Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, W.
Bohleber, M. El Husseini, R. El Khayat, Y. Gampel R. Kaës, J.
Kristeva, G. Leo, A. Loncan, P. Matvejević, M.-R. Moro, S.
Resnik, S. Varvin
Writings by: H. Catz, A. Ferruta,
M. Francesconi, P. R. Goisis, R. D. Hinshelwood, G.
Leo, N. McWilliams,
G. Riefolo, M. Roth, C.
Schinaia, D. Scotto Di Fasano, R. D. Stolorow
Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, W.
Bohleber, M. El Husseini, R. El Khayat, Y. Gampel R. Kaës, J.
Kristeva, G. Leo, A. Loncan, P. Matvejević, M.-R. Moro
Edited
by/a cura di: Giuseppe Leo
Writings by/scritti di:
S.
Araùjo Cabral,L.
Curone,M. Francesconi,L.
Frattini, S.
Impagliazzo,
D. Centenaro Levandowski, G. Magnani,M. Manetti, C. Marangio,G. A. Marra e Rosa, M. Martelli,
M. R. Moro,R. K. Papadopoulos,A. Pellicciari, G. Rigon,D.
Scotto di Fasano,
E. Zini, A. Zunino
Edited
by/a cura di: Ambra Cusin & Giuseppe Leo
Prefaced by/prefazione
di:
Anna Sabatini Scalmati
Writings by/scritti di:
H. Abramovitch A. Cusin M. Dwairy
A. Lotem M.
Mansur M. P. Salatiello Afterword
by/ Postfazione
di:
Ch. U. Schminck-Gustavus
Notes by/ Note di: Nader Akkad
Edited
by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di:
R.D.Hinshelwood
Writings by/scritti di: J. Altounian
W. Bohleber J. Deutsch
H. Halberstadt-Freud Y. Gampel
N. Janigro R.K. Papadopoulos
M. Ritter S. Varvin H.-J. Wirth
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
La
filmografia sull’Olocausto è complessa e tormentata. In un certo
senso segue il percorso dei testimoni. All’inizio i film, come i
testimoni, sono pochissimi. Il primo, sconosciuto ai più, è un
documentario-verità, del 1945, sulla liberazione dei campi di
sterminio in presa diretta, curato da Alfred Hitchcock, inviato di
guerra per conto delle autorità militari britanniche. L’orrore
viene mostrato man mano che si svela agli occhi degli stessi soldati
alleati che entravano, sconvolti, nei lager nazisti.
Famoso
è invece il documentario del registafranceseAlain
ResnaisNotte e nebbia, del 1956 che mostra materiali d'archivio
incentrati sulle atrocità compiute dai nazisti, sulla vita nei lager
e sugli internati. Alterna immagini in bianco e nero con alcune a
colori: queste ultime riprendono un lager, con la macchina da presa
che si avvicina progressivamente all'edificio per poi fermarsi.
Poi
nel 1960 con Kapò Gillo Pontecorvo fa il primo film vero e proprio
dove racconta l'orrore dei lager nazista attraverso gli occhi di
una giovane ebrea deportata che per sopravvivere si trasforma in
carceriera. Kapò ebbe un grandissimo successo, anche se non
mancarono critici che attaccarono il regista per l'eccessivo
sentimentalismo e la spettacolarizzazione della tragedia.
Questa
velocissima panoramica sulle prime testimonianze attraverso la
cinematografia dell’Olocausto non può non nominare il monumentale
documentario realizzato da Claude Lanzmann sullo sterminio degli ebrei
da parte dei nazisti. (È uscito nel 1985, ma è stato iniziato ben 11
anni prima, nel 1974). È un film composto essenzialmente di
interviste a tre gruppi di personaggi: sopravvissuti (ebrei) dei campi
di sterminio, testimoni (polacchi) e ex nazisti (tedeschi). Quello a
cui il regista aspira non è descrivere il passato con maggiore
esattezza, ma resuscitarlo nel presente. La scelta di un simile scopo
comporta quella di mezzi adeguati. In primo luogo Lanzmann sceglie fra
i testimoni coloro che non si limiteranno a riferire i fatti, ma che
li rivivranno sotto i nostri occhi. Per ottenere questo risultato li
conduce nei luoghi che sono stati teatro del crimine, e qui filma le
loro reazioni. Crea quindi un film in cui i personaggi del passato
ritrovano davanti alla cinepresa l'intensità della loro antica
esperienza. La distanza tra passato e presente è abolita. Non filma
il passato, cosa impossibile, ma il modo in cui oggi lo si ricorda.
Al
pubblico italiano sono sfuggiti i film più belli, forse, quelli
girati, quasi clandestinamente, nell’Est Europeo, ancora schiacciato
dalla dittatura dell’impero Sovietico. Desidero qui presentare un
corto, Ambulans, girato nel 1961 dal regista polacco Janusz Morgestern,
che anticipa di vent’anni l’idea centrale di Lanzmann. Janusz Kuba
Morgestern nasce nel 1922 a Mikulińce,
in Polonia (adesso Ucraina), da una famiglia ebrea. Nel mio cercare
affannosamente sue notizie sulla rete sono riuscita a trovare le
memorie di alcuni sopravvissuti di questa cittadina, uno dei
numerosissimi shtetl cancellati dalla faccia della terra. I tedeschi
entrano nella Polonia dell’Est il 22 giugno del 1941 quando
Morgestern ha 18 anni. Sopravvive miracolosamente tra mille traversie
sia ai pogrom ucraini che alle deportazioni e uccisioni di massa
naziste, mentre tutta la sua numerosa famiglia viene sterminata. Non
racconterà mai nulla di quanto accaduto e di come sia riuscito a
salvarsi. L’unico film dedicato a quel periodo è proprio questo
corto.
Il
corto, senza parole, si apre con una strada ripresa dalla parte
posteriore di un’ambulanza: a tratti si vede il fumo nero dello
scappamento. In un luogo desolato circondato da filo spinato dei
bambini e il loro maestro sono in attesa in un piazzale. I bambini
giocano, l’atmosfera è irreale. Arriva l’ambulanza. Alcuni
soldati tedeschi si mettono ad armeggiare con benzina e tubo di
scappamento: montano un tubo che dalla marmitta porta il fumo
direttamente dentro la parte posteriore dell’ambulanza. Nel
frattempo un bambino fa volare una girandola oltre il filo spinato e
il cane dei soldati, che fino a quel momento aveva abbaiato contro i
bambini, si mette a giocare e corre a prenderlo. Quando torna, i
bambini e il maestro vengono fatti salire sull’ambulanza, e il cane
fa per salire con loro per restituire il giocattolo al bambino. I
tedeschi lo picchiano e lo fanno scendere. Le porte vengono chiuse e
l’ambulanza si allontana. La figura dell’insegnante rimanda a
quella del pedagogo Janusz Korczak, che decise di seguire i suoi
piccoli fino a Treblinka perdendo la vita insieme a loro. Lo sguardo
consapevole e impotente dell’adulto fa da contrasto con gli sguardi
distanti ma impegnati nell’azione degli ufficiali nazisti. Nessuno
dei due sguardi si sofferma sui bambini, che sembrano vivere in un
mondo a parte. Giocano, perdono una scarpina, si fanno fare le trecce,
si mettono in fila. Tutto intorno il filo spinato e la strada
sterrata. Il corto riporta fedelmente come venivano uccisi
all’inizio in Polonia gli ebrei, prima della invenzione delle camere
a gas stabili. Sembra descrivere soprattutto Belzec, il famigerato
campo di sterminio, da cui non sopravvisse nessuno, e che utilizzava
appunto le camere a gas mobili, come quella riprodotta nel corto, e
dove vennero deportati gli ebrei del ghetto di Leopoli e di Tarnopol.
Il film ha un’atmosfera che sarà poi ripresa da Lanzmann ed
evidenzia il carattere metaforico e simbolico della narrazione dello
sterminio. Come ripetuto più volte dai sopravvissuti, il Lager non può
essere descritto. “Solo coloro che furono internati possono sapere
cosa è stato. Nessun altro”[1]
Questo aspetto ha a che fare con la difficoltà a trasmettere e a
rappresentare il tempo, elemento centrale della vita dei deportati,
che li separava per poche ore o per pochi mesi dalla morte. Come
ripetuto più volte dai testimoni, “Io posso raccontare degli
episodi, degli aneddoti. Ma questi non rendono cosa fosse la
quotidianità del Lager, l’attesa costante di “passare per il
camino”, il senso di assurdità complessivo.” Come è quella
terribile risposta che un ufficiale SS dà a Primo Levi (Se questo è
un uomo) quando dopo averlo preso a calci Primo gli chiede “Perché?”
e l’ufficiale risponde: "Hier ist kei warum", qui
non c'è nessun perché.”
Allora
la chiave di lettura di Ambulans, che appunto è muto, a parte
all’inizio il discorso di Hitler nel Reichstagriguardo lo sterminio degli ebrei, risiede nel rendere questa
assenza di significato, questa mancanza di spiegazioni, questi due
sguardi, quello impotente del maestro e quello dell’SS che reifica i
bambini. La tragedia si compie nel silenzio e nella mancanza di un
ambiente circostante. Polvere e cemento. E gas di scarico. Questa è
l’unica possibile rappresentazione della tragedia della Shoà,
l’unica testimonianza che possiamo dare al posto dei testimoni che
non ci sono più. Il tempo che non può essere rappresentato si
trasforma in un’azione di morte che non viene nominata. Il film
finisce con un canto infantile polacco “Anni preziosi della mia
infanzia”. Ecco, la tragedia si è compiuta, nel silenzio di tutti,
vittime e carnefici. Gli anni preziosi dell’infanzia distrutti per
sempre, senza un perché, un significato. L’eliminazione del nemico
del discorso di Hitler è stata compiuta.
[1]
Martin Walser (1964) commento al processo di Francoforte