stati affettivi
penosi, causati dall’esperienza bellica» (Rivers, 1918). Rivers
conosceva e apprezzava le idee di Freud,
per cui siamo portati a pensare che avesse utilizzato il termine
rimozione con il significato psicoanalitico di meccanismo di difesa
inconscio. Da altri, invece, è stato suggerito che Rivers intendesse
piuttosto attribuire al termine rimozione un significato più vicino
al concetto di evitamento (avoidance), uno degli aspetti
centrali dell’odierno disturbo da stress post-traumatico (Howorth,
1996).
Rivers
era rientrato in Inghilterra nel marzo 1915 dai territori della Nuova
Zelanda e delle Nuove Ebridi, ove aveva svolto ricerche
antropo-etnologiche tra gli aborigeni. In considerazione del suo
prestigio nei campi della psicologia e dell’antropologia, venne
presto inviato nel Moss
Side Military Hospital a Maghull, località non lontana da
Liverpool, dove prese servizio come medico nella unità terapeutica
specializzata nella cura dei soldati affetti da shell shock.
Grazie alla presenza di ottimi clinici di diversa formazione
l’Ospedale di Maghull divenne un centro di sperimentazione della
medicina psicologica allora in grande sviluppo. Alla fine del 1917
Rivers venne trasferito dalle autorità militari nel Craiglockhart War
Hospital presso Edinburgo, nel quale poté affinare la tecnica della
sua talking cure in favore dei pazienti affetti da nevrosi di
guerra, diagnosi che oramai sostituiva quella di shell shock
(Jones, 2010).
Nei
giorni 28 e 29 settembre del 1918 si tenne a Budapest il 5° Congresso
Internazionale di Psicoanalisi. Un paio di anni dopo Freud scrisse: «Nel
1918 il dottor Ernst Simmel, direttore di un ospedale per le nevrosi
di guerra a Posen, pubblicò un opuscolo nel quale riportava i
risultati davvero ottimi che aveva ottenuto con il metodo
psicoterapeutico da me introdotto in casi gravi di nevrosi di guerra.
Grazie a questa pubblicazione, parteciparono al successivo Congresso
di psicoanalisi, tenutosi a Budapest nel settembre 1918, alcuni
delegati ufficiali dei Comandi dell’esercito tedesco, austriaco e
ungherese, i quali, in quell’occasione, presero l’impegno di
istituire alcuni centri per un trattamento puramente psicologico delle
nevrosi di guerra. […] I preparativi per l’allestimento di centri
di questo tipo erano appunto in corso quando la situazione si rovesciò
violentemente ponendo fine alla guerra e all’influenza degli uffici
amministrativi che erano stati fino a quel momento onnipotenti. Ma con
la fine della guerra scomparvero anche i nevrotici di guerra: è
questa l’ultima ma impressionante testimonianza della causa psichica
delle loro malattie (Freud, 1920).
Il
congresso fu organizzato grazie al finanziamento di Anton von Freund
(1880-1920), facoltoso direttore del birrificio di famiglia a
Budapest, amico di Ferenczi e di Freud, dal quale era stato da poco
analizzato. I partecipanti furono quarantadue nonostante si fosse
ancora in tempo di guerra. «Il Congresso di Budapest adottò due
risoluzioni: la prospettiva di una terapia [psicoanalisi] “di
massa” e l’obbligatorietà di un’analisi personale propedeutica
[per chi intendesse praticare la psicoanalisi]» (Zaretsky, 2004, p.
148).
Nel
programma del congresso fu dato ampio spazio alle relazioni che
avevano come tema i traumi psichici dovuti alla guerra. Nelle
relazioni presentate da Ferenczi, Abraham, Simmel e Tausk
furono affrontate diverse tematiche attinenti alle nevrosi e
alle psicosi di guerra alla luce della teoria della libido freudiana
(Corsa, 2013). I contributi dei primi tre, ai quali venne aggiunta la
relazione che Ernest Jones (1879-1958) aveva presentato il 9 aprile
1918 alla Royal
Society of Medicine a Londra, costituirono il materiale
del libro Zür Psychoanalyse der
Kriegsneurosen (Sulla psicoanalisi delle nevrosi di guerra), che
costituì la prima pubblicazione della neonata Internationaler
Psychoanalytischer Verlag (Ferenczi et al., 1919). Il capitolo
introduttivo di questo volumetto, completamente dedicato alla
psicoanalisi delle nevrosi di guerra, fu scritto da Freud.
Nel
saggio Introduzione al libro “Psicoanalisi delle nevrosi di
guerra” Freud prese le distanze dall’approccio dei suoi
allievi, che avevano affrontato la questione interpretando le nevrosi
di guerra come fossero un tipo particolare di nevrosi di traslazione.
Poiché nelle nevrosi di guerra sembrava assente un fattore libidico
come quello che dava luogo alle comuni nevrosi di traslazione, Freud
suggerì una interpretazione che potesse essere comprensiva delle
differenti specie di nevrosi e, a questo scopo, utilizzò il concetto
di libido narcisistica, che aveva già sviluppato in Introduzione
al narcisismo nel 1914.
Secondo
Freud, le nevrosi di guerra erano una conseguenza dei conflitti tra
l’“Io di guerra” e l’“Io di pace” dei soldati: «Nella
misura in cui le nevrosi di guerra si distinguono da quelle comuni del
tempo di pace per alcune specifiche peculiarità, esse vanno intese
come delle nevrosi traumatiche la cui insorgenza è stata consentita o
facilitata da un conflitto nell’Io. […] Tale conflitto si svolge
tra il vecchio Io pacifico e il nuovo Io bellicoso del soldato, e
diventa acuto non appena l’Io pacifico si rende conto di rischiare
la vita per colpa della temerarietà del suo recente parassitico
duplicato. Si può dire che il vecchio Io si protegge da un pericolo
mortale con la fuga nella nevrosi traumatica, o anche che si difende
dal nuovo Io di cui riconosce la minacciosità per la propria
esistenza» (Freud,
1919).
Alcuni
anni dopo il Congresso di Budapest e dopo la fine della Grande Guerra,
nel periodo fine 1921 - inizio 1922, il giovane psichiatra americano
Abram Kardiner (1891-1981) andò a Vienna per fare la propria analisi
con Freud. Appena rientrato a New York, Kardiner aprì uno studio di
psicoanalista e riprese a lavorare nella clinica psichiatrica, nella
quale aveva lavorato prima di andare a Vienna. Dopo qualche mese lasciò
la clinica per un altro posto: «Mi era stato offerto ed avevo
accettato con gioia un lavoro presso il Veterans Bureau (Ente
di assistenza agli ex combattenti), dove ebbi la possibilità di
lavorare con ex soldati sofferenti di shell shock così come
allora venivano chiamate le nevrosi traumatiche di guerra. In esse si
osserva il blocco delle funzioni dell’Io quali la parola, l’udito
e talvolta di tutti gli organi di senso. Si possono riscontrare anche
tutte le fasi della regressione, talvolta fino all’infanzia. Inoltre
ci possono essere periodiche perdite di coscienza durante le quali
vengono rivissute e spesso ripetute le scene traumatiche. Accadono
anche fenomeni di paraplegia, di emiplegia e di disturbi al sistema
endocrino ed al sistema nervoso simpatico.
[…]
I miei tentativi di creare una teoria delle nevrosi di guerra si
rivelarono impossibili. Operando con i concetti della teoria della
libido, basati sulle forze istintuali, sugli stati di sviluppo
filogeneticamente programmati e su un complesso di Edipo
predeterminato, restava poco margine per spiegare la risposta ad una
esperienza traumatica, sia in situazioni belliche, sia in qualsiasi
altra circostanza che comporti un immediato pericolo di vita. Tuttavia
tentai e realizzai perfino qualche osservazione. Suddivisi le cariche
energetiche in fisse e mobili, scrissi un lungo saggio
sull’argomento che fu pubblicato sulla Psychoanalytic Quarterly,
e quindi abbandonai il progetto.
[…]
Le nevrosi di guerra dimostravano che le strategie difensive e quelle
adattive erano di carattere profondamente diverso a partire dal fatto
che talvolta una strategia difensiva può distruggere l’adattamento
di tutto l’Io. La chiave interpretativa della sindrome era che nella
risposta ad un rischio traumatico proveniente dall’ambiente, la
contrazione difensiva dell’Io distrugge la capacità di adattamento
di tutto l’organismo. In altre parole il trauma provoca la completa
disintegrazione dell’Io il che, a sua volta, porta al collasso dei
suoi meccanismi attivi. È qui che si può verificare il fallimento
dei meccanismi difensivi di adattamento quali la negazione, lo
spostamento e gli altri descritti da Freud nella sua Interpretazione
dei sogni. Il bisogno di negare, di dimenticare, di non vedere è
un tentativo di interrompere ogni collegamento e di difendersi da uno
stimolo pericoloso e doloroso. Ma la strategia adattativa fallisce e
diventa controproducente perché priva l’individuo di alcuni o di
tutti i suoi concreti strumenti di lotta. La cecità isterica taglia
fuori la scena pericolosa, ma purtroppo taglia fuori anche tutto il
resto» (Kardiner, 1977).
L’INVENZIONE
DI UNA NUOVA CATEGORIA DIAGNOSTICA: IL DISTURBO DA STRESS
POST-TRAUMATICO
Per
evitare una nuova epidemia di shell
shock durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) questo
termine fu bandito. Tuttavia, malgrado questa precauzione, i soldati
esposti ai danni diretti o indiretti da esplosione continuarono a
presentare una serie simile di sintomi di disagio mentale (Jones et
al., 1977). Per i quadri psicopatologici correlati ai traumi da guerra
vennero allora proposti altri termini. I disturbi della coscienza, non
giustificabili da una patologia organica cerebrale, vennero
considerati come sintomi di uno “Stato commotivo post-traumatico”
(Schaller, 1939) e, a partire dal 1941, per indicare gli stati
caratterizzati da cefalea, vertigini, astenia, ronzio auricolare,
difetti della memoria, scarsa concentrazione e nervosismo, venne
utilizzato il termine di “Sindrome post-commotiva” (Wittenbrook,
1941). Alla fine, però, questi tentativi di riclassificazione non
furono di grande aiuto per distinguere le cause fisiche dalle cause
psicologiche delle “malattie”, che insorgevano in guerra nei
soldati esposti alle esplosioni.
Negli
anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti presero
il posto dei paesi europei (Germania, Francia, Inghilterra) nella
leadership della psichiatria mondiale e il sistema di classificazione
dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association
(APA), riportato nelle varie edizioni del Diagnostic and
Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali, DSM), divenne la bussola, con la
quale la comunità scientifica internazionale si orientava nel
difficile e, in larga misura ancora inspiegabile, mondo delle malattie
della psiche.
Anche
durante e dopo la Guerra del Vietnam (1965-1973) molti soldati
presentarono gravi disturbi psichici a seguito dell’esposizione a
traumi bellici. In considerazione del fatto che nell’allora vigente
DSM-II (1968) non era contenuta una diagnosi corrispondente allo
stress da battaglia, per gli psichiatri americani diventò urgente e
necessario trovare un termine, che indicasse gli effetti di quel tipo
di stress sulla psiche. Il termine “Sindrome post-Vietnam”,
proposto in mancanza di un termine migliore, fu sostituito da quello
più comprensivo di “Disturbo da stress da catastrofe”.
La
task force dell’APA per il DSM-III (1980), incaricata di
studiare i Disturbi reattivi, riconoscendo che il disturbo da stress
da catastrofe poteva originare anche da traumi non bellici, propose il
termine di “Disturbo da stress post-traumatico” (PTSD), i cui
sintomi potevano svilupparsi immediatamente dopo l’esposizione al
trauma (PTSD “acuto”) o più tardi (PTSD “a esordio tardivo”).
A mio parere quello ideato nel 1980 non fu un termine felice. Stress
e trauma, come significato, sono espressioni tra loro molto vicine
come, peraltro, sono molto vicine al termine shock, che era
stato utilizzato in precedenza per indicare i disturbi secondari a
traumi che insorgevano nel corso delle guerre. I limiti di questa
nuova specifica categoria diagnostica sono da ricondurre anche al
difficile passaggio della psichiatria americana ufficiale dal dominio
della psicoanalisi al graduale e possente dominio della biologia e,
soprattutto, della psicofarmacologia. Da alcuni è stato detto, forse
esagerando, che il PTSD favorì l’enorme diffusione
dell’antidepressivo sertralina (Zoloft®). Analogamente forse
potremmo dire che furono le nevrosi di guerra a spianare la strada del
successo della psicoanalisi negli anni che seguirono la fine della
Prima Guerra Mondiale.
Lasciando
da parte questa questione piena di insidie, è importante sottolineare
che «da una prospettiva storica, il significativo cambiamento
introdotto dal concetto di PTSD fu il riconoscimento che l’agente
eziologico si trovava fuori dell’individuo (era, cioè, un evento
traumatico) piuttosto che essere insito nella debolezza
dell’individuo (non era, cioè, una nevrosi traumatica). La chiave
per comprendere la base scientifica e l’espressione clinica del PTSD
è il concetto di trauma» (Friedman, 2013).
Non
vi è dubbio, comunque, che furono i disturbi psichici osservati nei
combattenti e nei reduci del Vietnam a determinare la creazione del
PTSD nel DSM-III, categoria diagnostica caratterizzata dai seguenti
criteri diagnostici: A) Essere stati esposti ad un evento traumatico
con definite caratteristiche, B) Rivivere in modo persistente
l’evento traumatico in modi diversi (ricordi, sogni, azioni e
sensazioni, intenso disagio psicologico a fattori scatenanti
collegabili all’evento traumatico), C) Reagire a livello fisiologico
ai fattori scatenanti di cui sopra, D) Evitare in modo persistente gli
stimoli associati all’evento traumatico e presentare
un’attenuazione (non presente in precedenza) della reattività
generale, E) Presentare un aumento (non presente in precedenza)
dell’arousal (eccitazione, reattività, allarme), F) Durata
del disturbo superiore a un mese, G) Sperimentare una significativa
riduzione del funzionamento a livello sociale, occupazionale o in
altre aree della vita.
Tra
i criteri diagnostici del PTSD non sono presenti espliciti riferimenti
ai sintomi di conversione somatica – cioè dell’isteria –, che,
invece, facevano parte della descrizione della maggior parte dei
quadri clinici di shell shock, di shell war e di nevrosi
di guerra. Sappiamo bene che con l’eclissi della psicoanalisi negli
Stati Uniti dal lessico dell’APA fu deciso di depennare
completamente i termini isteria, isterico, isteriforme, eccetera, come
anche i termini nevrosi, psiconevrosi, eccetera, per cui la
completezza dei criteri per la diagnosi di PTSD ne pagò le
conseguenze.
Nelle
tre successive edizioni del DSM (DSM-III-Rivised, 1987; DSM-IV, 1994;
DSM-IV-Rivised, 2000) i criteri per la diagnosi di PTSD rimasero
sostanzialmente invariati.
Originariamente
il PTSD venne concettualizzato avendo in mente eventi come la guerra,
la tortura, lo stupro, l’Olocausto nazista, i bombardamenti atomici
di Hiroshima e Nagasaki, i disastri naturali (terremoti, uragani ed
eruzioni vulcaniche) e disastri provocati dall’uomo (esplosioni di
fabbriche, schianti di aeroplani, incidenti stradali). Per essere
considerati “traumatici” gli eventi dovevano essere chiaramente
differenti da altri fatti stressanti anche molto dolorosi, che
costituivano “normali” vicissitudini della vita, come i divorzi, i
fallimenti, le malattie gravi, i tracolli finanziari, eccetera.
Secondo il DSM i disturbi secondari a eventi stressanti
“ordinari”, che la maggior parte delle persone era in grado di
affrontare, si sarebbero dovuti definire “Disturbi
dell’adattamento” piuttosto che PTSD (Friedman, 2013).
Nel
DSM-5, pubblicato nel maggio 2013, è stata apportata una
significativa revisione dei criteri diagnostici del PTSD, che ha
importanti implicazioni concettuali e cliniche. Il primo punto
consiste nell’aggiunta ai preesistenti criteri diagnostici la
presenza di rilevanti aspetti anedonici e disforici, che si
manifestano con stati cognitivi e affettivi negativi e con sintomi
comportamentali dirompenti (ad esempio, rabbia, impulsività,
avventatezza e auto-lesionismo). Il secondo punto, collegato al primo,
consiste nel non considerare più il PTSD come un disturbo d’ansia
basato sulla paura. Nel DSM-5 il PTSD, infatti, viene classificato in
una nuova categoria diagnostica, denominata “Disturbi correlati a
traumi e agenti stressanti”, nei quali l’esordio è preceduto
dall’esposizione a un evento ambientale traumatico o, comunque,
avverso.
Negli
ultimi decenni i disturbi psichici chiaramente legati a eventi
traumatici esterni hanno assunto una rilevanza sempre maggiore anche a
causa del verificarsi, con puntuale terribile periodicità, di
catastrofi naturali, del ripresentarsi di sanguinosi conflitti bellici
in molte parti del mondo e dell’evidente intensificarsi di violenze
familiari e sociali. Per questo motivo il PTSD è stato oggetto di un
grandissimo numero di studi e indagini sperimentali riguardanti le sue
basi neurobiologiche, gli strumenti diagnostici, i disturbi
psichiatrici concomitanti e i trattamenti sia psicologici che
farmacologici. Il PTSD è diventato una categoria diagnostica
“complessa” – potremmo anche dire una categoria “ombrello”
– strettamente correlata alle veloci trasformazioni sociali e
politiche del nostro tempo.
Il
PTSD è considerato “erede” delle diverse diagnosi psichiatriche
che, a partire da quasi cento anni fa, sono state proposte per
indicare il multiforme gruppo di disturbi correlati ai traumi bellici
(shell shock, nevrosi traumatica, war shock, nevrosi di
guerra, eccetera). Negli ultimi decenni fino a tutt’oggi questa
categoria diagnostica è servita ad indicare i disturbi causati dagli
eventi drammaticamente traumatici, cui possiamo andare incontro nella
quotidiana battaglia della vita.
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