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L’amicizia all’interno di una coppia di preadolescenti non è stata molto esplorata dalla letteratura psicoanalitica, ed anche nel cinema il soggetto è stato sempre meno frequentato rispetto all’amicizia tra adolescenti. Gli adolescenti seducono di più, tanto gli analisti ed i psicoterapeuti quanto gli spettatori al cinema.  Esplorare però questa fascia di età nel cinema consente di cogliere due tipologie essenziali di storie in un’ottica che può essere sincronica o diacronica: nel primo caso la storia di amicizia tra ragazzi si sviluppa in un arco temporale ristretto che abbraccia la pre-adolescenza fino all’adolescenza (o in alcuni casi fino alla prima età adulta), mentre nel secondo caso la storia di amicizia ha un respiro ben più ampio fino a raggiungere le tappe più avanzate della vita adulta e divenire una “storia di vita”. A queste due differenti tipologie sembrano appartenere, rispettivamente, due film recentemente usciti al cinema in Italia: “Close” (2022) di Lukas Dhont e “Le otto montagne” (2022) di Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. In “Close” è molto più accurata la rappresentazione dell’intreccio psicologico tra i due ragazzi, Léo e Rémy, che si trovano a condividere insieme un passaggio cruciale attorno ai 13 anni, quello dalla scuola primaria al grado immediatamente superiore di istruzione, in cui si affaccia la curiosità per le abitudini sessuali (degli adulti e dei compagni) non più vissuta in modo privato, ma amplificata nella dimensione del gruppo dei pari, che a volte può diventare crudelmente devastante per chi in esso non riesce ad integrarsi. È quest’ultimo il caso di Rémy, che rimane invischiato in un desiderio di rapporto esclusivo a due con Léo (con cui si presume abbia vissuto la scuola d’infanzia) e che nel passaggio al grado superiore non trova nella dimensione gruppale alcuna occasione di condivisione, rifugiandosi nostalgicamente  nell’attaccamento sicuro che ha strutturato solo con Léo. Questi, invece, comprende sin dall’inizio di doversi smarcare dall’etichettamento da parte del gruppo di essere il partner amoroso di Rémi, e trova nello sport (l’hockey su ghiaccio) e in altri ambiti scolastici l’occasione di adattarsi a vari tipi di gruppalità, anche a costo di respingere le troppo richiedenti (ed anacronistiche perché ‘infantili’) attenzioni di Rémy. I due amici, come succede spesso, hanno non tanto due “marce” (velocità) diverse nell’affrontare i cambiamenti evolutivi, ma due qualità differenti di capacità relazionali e di sintonizzazione emotiva, Rémy ancora centrato sulla coppia e Léo già proiettato su contesti più ampi. È in questa discrepanza tra i due che si annida ciò che avvelenerà il loro rapporto: il sentimento di essere rifiutato, di essere uno scarto, di essere condannato alla solitudine da parte di Rémy. In questa discrepanza e mancanza di sintonia coll’amico (fonte di attaccamento sicuro) può annidarsi per Rémy, in mancanza di un dialogo con adulti competenti (non solo i genitori, ma anche un insegnante o uno psicologo), quel nucleo di affetti selvaggi e disregolati che lo condurranno al suicidio. Il prima ed il dopo di tale tragico (e traumatico) episodio sembrano segnare la nemesi di condotte ed atteggiamenti che i protagonisti, non solo Léo ma anche i genitori di Rémy, portavano con sé sin dall’inizio del film. I genitori di Rémy, ed in particolare la madre, dopo il trauma della perdita cercano soprattutto l’appagamento (comprensibile) della propria sete di sapere se il suicidio del figlio sia stato sollecitato da un litigio tra i due ragazzi (cosa che effettivamente c’è stata) anziché comprendere le più ampie difficoltà di adattamento che Rémy aveva incontrato nella scuola, come ad es. testimoniato da certi indizi che essi come genitori avrebbero dovuto captare, anche confrontandosi con gli insegnanti. Léo, dal canto suo, sente il peso della colpa e cerca la madre di Rémy per auto-accusarsi impietosamente, ma per fortuna trova nella propria famiglia, e soprattutto nel fratello maggiore una fonte di conforto, così come nello sport e nel lavoro nei campi dei ‘tutori’ di resilienza (qui si vede come la cultura contadina famigliare finisca per essere una fonte di resilienza). La cultura contadina che sin da piccoli educa all’essere produttivi e responsabili all’interno di una famiglia solidale, in cui il compenso è collegato ad un lavoro gruppale e non individuale, ha sicuramente un ruolo per Léo nel mitigare ed attutire il suo sentirsi colpevole rispetto alla morte dell’amico. Vedremo che la dicotomia tra cultura familiare contadina e borghese avrà un ruolo nello sviluppo dell’amicizia anche tra i due protagonisti del film “Le otto montagne”.

In questo secondo film osserviamo, in una scansione questa volta diacronica, la storia di un’amicizia pluriennale, dalla preadolescenza all’età matura, di Pietro e Bruno. Il primo proveniente da una famiglia medio borghese (padre ingegnere in una grande fabbrica di Torino, madre prevalentemente dedita alla famiglia) che soggiorna per le vacanze nelle valli alpine prossime al Cervino; il secondo, Bruno, montanaro e sin da piccolo impegnato nel lavoro negli alpeggi, che però non ha una vera famiglia. Sappiamo che ha un padre emigrato all’estero (Austria o Svizzera?) dove fa il muratore, e non sappiamo nulla della madre (se lo ha abbandonato o se sia deceduta). Bruno è accolto nella famiglia degli zii che lo considerano un’importante risorsa lavorativa: un vuoto affettivo caratterizza questa sua collocazione simil-familiare. Il rapporto che Bruno sviluppa con Pietro ha quindi tutte le caratteristiche di una relazione “fraterna” e famigliare, piena di gioco, di rivalità, di gelosie e di esperienze affettive condivise. In adolescenza le due vite però si divaricano: Pietro alle prese con la sua ribellione personale contro il padre, l’ingegnere che durante le vacanze ama tanto la montagna da trasmettere al figlio il gusto per le scalate, e Bruno che desiderebbe seguire le orme del padre all’estero per abbandonare una vita di stenti e priva di contatti umani (nei mesi in cui non c’è Pietro). Ciò che scompagina questa divaricazione e che crea un sotterraneo legame tra i due amici, nonostante le scelte di vita che li allontanano l’uno dall’altro da giovani adulti, è il legame intenso che si era già creato tra Bruno ed il padre di Pietro sin dalla loro preadolescenza. Rapporto che continuerà anche quando Bruno e Pietro per dieci anni non si vedranno, quando Pietro avrà rotto col padre, il quale morirà dopo un malore senza essersi riconciliato col figlio. Quello che finisce per ri-unire Bruno e Pietro sarà una ‘eredità emotiva’, come recita il titolo dell’ultimo libro di Galit Atlas (2022), certamente intesa in un senso più lato rispetto a quello del libro dell’analista newyorchese. Certamente non sembra una storia traumatica quella della famiglia di Pietro, né c’è alcun cenno ad una trasmissione di traumi provenienti da generazioni antecedenti, e né il contesto socio-politico della Torino in cui Pietro viveva da bambino (presumibilmente gli anni 70-80 del terrorismo brigatista) viene in alcun modo riesumato come traumatico. È possibile tuttavia che i silenzi che caratterizzavano la quotidianità urbana del padre di Pietro, ed i silenzi che egli cercava nelle scalate in montagne, riflettessero una condizione di esposizione traumatica alle lotte sociali violente che in quegli anni infiammavano le fabbriche. <<Come molte altre famiglie, la nostra famiglia colludeva, condividendo il tacito convincimento che il silenzio fosse il modo migliore per cancellare quello che era spiacevole>> (Atlas, 2022, pag. 13 dell’edizione Cortina). In questo film, contrariamente ad esempio a IL Colibrì (2022) di Francesca Archibugi, il luogo delle vacanze non è il luogo del trauma originario, della tragedia che continua a infestare coi suoi fantasmi i protagonisti: in Le Otto Montagne, al contrario, il luogo delle vacanze finisce per il Pietro divenuto adulto per diventare luogo di svelamento di quell’eredità emotiva che il padre coi suoi silenzi non è riuscito del tutto a trasmettergli, e che col suo “attivismo onnipotente” (a volte non rispettoso dei limiti fisiologici del corpo di Pietro bambino) ha finito per tradirne il significato. Salvo trovare in Bruno l’intermediario di questa eredità destinata a raggiungere Pietro.

<<Quasi tutte le storie personali che racconto qui sono resoconti di traumi sepolti nel passato, su cui le persone hanno mantenuto il silenzio, eventi di vita non completamente svelati ma conosciuti, in modo criptico, da altri. All’origine della nostra incompiutezza ci sono storie mal raccontate, suoni spesso messi a tacere>> (Atlas, 2022, pp.21-22 dell’edizione Cortina). Anche il cinema, come la relazione diadica analista-paziente, può aiutarci a focalizzare quelle eredità emotive che provenienti dalle passate generazioni o dai contesti precedenti di vita giungono a noi coi loro silenzi carichi di emozioni indiscernibili. Naturalmente la terapia psicoanalitica può focalizzarsi in vari modi sul passato traumatico dell’analizzando: in una prospettiva classica, attraverso il gioco associativo e transfero-controtransferale, “sfidare” i silenzi e le macchie cieche mediante le interpretazioni. Tale ottica si basa sì sul “qui ed ora” della seduta ma con una visione più ampia, “diacronica”, che faccia da sfondo al processo terapeutico. Analogamente, il film Le Otto Montagne adotta una panoramica pluridecennale per farci comprendere la natura delle linee di forza che guidano Pietro a comprendere la propria storia personale, le proprie relazioni interpersonali e le eredità emotive ricevute.

Un’ottica alternativa che sempre più la psicoanalisi sta adottando, specie grazie ai contributi dell’infant research (mirabile è in tal senso l’opera di Daniel Stern) e delle neuroscienze (con la sempre più fine distinzione tra inconscio dinamico ed inconscio implicito pre-simbolico) è l’ottica del ‘momento di incontro’ e del ‘momento presente’ in cui la stessa micro-analisi della relazione nel qui ed ora tra analista ed analizzando apre preziose intuizioni condivise capaci di illuminare retrospettivamente e prospetticamente il processo psicoanalitico. Questo secondo approccio, che Stern sintetizza come “vedere il mondo in un granello di sabbia” (Stern, 2004, p.172), si potrebbe definire più “sincronico”, in quanto pur non trascurando ipotesi che abbraccino la più ampia storia del paziente, è più interessato alla dimensione affettiva ed “agita” (enactment) della relazione paziente-analista quale si esplica nella comunicazione non verbale nel momento presente (centrali sono i concetti di sintonizzazione affettiva, di rottura e riparazione, di corrispondenza e contingency, mutuati dall’’infant research’) (Leo, 2022). Analogamente, il film “Close”, dato il suo più “corto” raggio temporale, si focalizza più sugli agiti e sulla dimensione affettiva delle relazioni tra i personaggi piuttosto che su contenuti ideali e simbolici del contesto socio-culturale, con il trauma che non viene esplorato nelle sue dimensioni genetiche e transgenerazionali, ma nel suo irrompere violento e  ‘imprevedibile’ come forza che sconvolge il mondo attuale delle relazioni, colto sincronicamente, senza mostrarci la sua impronta sul futuro. Se, come scrive Papadopoulos (2017), “trauma” deriva dal greco ‘titrosko’, questa parola può avere una duplice accezione: da una parte la “lesione che viene lasciata sulla pelle come effetto di un foro” (Papadopoulos, 2017, pag.323), ma, in rapporto al verbo ‘teiro’ (strofinare) può indicare anche il cancellare. Quindi, <<le persone possono o subire una lesione (in termini psicologici) di vari gradi di severità come effetto dell'essere esposti ad eventi violenti (...), o, in alternativa, possono sperimentare (oltre allo stress) un senso di rinnovamento, di ringiovanimento e di rivitalizzazione quando esperienze potenti e potenzialmente lesive cancellano precedenti valori, abitudini e stili di vita ed introducono nuovi significati nelle loro vite>> (Papadopoulos, ibidem, pag.324). La resilienza, quindi, non va intesa solo in termini di fattori protettivi che riconosciamo a posteriori come evitanti uno sviluppo stabilmente patologico, ma il trauma stesso può innescare un processo per cui <<le persone, a seguito di un evento doloroso ('traumatico'), sono scosse e gradualmente diventano consapevoli che ora guardano se stesse ed il mondo in modo differente, ad esempio apprezzando la vita, l'amicizia e le relazioni calorose più della ricerca di esperienze banali ed insignificanti>> (Papadopoulos, 2017, ibidem, p.325).

Bibliografia

Atlas, G. (2022), L’eredità emotiva, Cortina, Milano.

Leo, G. (a cura di) (2022), Infant research e psicoanalisi, Edizioni Frenis Zero, Lecce.

Leo, G. & Riefolo, G. (a cura di) (2022), Enactment in psicoanalisi, Edizioni Frenis Zero, Lecce.

Papadopoulos, R. K. (2017), “Rifugiati e trauma psicologico”, in Leo G. (a cura di), Psicoanalisi, luoghi della resilienza ed immigrazione, Edizioni Frenis Zero, Lecce.

Stern, D. N. (2004), Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana, Cortina, Milano 2005.

Mahsa

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