Renos K Papadopoulos, psichiatra e docente all’Università di Essex, è senza dubbio un’autorità mondiale sulle teorizzazioni e le applicazioni cliniche dei più avanzati progressi nell’assistenza ai rifugiati. In questo libro, uscito in inglese nel 2021 (Papadopoulos, 2021), egli ha ulteriormente dato una sistematizzazione ed ampliamento ulteriore al suo pensiero.

Il primo capitolo del libro è propedeutico e pertiene al “ciclo epistemologico” ed agli errori epistemologici che possono inficiare la nostra comprensione delle avversità e dei loro effetti. Quando siamo sottoposti a delle pressioni da parte di una serie di fattori (emotivi, legati alla nostra ‘mission’ professionale, ideologici, ecc.) sul nostro approccio ai rifugiati ed in generale a coloro che hanno subito una qualche forma di avversità, le nostre percezioni iniziali risultano affrettate (soggette ad una sorta di “panico epistemologico”) e poco inclini a cogliere tutte le sfumature e complessità salienti dall’esperienza della persona che abbiamo di fronte, compromettendo la vigilanza e l’”agilità epistemica” dell’osservatore. Papadopoulos riassume in sette tipologie tali errori, di seguito elencati:

a)     a) Confusione tra gli eventi e l’esperienza degli eventi: a questo livello si collocano tutti gli equivoci ingenerati dalla tanto abusata espressione “evento traumatico”. In realtà per l’autore, di fronte a chi ha subito un’avversità, bisognerebbe distinguere queste cinque componenti: I) l’evento in se stesso; II) le reazioni dell’individuo ad esso; III) l’impatto ; IV) la risposta e V) la comunicazione di tutto ciò agli altri. Per Papadopoulos “trauma” <<non è l’attributo di un evento, bensì l’attributo dei modi in cui l’evento è stato percepito e ha influenzato le persone all’interno di un contesto costituito dalle specificità delle circostanze, del tempo, del luogo della situazione e così via. Per dirla ancora in un altro modo, lo stesso evento può avere un impatto traumatico su alcuni ed essere fonte di ispirazione per altri>> (pag. 45).

b)    b) Confusione fre i vari discorsi sovrapposti (legale, etico, sociale, politico, psicologico, spirituale, storico, relativo ai diritti umani, economico...) e l’inappropriata predominanza di alcuni discorsi su altri.

c)     c) Patologizzare chi vogliamo aiutare.

d)    d) Relazione causale fra tre dimensioni: (I) la gravità dell’avversità, (II) l’entità del danno inflitto, (III) la quantità di aiuto necessario. In questo caso l’errore epistemologico può consistere nell’attribuire automaticamente una proporzionalità necessaria tra questi tre elementi, per cui tanto più grave è stata l’avversità, tanto maggiore DEVE essere l’entità del danno e, di conseguenza, tante più risorse DEVONO essere profuse.

e)    e) Patologizzare i sopravvissuti per condannare i responsabili: questo aspetto a mio avviso sembrerebbe un corollario di b) in cui si crea una confusione tra il discorso legale e quello psicologico.

f)     f) Confusione tra l’essere ‘vittima delle circostanze’ e lo sviluppo di un’’identità di vittima’. I vantaggi secondari, che l’interessato può cogliere in modo più o meno consapevole nella propria condizione di ‘vittima delle circostanze’, possono trasformarne l’identità tanto da assumere quella di vittima.

g)   g) Ricorrere a qualcosa di familiare ed eccessivamente semplificato per spiegare un fenomeno complesso e doloroso.

La sfida che un discorso veramente complesso sulle avversità umane dovrebbe cogliere è quella di integrare le sette prospettive fondamentali: 1) psicologica; 2) sociologica; 3) giuridica; 4) medica; 5) etica; 6) filosofica, e 7) retorica.

Il secondo capitolo si focalizza specificamente sulla dislocazione volontaria, espressione che l’autore perferisce a quelle tradizionali, ad esempio,  di “migrazione forzata”, di “sfollamento dovuto a danni provocati dallo sviluppo” o altre per una precisa decisione epistemologica presa dall’autore: quella di studiare la dislocazione involontaria da un punto di vista squisitamente fenomenologico, quindi come un’entità a sé stante, che ha caratteristiche proprie indipendentemente dalle cause che l’hanno prodotta o dalle sue conseguenze. Che sia dovuta a guerre o a persecuzioni politiche o a disastri naturali e/o a cambiamenti climatici, l’autore intende inaugurare un nuovo campo scientifico avente come oggetto il fenomeno studiato in quanto tale, beninteso senza però trascurare le cause che possono esserne a monte o le sue conseguenze. Questo nuovo campo di indagine intende, poi, privilegiare l’esperienza soggettiva degli eventi avversi rispetto a questi ultimi presi di per sé. Tre sono gli aspetti essenziali della definizione della dislocazione involontaria:

1)    Si tratta di individui che, a seguito di vari tipi di avversità, sono stati costretti a percepire i propri spazi intimi di vita come non più vivibili e, di conseguenza,

2)    Hanno dovuto allontanarsi da quegli spazi alla ricerca di altri più vivibili. Inoltre,

3)    Se questi individui avessero potuto scegliere, non si sarebbero allontanati dai propri spazi di vita originari.

<<(...) separando la natura del fenomeno in sé dai fattori concorrenti e dalle sue conseguenze, ci si può concentrare maggiormente sullo sviluppo di una comprensione più accurata degli elementi e delle caratteristiche fondamentali dell’insieme dei fenomeni, per esempio il significato attribuito al concetto, all’immagine e all’esperienza della ‘casa’, all’avere una casa, al perderla, al perderla senza volerlo e così via. Una volta compreso il significato di tutti questi fenomeni nella loro unicità, è più facile cogliere il ruolo delle specificità del contesto di ogni caso di dislocazione involontaria, quindi le cause, la generale situazione politica e storica, il modo in cui la dislocazione viene presentata e rappresentata nella nostra società ecc.>> (pagg. 61-62). Inoltre, ‘dislocazione’ viene preferita a ‘migrazione’ proprio per sottolineare l’allontanamento dalla ‘casa’, con tutte le connotazioni di questo termine che verranno illustrate nei capitoli successivi.

Passando ora alla Sezione centrale del libro, troviamo cinque capitoli che affrontano altrettanti temi principali implicati dalla dislocazione involontaria: I) la casa; II) l’identità; III) il disorientamento nostalgico;  IV) la vittima; e V) il trauma. Questa sezione per i temi trattati è quella più familiare al lettore  in quanto amplia quei temi che originariamente l’autore ha sviluppato in altre opere, in particolare nel libro tradotto in italiano come L’assistenza terapeutica ai profughi (2002, trad. it. 2006).

Non è possibile in questa breve recensione approfondire ognuno dei cinque capitoli di cui si compone questa sezione: ognuno, data la ricchezza e l’originalità di trattazione necessiterebbe una sintesi che per quanto stringata non riuscirebbe comunque a rendere a sufficienza la complessità dei temi trattati. Passerò quindi all’ultima sezione, quella sul “Relazionarsi con la dislocazione involontaria”, quella che contiene le implicazioni terapeutiche del libro.

Coerentemente con quanto in precedenza discusso, l’autore sostiene che <<la locuzione ‘trauma dei profughi’ suggerisce lo stesso legame di causalità semplice espresso dal problematico modello Stimolo-Risposta (S-R) che abbiamo esaminato. Si basa infatti su due presupposti: a) che esista un insieme distinto di condizioni avverse alle quali vengono esposti tutti i profughi e b) che tali avversità li portino a sperimentare una tipica forma di ‘trauma’>>(pag. 307). Anziché patologizzare la sofferenza umana in categorie diagnostiche pre-costituite (ad es., PTSD) vanno <<riconosciuti [i cinque elementi costitutivi delle avversità, mia nota] come veri e propri stadi consecutivi del processo che dalla dislocazione porta alla rilocazione: non sono punti di riferimento cronologico astratti, ma fasi ricche di nuove esperienze che possono trasformare in maniera sostanziale un individuo>>(pag.307). A questo proposito spesso sono i servizi  ––––– che devono valutare la gravità del ‘trauma’, al fine di motivare e supportare di evidenze ‘scientifiche’ la richiesta del rifugiato di riconoscimento giuridico del suo status da parte delle commissioni del Paese di accoglienza ––––– ad incorrere in tali cortocircuiti epistemologici. Enfatizzare il trauma come rottura della continuità del sé invariabilmente in tutti i rifugiati che presentano tale richiesta conduce alle stesse distorsioni epistemologiche in psichiatria dove l’esigenza di prescrivere un certo farmaco senza incorrere nelle conseguenze (anche legali) dell’off-label’ finisce ‘invariabilmente’ per condizionare la diagnosi. È il pragmatismo a tutti i costi (spesso che si ammanta della formula di rito ‘nell’interesse del paziente’) che stronca l’onestà scientifica del clinico. Per i rifugiati il rischio è di sottovalutare o ignorare quei casi – che certo non rappresentano la totalità – in cui <<queste persone si accorgono di un’altra realtà evidente: malgrado gli stravolgimenti e le trasformazioni, in un certo senso rimangono uguali a se stesse. (...) Percepire la continuità del proprio essere malgrado una serie di drastici cambiamenti consecutivi, avvertire e distinguere ciò che rimane stabile in se stessi nonostante le profonde alterazioni, può favorire riflessioni importantissime, che a loro volta possono dare luogo a sviluppi altrettanto profondi e positivi>> (pag. 313).

Nella differenziazione sacrosanta tra una reazione immediata ad un evento avverso da una parte, e un disturbo psicopatologico persistente dall’altro non dobbiamo prendere in considerazione solo il fattore temporale (Papadopoulos opportunamente ne sottolinea l’importanza come riportato dal DSM-5), ma è necessario occuparsi della questione del significato e dei processi di attribuzione di esso. Questi dipendono, secondo l’autore, da una serie di processi interattivi tra a) le realtà avverse esterne e b) i fattori che concorrono a determinarne la percezione e l’elaborazione, nel contesto dei c) più ampi discorsi della società in merito. Tra i fattori concomitanti Papadopoulos ne elenca una serie: 1) personali, 2) relazionali (famiglia, fattori di comunità/sociali, 3) genere, razza, età, etnia, classe, disabilità, povertà, 4) posizioni di potere, 5) prevedibilità, ipotesi di durata ed effetti prolungati, 6) sistemi fissi di significato, 7) condizioni, circostanze e relazioni in essere, 8) prospettive e speranze per il futuro, 9) vari fattori socio-politici, culturali, legali.

La sezione si conclude con l’illustrazione della Griglia delle Avversità, strumento operativo incomparabilmente utile. Ma, tornando al tema del significato, mi sembra che l’epilogo contenga al contempo la sfida più coraggiosa di questo libro e il suo lascito più prezioso: esplorare non un solo livello di significati, ma almeno due, in quanto oltre al linguaggio ‘meccanicistico’ della riparazione (quello necessario per il rifugiato al fine di assolvere i compiti di adattamento e di sopravvivenza nel nuovo contesto di vita, insomma le risorse linguistiche connesse alle strategie di coping rispetto alle avversità) è necessario prendere in considerazione il linguaggio ‘altro’ o ‘poetico’ secondo l’autore. <<L’’altro linguaggio’ riguarda ciò che le persone faticano ad articolare quando il nucleo del loro essere viene sconvolto da gravi forme di avversità. Tali avversità, che distruggono per sempre il precedente senso di sé delle persone colpite (per quanto realizzate fossero), le pongono di fronte a due esigenze distinte: riparare il danno e sviluppare una nuova visione della propria vita e della vita in generale. (...) Se il primo linguaggio (quello della riparazione) non è inesatto ed è immensamente utile, resta comunque insufficiente a cogliere la totalità dei fenomeni della dislocazione involontaria. (...) Lo stesso però si può dire dell’’altro linguaggio’ che, colmo di nostalgia, rischia di rimanere incompreso. Dunque l’eterno enigma del linguaggio delle persone dislocate nasce dal dover legare insieme due discorsi che non soltanto sono incompatibili, ma che ignorano l’uno l’esistenza dell’altro>> (pag.354). Recuperare l’’altro’ linguaggio, l’altra voce dei rifugiati permette di ottenere una “complessità terapeutica sinergica”, ossia una dimensione della cura che è ben più ampia del semplice ‘fare psicoterapia’ ma che investe l’’essere terapeutici’ a prescindere dalla propria identità di ‘psi’. <<(...) l’approccio illustrato in queste pagine mette in primo piano il recupero della complessità tramite lo sviluppo di una complessità illuminante in contrapposizione a una complessità che confonde>> (pag.355).

Il pregio di questo libro è la polifonia dei registri che permette di parlare a tutti coloro che si occupano di profughi e rifugiati, non solo agli “psi”, senza però sacrificare (come avviene nella corrente manualistica) la profondità e organicità della trattazione di temi così complessi. Da un breve scambio personale con l’autore ho appreso che dopo l’edizione inglese, le prime due traduzioni sono state in italiano ed in ucraino. Un segno questo che ci fa comprendere quanto in un Paese devastato dalla guerra ed aggredito da una feroce invasione l’alto valore di questo libro possa essere indiscutibilmente apprezzato.

BIBLIOGRAFIA

Papadopoulos, R. K. (2002), Therapeutic Care for Refugees. No Place like Home, Karnak, London [traduzione italiana L’assistenza terapeutica ai profughi. Nessun luogo è come casa, Ma.Gi, Roma 2006].

Papadopoulos, R. K. (2012), Involuntary Dislocation. Home, Trauma, Resilience and Adversity-Activated Development, Routledge, New York [traduzione italiana Dislocazione involontaria. Trauma e resilienza nell’esperienza di sradicamento, Bollati Boringhieri, Torino 2022].

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