Il libro collettivo curato da Patrizia Guarnieri si innesta in quel filone bibliografico della storia delle istituzioni psichiatriche territoriali che ancora, a 43 anni dalla tanto celebrata e al contempo criticata Legge 180, trova ancora troppo pochi spazi nell'editoria italiana. La pregevolezza del libro sta anche nell' "arrischiarsi" in questa "terra incognita" della storia di "servizi senza storia" (perchè carenti, tra le mille cose, anche di archivi in cui conservare i documenti): come scrive la curatrice nella Introduzione <<Nell'indagine storica, il fatto che la psichiatria abbia reso prioritario il territorio dovrebbe suggerire maggiore attenzione, di quella finora prestata, ai luoghi in cui essa ha voluto cambiare radicalmente la traiettoria, investigando proprio per aree territoriali su quando e come ci siano state delle virate. Non ci è di molto aiuto la situazione documentaria: tante testimonianze si ripetono senza adeguati riscontri, osserva giustamente John Foot con lo sguardo di chi viene da fuori l'Italia; la tipologia di fonti della psichiatria radicale è di difficilissima reperibilità e conservazione, essendo una documentazione non tradizionale e in molta parte letteratura grigia; con l'enorme investimento di risorse incentrato sulle cartelle cliniche degli ex ospedali psichiatrici, ex manicomi, rimangono in ombra altre tipologie di fonti archivistiche, nonché i loro rispettivi enti produttori; e la storia della salute mentale rischia di rimanere sempre incardinata a un esclusivo paradigma interpretativo>> (pag.10). 

Ovviamente l'interesse per il libro esula  dalla specifica area geografica che è il Nordest d'Italia, in quanto la levatura scientifica dei suoi autori è tale che l'ampiezza del loro sguardo e dei loro orizzonti conferisce un respiro nazionale alle loro ricerche che non ricadono minimamente in quell'editoria minore di stampo localistico che imperversa un po' in tutta Italia. Anzi, qualora l'editore avesse  tolto il termine "Nordest Italia" dal sottotitolo credo che nessuno dei lettori se ne sarebbe meravigliato. Come diverso ed eterogeneo è il background professionale dei diversi autori parimenti variegato è  l'assortimento del taglio con cui i vari testi hanno indagato i differenti contesti terapeutici di cui il libro si occupa: si va dal taglio più "biografico" (incentrato su "personaggi" come Basaglia nel contributo di Foot, come Ferlini nel caso di Guarnieri, ancora Ferlini nei suoi rapporti con Barison e Benedetti in quello di Conci, o come Slavich nel capitolo di Peloso), ad un altro  incentrato sulle figure femminili della psichiatria del Novecento (il saggio di Giovanna Vicarelli) fino al complicato incontro (se non proprio irriducibile scontro) tra formazione universitaria e evoluzione dei servizi psichiatrici (capitolo di Migone). 

Proprio dalle questioni sollevate da Paolo Migone vorrei cominciare la disamina di un filone che ho apprezzato essere stato ben sviluppato dal libro. Se il mondo accademico alla fine degli anni 70 si mostrò a dir poco scettico (spesso in malafede) rispetto ai rivolgimenti in corso dell'assistenza psichiatrica, ciò non vuol dire che esso si sia messo al passo coi tempi negli ultimi quarant'anni. All'indomani della lacerazione che in Italia si generava tra posizioni di potere nel mondo accademico-ospedaliero, da una parte, e posizioni di chi stava creando i nuovi servizi, dall'altra, il ruolo della formazione  di nuovi "operatori" (che brutta parola questa!) della salute mentale generava una nuova frattura in seno a quest'ultimo movimento. 

Il termine "de-istituzionale" del sottotitolo, in realtà,  non è appropriato nell'inglobare quelle variegate posizioni  visto che proprio in quell'area del Nordest, come in altre parti d'Italia, si profilò negli anni 60 e 70  quella contrapposizione tra fautori di una "de-istituzionalizzazione" tout court e coloro che sostenevano un superamento degli ospedali psichiatrici creando una psichiatria di settore che si ispirava ad autori francesi come Racamier ed altri. Un autore che ha rilanciato l'eredità di Ferlini a Trento scrive in un altro libro: "La maniera di affrontare il tema della formazione da parte del movimento anti-istituzionale e del movimento della psicoterapia istituzionale che, nel decennio 68/78, si dividevano la scena, ci faceva optare per il movimento che si preoccupava di rendere terapeutica l’istituzione piuttosto che negarla. La politica del settore privilegiava, infatti, la formazione del personale quale formazione, adatto a favorire la creazione di spazi d’incontro e di confronto tra gli operatori, orientati al rispetto della soggettività dei pazienti e dei colleghi. Nella visione politica di Balduzzi (2006) il cambiamento dell’assistenza sarebbe stato possibile, e più duraturo, se prima fosse coinvolto nel processo trasformativo il personale. Da allora il pensiero che il coinvolgimento del personale è importante quanto la cura dei pazienti, o meglio ne è parte integrante, è diventato anche nostro. Purtroppo a partire proprio dal 1978 è cominciato il declino dell’attenzione alla psiche nella psichiatria, sino a arrivare a quella condizione di 'psichiatria sine psichiatria', legata alla riluttanza diffusa ad affrontare la distinzione tra salute mentale e psichiatria, e la contemporanea legittimazione delle derive che andava assumendo la pratica psichiatrica" (Di Marco, Schiappadori, 2019, p.180). Certe formulazioni anti-psichiatriche quali quelle dell'"operatore unico" (espressione ancora più terribile visto che per come vanno i servizi oggi tanto vale sarebbe sostituirla con "operatore solo"!) o certe prese di posizione non solo anti-psicoanalitiche, ma anti-psicoterapeutiche propagate dai basagliani certamente hanno avuto un ruolo nel condizionare ancor oggi una deriva "anti-psichica" dei servizi (la "psichiatria sine psichiatria" di Di Marco) dopo quella "anti-psichiatrica" degli anni 70. Scrive Migone: <<Va ricordato che il movimento anti-psichiatrico, essenzialmente un movimento di psichiatria sociale, aveva una forte componente antipsicoanalitica e più in generale antipsicoterapeutica, privilegiando l'intervento sociale (in alcuni Centri di Igiene Mentale di allora veniva data agli operatori l'indicazione di non fare sedute di psicoterapia). L'insufficiente preparazione tecnica a fronteggiare lo specifico dei disturbi psichici determinò la crisi, la frustrazione e il riflusso di una generazione di psichiatri disillusi dall'ideologia antipsichiatrica, i quali poi si buttarono alla rincorsa delle "tecniche" nel tentativo di evitare un burn-out>> (p.160).   Il pregio del capitolo di Migone è quello di aver analizzato questo dibattito tra Università e Servizi territoriali sul terreno della formazione, dibattito ancora attuale vista l'assenza di qualsiasi formazione sulle pratiche territoriali che gli specializzandi ricevono nel loro corso di studi in molte regioni d'Italia. Ma anche le vicissitudini della formazione degli psicologi e degli psicoterapeuti viene illustrata come un emergere di sempre nuove mode (prima il modello psicoterapico-individuale in concorrenza con il modello "anti-psicoterapico" sociale, poi quello sistemico-familiare che sembrò raccogliere e rilanciare l'eredità di quello anti-istituzionale sociale), lasciando però inevase e non indagate in Italia aree di ricerca che invece all'estero si stavano affermando, come quelle sugli esiti  e sui fattori di efficacia delle psicoterapie. Se negli anni 70-80 l'epoca "aurorale" dei servizi lanciò la figura dell'"operatore unico", dagli anni 90 si impongono nuove figure nei servizi (ad es. i tecnici della riabilitazione) facendo sì che il pendolo inizi ad oscillare nella direzione opposta, quella del tecnicismo e della mancanza di un tessuto connettivo tra cura e riabilitazione (Leo, Riefolo, 2013). 

Se il fare la storia dei servizi, come si diceva, costituisce una sfida tuttora impervia, non è da meno il voler fare la storia di quei personaggi che quella storia hanno inaugurato. è  il caso di Basaglia di cui scrive Foot: <<In generale, la storia di Franco Basaglia è stata prevalentemente scritta dai suoi "sostenitori" o da coloro che, sia all'interno sia al di fuori dell'ambiente psichiatrico, simpatizzavano per il suo lavoro e per la sua - contestata - eredità. Alcuni di questi scritti vertono su un tono agiografico. A tal proposito sussiste un grosso problema di "fonti e circolarità". Il racconto che lo stesso Basaglia fa "di sé" e del proprio lavoro - di solito desunto dalle Conferenze Brasiliane - è spesso utilizzato in maniera acritica e priva di una verifica delle fonti o di un tentativo di ricerca "indipendente" sulle sue argomentazioni e dichiarazioni. Il più delle volte la principale fonte sulla vita e sul lavoro di Franco Basaglia è... Franco Basaglia: da qui deriva la storia, standard e piuttosto lineare, di militanza e riforma che ci è stata detta e ridetta>> (pag. 24). 

Come anticipato, il personaggio su cui vertono ben due saggi (quello di Guarnieri e quello di Conci) del libro è Giorgio Maria Ferlini, promotore di quella psichiatria di settore in una regione, il Trentino Alto-Adige che, grazie alla sua autonomia amministrativa, poteva vantarsi di essere stata la prima Regione ad aver applicato la legge 180/78. Tale approccio era stato maturato da Ferlini riprendendolo dal suo maestro Ferdinando Barison, direttore dell’ospedale psichiatrico di Padova presso cui aveva lavorato dal 1963. Patrizia Guarnieri ci dà un ritratto davvero completo di Ferlini, scandagliando anche nelle sue motivazioni più intime che lo portarono a scegliere la "vocazione" di psichiatra, in un'epoca in cui era la neurologia ad avere un maggior lustro negli ambienti accademici, sia come ampiezza dei programmi per gli studenti sia come prospettive di carriera per i docenti universitari.

Foto: Ferlini nel 2012

  Questa citazione ci fa entrare in un lato inedito (e da me molto apprezzato) del personaggio, lato "oscuro" a me ignoto, pur avendo più volte seguito Ferlini nei suoi seminari nel Triveneto, in particolare in quelli diretti dal mai troppo compianto Salomon Resnik. Scrive Patrizia Guarnieri: <<Ferlini ha parlato di cosa aveva imparato dalla propria profonda sofferenza, e dalla lezione negativa che aveva tratto dal come lo avesse “massacrato” –così proprio dice-  chi avrebbe dovuto curarlo. Ha accennato anche agli insegnamenti preziosi di suo padre che era stato in campo di sterminio;  quando era tornato gli aveva “insegnato cose che solo chi è stato in un campo di sterminio può insegnare”: a non dare per scontato niente, neppure che il sole sorga la mattina, e dunque a sorprendersi, a stare e tenere gli altri liberi.  Qual è la vicenda del padre di Ferlini che lui stesso consapevolmente metteva in relazione al suo proprio particolare sguardo sul mondo?  Non lo sappiamo. Certe esperienze tragiche , vissute a proprio modo (...)  ricorrono nella generazione che era appena uscita dalla guerra e dal fascismo, talvolta avendo vissuto la persecuzione politica o razziale>>.  

   La figura di Ferlini viene magistralmente inserita nei contesti prima della sua formazione e poi della carriera professionale, secondo traiettorie che incontravano altri protagonisti di quesgli anni e di quegli ambienti: oltre a Basaglia,  Antonio Slavich, Lucio Schittar, Maria Pia Bombonato, ma anche Giovanni Gozzetti - sono i nomi che, usciti dall'Università di Padova negli stessi anni, avrebbero cambiato il corso della psichiatria italiana. Particolare cura documentaria la Guarnieri dedica proprio a quegli anni di formazione ed ai primi anni di esperienze professionali in cui il giovane Ferlini inizia a lavorare a Verona. Proprio in quel primo incarico all'OP di Verona si inscrive la prima esperienza da "paziente" di Ferlini. Scrive Guarnieri: 

Ne ricevette una diagnosi di stato depressivo atipico , con aspetti più psicotici che nevrotici.  Considerava quello che ebbe da paziente il suo vero esordio nella carriera psichiatrica: “mi massacrarono”.  Parlandone, in una intervista registrata del 2012,  sorvolava sul nome di chi l’aveva preso in cura, ma lo rendeva facilmente identificabile: si trattava di Cherubino Trabucchi, il direttore dell’ospedale psichiatrico di Verona. Lo conferma la recente testimonianza scritta dello psichiatra Angelo Cassin che collaborando con Ferlini negli anni Settanta, ne ha ricevuto questa e altre confidenze>>. L'importanza di questo periodo di sofferenza è a mio avviso determinante per capire anche l'attenzione riservata da Ferlini, nella sua maturità professionale, alla formazione dei professionisti della salute mentale  da una parte, e dall'altra ad un approccio "umanizzante" col paziente che unisse la psicoanalisi con la comprensione fenomenologica. 

Ovviamente tanti altri sono gli spunti che grazie al saggio di Patrizia Guarnieri cogliamo della personalità e della biografia di Ferlini e puntuale è la ricostruzione degli incontri/scontri con Basaglia. 

Foto (da sinistra a destra): Benedetti, Ferlini, Barison.

Encomiabile è anche il capitolo di Marco Conci sulla corrispondenza tra Ferlini, Barison e Benedetti.  Conci ricostruisce gli anni di formazione di Ferlini, a partire da Barison, da cui <<imparò anche ad ascoltare i pazienti più gravi cercando di incontrarli nella loro individualità di persone>> (p.117). Ma la formazione psicoanalitica per Ferlini non si limitò agli anni giovanili, come testimoniato dai rapporti che egli ebbe con Gaetano Benedetti e con Johannes Cremerius in età matura. Fu coerente nella sua convinzione che la formazione psicoanalitica non dovesse essere un "lusso",   un investimento magari solo degli anni giovanili, ma un dovere da ottemperare per tutta la vita, a maggior ragione per chi, come responsabile di un Servizio, deve  favorire  un suo impatto benefico sulle équipe istituzionali (idea che Ferlini condivideva con Salomon Resnik). In un'appendice documentaria Conci riporta alcune lettere dell'interessante corrispondenza intercorsa tra Benedetti e Ferlini, nonché un elenco delle pubblicazioni e un curriculum vitae di quest'ultimo.

Infine, per motivi di spazio non è possibile soffermarsi su tutti i capitoli ma una menzione speciale vorrei dedicare a quello di Giovanna Vicarelli  sulle "Donne psichiatre del Novecento" che ha suscitato il mio interesse per la vividezza dei ritratti di professioniste come Giulia Bonarelli, Maria Del Rio e Assunta Signorelli. Anche questo capitolo, vista la differente dislocazione geografica delle carriere menzionate che esula dal Nordest (Ancona per la Bonarelli e Genova per Del Rio, Parma e la Calabria oltre a Trieste per Signorelli),  la differente scansione temporale (primo Novecento per le prime due in ambito manicomiale, seconda metà del secolo per la terza in ambito post-manicomiale) tale capitolo potrebbe costituire un "apripista" per <<avviare uno studio specifico sulla professione psichiatrica al femminile, tanto più che oggi le donne in tale settore sembrano assumere una posizione rilevante almeno sul piano numerico>>(p.189). Opportunamente Vicarelli fa notare anche  che <<L'interesse per la dimensione di genere (...) è stato rivolto essenzialmente alle donne malate, lasciando nell'ombra, ad esempio, il lavoro di cura svolto a casa. Lì erano le donne che si prendevano cura di un familiare che soffriva di malattie psichiatriche e che non veniva ricoverato o che alternava periodi di ricovero con altri a domicilio, in base non solo alla gravità della patologia, ma anche alla disponibilità di assisterlo da parte della famiglia e della sua componente femminile>>(p.190). Un problema ancora attuale visto che l'assoluta inadeguatezza dei servizi psichiatrici territoriali e delle strutture intermedie che caratterizza più o meno tutte le regioni italiane, "obbliga" spesso la componente femminile di una famiglia con un paziente psichiatrico a sacrificare proprie prospettive di lavoro o scelte sentimentali per garantire quel supporto umanizzante al proprio parente vulnerabile.

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