Abstract
La
traduzione italiana del volume di Stefanie Linden, The Called It
Shell Shock, per i tipi di Guida Editore, segna una tappa
importante per l’evoluzione degli studi. L’approccio comparativo
ai contesti britannico e tedesco, ed il ricorso ad un corpus
archivistico ampio ed inedito, consente di definire nuove
interpretazioni e suggerire poco frequentati percorsi di ricerca. Non
di meno, il volume presenta una serie di nodi problematici che sono
comuni alla più nota storiografia anglosassone in argomento.
Discutendo delle scelte autoriali meno convincenti a livello
metodologico-epistemologico, e delle caratteristiche distintive dei
contesti psichiatrici nazionali investigati, il contributo si conclude
con una rapida comparazione con lo scenario italiano dell’epoca.
Abstract
The
Italian translation of Stefanie Linden’s volume The Called It
Shell Shock (Guida Editore, Napoli), marks an important stage in
the evolution of studies. The comparative approach to the British and
German contexts, and the use of a large and unpublished archival
corpus, allow us to define new interpretations and suggest
little-frequented research paths. Nonetheless, the volume presents a
series of problematic issues that are common to the more well-known
Anglo-Saxon historiography on the subject. Finally, the contribution
ends with a rapid comparison with the Italian case, by discussing the
less convincing authorial choices on a methodological and
epistemological level, and debating the distinctive characteristics of
the national psychiatric situations investigated.
Per
apprezzare la ricchezza tematica e gli aspetti innovativi dell’opera
di Stefanie Linden (1), ma anche per metterne a fuoco alcune debolezze
metodologiche ed epistemologiche, comuni a certa storiografia
anglosassone incline a forzare il ragionamento teorico a scapito delle
fattualità (2), conviene partire dal vaglio degli scopi dichiarati
dall’Autrice.
Consulente
psichiatra e ricercatrice clinica con un dottorato in “Humanities
and Health”, con La guerra dei nervi (titolo originale
emblematico: They Called It Shell Shock, 2016), Linden si pone
obiettivi ambiziosi e, per taluni aspetti, arditi.
Il
volume si candida a tracciare l’approfondita storia del concetto di shell
shock (o nevrosi di guerra), inteso sotto un duplice significato.
In senso lato, come paradigma culturale metafora dell’esperienza
combattentistica della Grande guerra (p. 25). Su un piano più
circoscritto, come nosografia simbolo del complesso rapporto tra mente
e corpo (p. 304), nell’ambito di una scienza delle malattie mentali
le cui teorie sulla psiche sarebbero emerse rivoluzionate dal
confronto con le follie di guerra (p. 303).
A
partire dall’obiettivo euristico Linden, dopo aver anticipato al
lettore la diffusa riluttanza psichiatrica verso le spiegazioni
esclusivamente psicologiche della sofferenza mentale, scandaglia «le
costellazioni di sapere medico, teorie scientifiche e fattori
socioculturali che hanno prodotto i sintomi descritti come shell
shock (…)» (p. 304).
Circoscrivendo
il discorso ai contesti anglosassone e germanico, l’approccio
comparativo valorizza l’esame delle diverse forme di espressione dei
sintomi, e delle correlate scelte differenziali nei trattamenti
terapeutici (p. 46 e p. 55).
Ordinate
l’una a fianco dell’altra le «esperienze personali di soldati
britannici e tedeschi», la finalità della ricerca è, da ultimo,
quella di illustrare «la sofferenza di tutti [!] quelli che furono
coinvolti nel conflitto», esponendo nel contempo «l’influenza di
norme e valori culturali sulle manifestazioni sintomatiche individuali»
(p. 55).
Le
fondamenta documentarie, sulle quali innalzare l’ambizioso edificio
analitico, sono rintracciate negli inediti repertori di cartelle
cliniche degli ospedali militari consacrati ai nevrotici di guerra: il
tempio della neurologia britannica, il londinese National Hospital di
Queen Square; ed i nosocomi di Berlino Charitè e Jena per la
Germania.
Attraverso
il momento interpretativo, le feconde informazioni registrate dalle
fonti trascendono le storie dei soldati traumatizzati – o meglio: il
compendio di destini individuali da esse memorizzato – per divenire
la chiave di volta di un’esegesi culturale del Primo conflitto
mondiale (p. 29).
Sotto
questa luce, l’artificio esemplificativo privilegiato da Linden che,
a partire da selezionate particelle biografiche, procede ad illustrare
contenuti, pregi, limiti ed equivocità delle differenti letture
psichiatriche delle patologie belliche, suscita alla lettura un misto
di ammirazione e perplessità.
Paradossalmente,
credo si possa osservare come il punto forte del volume, quello
evenemenziale-narrativo, ed il suo lato meno convincente, quello
metodologico, tendano qui a sovrapporsi, inseguendo la difficile
conciliazione tra componenti euristiche relativamente consonanti.
In
sintesi, se il ricorso ai compositi frammenti di biografie morbose
conservati dagli archivi alimenta il pregevole incedere espositivo,
stimolando la curiosità dei lettori, l’assolutizzazione
interpretativa degli stessi palesa le ottimistiche aspettative
autoriali circa la loro capacità di comunicare nel presente il
significato profondo di un fenomeno, invero complesso e
multidimensionale, quale fu il conflitto del ’14-18.
Lascia
scettici l’affermazione, relativamente supportata dalla spassionata
analisi critica delle fonti, secondo cui «la documentazione clinica
rinvenuta offre un profilo completo dei soldati a partire dalla loro
formazione prebellica, il loro inquadramento nell’esercito, la loro
interazione con le strutture ospedaliere in guerra, fino al loro
reinserimento nella vita civile» (p. 55). E lo scetticismo non sorge
sul significato possibile della dizione «profilo completo» – anche
se, sul punto, una lettura non generica di Freud potrebbe far
riflettere a proposito dell’impossibile possesso della verità
biografica (3). Molto più prosaicamente, la diffidenza muove dal
fatto che, in conseguenza della presupposizione analitica, alla
considerazione dell’elemento qualitativo delle fonti, magistralmente
precipitato dall’Autrice nel testo, fa riscontro l’ingiustificata
sottovalutazione dell’effettivo impatto quantitativo della questione
shell shock nel contesto sia della grandiosa mobilitazione
bellica dell’epoca, sia rispetto ad un’ipotetica sommatoria delle
vittime militari e civili del conflitto.
Caso
non raro nella letteratura storiografica di lingua inglese ammaliata
dal verbo freudiano secondo l’imprinting leediano (4), il
mancato computo interpretativo del peso specifico della questione shell
shock costituisce un elemento non di dettaglio. Analiticamente, al
di là delle indiscutibili sofferenze soggettive, esso comporta la
sottovalutazione di un fattore decisivo del processo logico-razionale
di valutazione psichiatrica delle manifestazioni psico-nevrotiche.
Ignorarlo, e non solo alla luce di una storia interna della
disciplina, porta ad elidere il confronto con un nodo di metodo ed
epistemologico incombente sul lavoro diagnostico-terapeutico,
fraintendendo parte dell’opera di quei medici pionieri che, colti
alla sprovvista, fronteggiarono il fenomeno delle follie di guerra.
Prima
del conflitto, del resto, tale nodo problematico è colto tra le righe
proprio da Freud, l’involontario ispiratore di molte delle attuali
analisi storiografiche. Etichettando non senza autoironia come minderwertig,
cioè di scadente qualità, i vissuti da lui analizzati nella Vienna
d’inizio ‘900, per specchio analogico presagio interpretativo dei
malesseri esperiti dai combattenti, sollecita ancora oggi
implicitamente a meditare sulla rappresentatività collettiva di detti
vissuti caratterizzati da inibizioni, blocchi, rimozioni, conflitti
psichici, perdita di vitalità, nevrosi, ecc., in quanto costruzioni
culturali oggettuali (5).
Scorrendo
le pagine de La guerra dei nervi è urgente domandarsi, allora,
se non ci sia un elemento di arbitrarietà nella scelta della Linden,
e di altri studiosi prima di lei, di elevare i folli di guerra ad una
sorta di ipertesto profetico della modernità, assegnando alle vicende
morbose di un numero esiguo di individui decontestualizzati dai
colossali numeri del conflitto, il compito, invero smisurato, di passepartout
analitico per la comprensione ultima del fenomeno bellico nella
connaturata, moderna, violenza omicidiaria di massa.
Un
più misurato approccio analitico, meno esposto alle insidie della
sovrainterpretazione nell’intendere inconsapevolmente in termini
haeckeliani la relazione tra individuo e collettività (6), non
avrebbe nulla da temere in quanto a capacità sia di spronare
l’attenzione dei lettori, sia di puntare a risultati euristici degni
di nota, come proprio La guerra dei nervi dimostra. Pur
depurato da forzature interpretative meccanicistiche, e spogliato
dall’innesto fascinoso di elementi romanzeschi soggettivistici,
l’argomento del «mondo mentale del terrore» (p. 149) generato
dalla modernità inquietante del conflitto, con i suoi attori travolti
dagli eventi, resta un histoire-problème tematicamente
sconfinato, analiticamente incandescente, ed interpretativamente
controverso.
Incasellate
in un più articolato rapporto col fenomeno bellico, l’esperienza
terrificante del combattimento e gli effetti distruttivi della
guerra-laboratorio «esperimento psicologico di enormi dimensioni»
(p. 91) – così lo psichiatra di Stoccarda August Fauser –,
permangono drammatiche fratture per le esistenze di migliaia di uomini
e delle loro famiglie.
Con
intensità e diffusione fino ad allora sconosciute, sensazioni alle
quali «non c’era modo di abituarsi» (p. 128), come la disperante
impotenza, la sbigottita insicurezza, l’opprimente pericolo di morte
e l’onnipresente paura, assurgono a condizioni di vita quotidiana
non più circoscrivibili alla dimensione del patologico privato,
serrando in una morsa di disagi psichici, disturbi psichiatrici,
psicosi da spavento, ruminazioni paranoiche, ossessioni maniache
invalidanti, esaurimenti psicofisici e dirompenti angosce, migliaia di
individui.
Scomposta
analiticamente in una serie di filoni cardine, proprio
l’esplorazione di queste traumatizzanti esperienze vissute nelle
prime linee e, non di rado, rivissute nella mente lontano da esse,
costituisce l’architrave espositivo delle migliori pagine de La
guerra dei nervi.
La
ricerca si focalizza sopra un tessuto patologico vasto e all’epoca
imprevisto, offertosi alla curiosità medica fin dalle prime battaglie
di posizione del settembre ‘14, e da questa delineato in un magma
protrattosi per tutti gli anni ’20 di sintesi teoriche, osservazioni
manicomiali e ipotesi nosologiche.
Nell’incontro
con i primi casi di follia di guerra, un’acquisizione non tarda a
farsi strada nel bagaglio conoscitivo psichiatrico. Per fronteggiare
la forza annichilente di un conflitto nel quale gli afflati
romantico-cavallereschi coltivati durante l’Ottocento sono spazzati
via, e l’artiglieria e la mitragliatrice disinnescano le velleità
offensive dei contendenti, condannando le truppe a sopravvivere in
trincee simili a tane, i combattenti sono costretti ad adottare
strategie di difesa o di adattamento passivo alla realtà. Strategie
conservative indotte, consce o inconsce, collettivamente contagiose
se intese come l’esito di un processo di apprendimento implicito
capace di fornire, a uomini dall’istruzione elementare, modalità
socialmente accettabili di reazione agli spaventosi traumi bellici (p.
286).
Accogliendo
le opinioni dell’allora classe medica, tra queste strategie Linden
include situazioni subdolamente catalogabili al registro patologico,
come il suicidio, di cui si indagano con acribia modalità e
motivazioni (p. 179), e la diserzione, della quale si sottolineano due
importanti caratteristiche. A livello storico, la diversa lettura
fornitane nei contesti britannico e germanico (p. 207); sul piano
interpretativo, la valutazione che la vuole incapace di rappresentare
una minaccia per la funzionalità dello strumento militare, rivedendo
così alcune passate forzature storiografiche
Le
brillanti pagine dedicate all’esame delle strategie di difesa dei
combattenti in situazioni intollerabili, fino all’uccisione del Sé
come estrema via di scampo, promettono, tuttavia, di suscitare nel
lettore italiano un doppio rammarico.
Il
primo, poiché il tema del suicido è indagato citando la recensione,
apparsa nel “Journal of Mental Science” del 1920 (pp. 164-65), di
un saggio del clinico torinese Leone Lattes, del quale Linden omette
il nome. Allievo di Lombroso, con Il tentato suicidio nei militari pubblicato
nell’“Archivio di Antropologia Criminale” del 1917, Lattes
riflette le tipiche posizioni della psichiatria
antropologico-positivista nazionale, certificando nella scelta del
suicidio «il risultato di un’alterazione mentale» acclarata. (p.
189).
Il
secondo rammarico, perché la ricostruzione de La guerra dei nervi
autorizza a rivisitare con occhi meno prevenuti un testo decisivo per
la psichiatria di guerra come Il nostro soldato (1917) (7) del
francescano Agostino Gemelli. Volume purtroppo trascurato da Linden, a
riprova dello scarso appeal internazionale dell’alienismo
nostrano a prescindere dalle cicliche infatuazioni lombrosiane. E
tuttavia, titolo dal valore scientifico che, fatta la tara alla
strutturale ispirazione paternalistica-punitiva, non sembra indegno di
figurare in un’ipotetica antologia europea in materia.
Per
accennare solo ad un breve tratto comparativo convalidante la
rilettura di Gemelli, è difficile per chi sfoglia Il nostro
soldato non coglierne i punti di contatto, se non di condivisione
teorica, con le più celebrate opinioni del tedesco Kurt Schneider,
futuro specialista della schizofrenia, per il quale, al pari del
religioso milanese, «i soldati utilizzavano delle strategie
psicologiche per evitare il crollo mentale: dal momento che non
potevano sottrarsi fisicamente al conflitto, trasportavano la mente in
altri luoghi» (p. 173).
La
diserzione, il suicidio e la spersonalizzazione volontaria non sono,
naturalmente, le uniche forme, estreme e fallimentari, di adattamento
alle realtà insostenibili del conflitto indagate da Linden.
L’indeterminatezza concettuale delle nosografie, e le incertezze
lessicali – segno di un difficile rapporto del medico col designatum
patologico (8) – consentono alla storica di adottare un concetto
ampio e poroso di follia di guerra.
La
scelta, inevitabile tematicamente e condivisibile analiticamente
nell’ottica dell’indagine socio-culturale, ma forzata rispetto ai
convincimenti più articolati delle psichiatrie europee del tempo,
resta non di meno costellata di aspetti problematici di natura
interpretativa, riflessi sia dalla pluralità degli atteggiamenti
dottrinali all’epoca adottati, sia dall’incapacità sanitaria di
definire un protocollo terapeutico condiviso.
Tra
sottigliezze, sfumature e ambiguità abilmente colte da Linden, la
ricognizione di tali atteggiamenti ed esperimenti curativi
costituisce, nell’economia testuale, il secondo asse portante
attorno a cui i capitoli de La guerra dei nervi si dispongono.
Un
elemento caratterizza le supposizioni della psichiatria bellica. Non
tanto la menzionata pluralità delle posizioni in gioco, quanto
l’oscillare dubitativo tra modelli di lettura di derivazione
organicistica, soluzioni di matrice psicogena, e interpretazioni
ibride alla ricerca di un bilanciamento tra le due impostazioni.
La
ricostruzione della Linden fissa una periodizzazione di massima circa
la fortuna dei paradigmi scientifici privilegiati dagli psichiatri in
Germania e nel Regno Unito.
All’appuntamento
col conflitto, l’alienismo europeo giunge ricco di una straordinaria
storia, databile dalla fine del Settecento, e capace di riscrivere il
rapporto della medicina con la follia sottraendo il pazzo a secolari
pregiudizi. Ma, nello stesso tempo, condizionato da questa storia e
dalle sue vertiginose elaborazioni, tra le quali le ricerche di
Charcot sull’isteria (9) e la natura tipicamente femminile del
disturbo (p. 35), assumono un ruolo non secondario.
Con
Charcot e la neurofisiologia germanica, è tutto un bagaglio
conoscitivo frutto di abituali vocazioni teoriche, accreditati schemi
diagnostici, consolidate prassi asilari, e preferenze terapeutiche
viziate di pessimismo, ad instradare il tormentato incontro della
scienza delle malattie mentali con i fenomeni patologici emersi sui
campi di battaglia.
Lasciata
in sospeso la diatriba inerente la patogenicità della guerra, cioè
della sua facoltà di generare in autonomia disturbi mentali in
soggetti precedentemente sani, il compito di determinare gli effetti
del conflitto sulla psiche, nonché di definire i processi
d’insorgenza dei disagi, rappresentano una sfida ineludibile per il
sapere medico (p. 59), sollecitato in quei frangenti ad intensificare
l’inedita funzione di strumento patriottico al servizio dello Stato
in guerra.
Compendiato
nel nome e negli studi di Hermann Oppenheim (p. 92), il paradigma
organicista, tassello della più avanzata ricerca neurofisiologica
germanica, incassa inizialmente le maggiori adesioni. Punti
qualificanti e complementari di tale lettura sono, tra gli altri, il
rifiuto dell’interpretazione esclusivamente psicogena delle nevrosi
belliche, e la convinzione che un disturbo mentale privo del correlato
fisico rappresenti un’incongruenza diagnostica. (p. 279).
Invero,
a testimonianza della sostanziale incertezza dominante nella neonata
psichiatria di guerra, forme e meccanismi di un simile correlato
restano un capitolo da decifrare, il soggetto di una riflessione
scientifica non parca d’immaginazione.
Lo
sforzo di ricerca vòlto ad individuare le impronte biologiche del
trauma setaccia, infatti, più versanti esplicativi, valorizzando, in
ordine sparso, il ricorso ai fattori di natura ereditaria, il dettato
degenerazionista (10) inteso in un’ottica post-moreliana, e la
congettura pertinente realtà elusive come le dannose alterazioni
micro-anatomiche (fisiologiche oppure endocrine) scatenate nei corpi
dei combattenti dalle onde d’urto delle esplosioni.
Trama
di lettura quest’ultima dello shell shock suggerita fin
dall’autunno del ‘14, ed in grado di vivere, tra i sanitari
britannici, di rinnovata vitalità dopo la conclusione del conflitto,
forte del dichiarato difetto: l’incapacità tecnica di disporre di
mezzi atti a sciogliere il rebus della formazione e degli
effetti delle ipotizzate microlesioni al sistema nervoso.
È
all’interno di una simile cornice logica che, nell’estate del
1918, l’accademico dell’Università di Manchester Judson S. Bury
esorta la comunità scientifica «a non respingere l’approccio
organico» solo perché le deficienze strumentali impediscono di
rilevare sia gli impercettibili danni molecolari prodotti nei corpi
dalle artiglierie, sia gli strascichi causati dal sentimento estremo
della paura nel funzionamento dei neuroni corticali (pp. 270-71).
Paradossalmente, è l’inefficacia dei macchinari d’indagine ad
attualizzare la fondatezza della proposta esplicativa, eleggendola
valida nel presente in attesa di una futuribile conferma figlia del
perfezionamento tecnologico.
In
un secondo momento, e quanto più il conflitto si trascina con ferrea
monotonia tra assalti, bombardamenti e stragi, l’iniziale predominio
dell’approccio organicistico è messo in discussione. Le folle di
soldati traumatizzati, allucinati e muti, che si accalcano alle porte
delle infermerie da campo, richiedono nuove risposte.
In
realtà, la messa in mora del modello biologico-organico non è priva
di chiaroscuri, come attesta la letteratura specialistica e la
produzione, in questo senso esemplare, di Frederick W. Mott,
neuropatologo membro della “Royal Society”, la cui precoce
attenzione per le relazioni tra i processi psicopatogeni e le
condizioni organiche, coesiste coerentemente con la ricerca di quelle
lesioni cellulari di cui Bury ha rivendicato (o fantasticato) la
centralità (p. 96).
Non
di meno, a partire dal 1916, la progressiva insoddisfazione analitica
cagionata da un indirizzo somatico-classificatorio finito nel vicolo
cieco del conformismo dottrinale incapace di dar conto della pluralità
dei quadri patologici, favorisce il riorientamento medico verso «un’interpretazione
psicologica della nevrosi di guerra» (p. 270).
Probabilmente
forzando il giudizio, come attesta l’esposizione successiva de La
guerra dei nervi, Linden si spinge a parlare di inarrestabile
declino del paradigma organicista, messo ai margini dalla maggiore
attenzione prestata dagli studiosi ai sintomi funzionali e alle
spiegazioni psicogene (p. 97). È in quel frangente temporale e
teorico, in effetti, che aspetti fino ad allora negletti alla
considerazione psichiatrica come l’imitazione e la suggestionabilità
tra i militari traumatizzati, diventano temi correnti nelle riviste di
settore.
Inaugurando
vie relativamente battute dalla medicina mentale, la crisi del modello
biologico, cioè del paradigma di riferimento della medicina tedesca
avanguardia della ricerca psichiatrica europea, anche nella sua branca
militare (11), è accelerata da ulteriori evenienze, diligentemente
annotate dalla Linden.
Il
maggior credito conferito alle interpretazioni psicoanalitiche nei
paesi di lingua tedesca, terre d’elezione del verbo freudiano, ma
anche in Inghilterra, grazie a figure come quella di William H.R.
Rivers (12), asseconda il riguardo psichiatrico verso la nouvelle
vague psicopatogena. Rispetto alle incerte prassi terapeutiche
d’inizio ‘900, specifica, e allettante per medici e governi, è
l’assicurazione psicoanalitica di garantire il celere recupero al
servizio attivo dei soldati traumatizzati (p. 55).
Analogamente,
alla popolarità delle letture psicopatogene contribuiscono due
condizioni parte integrante dell’esperienza quotidiana dei medici
asilari e delle cliniche psichiatriche: il confronto con i numerosi
casi di psicosi dalla breve durata, destinati a non cronicizzarsi e «causati
o almeno innescati da eventi traumatici» (p. 165) di natura
emotivo-commotiva; l’inarrestabile tramonto della dottrina
degenerazionista, di cui il repertorio patologico scaturito dal
conflitto esalta le insufficienze diagnostiche e terapeutiche, tanto
più ingiustificabili (p. 283) se rapportate alle promesse della
psicoanalisi.
Rilevante
a livello storico e originale sul piano analitico, il consenso
suscitato dal paradigma psicogeno – come più volte osservato –
non manda definitivamente in soffitta il modello somatico. Al
contrario, la mancata prevalenza di uno dei due schemi di comprensione
delle follie di guerra rappresenta un sintomo, e non dei minori, delle
insicurezza diagnostiche, terapeutiche e fin anche professionali
attraversate dalla corporazione neuropsichiatrica tra guerra e
dopoguerra.
Come
sottolinea Linden, rispetto ai tempi di pace, il conflitto implica una
profonda rielaborazione del ruolo psichiatrico, nel suo agire
giornaliero non più guidato solo da questioni di natura strettamente
sanitaria (p. 214).
Senza
scalfire la connaturata asimmetria di potere esistente tra medico e
folle, e senza depotenziare l’habitus psichiatrico delle
consuete posture di impersonalità, arroganza, paternalismo e
autoritarismo, tanto più energiche allorché si tratta di rapporti
con pazienti d’estrazione popolare, il conflitto proietta il
professionista della cura delle malattie mentali all’intersezione di
un campo di forze plurime. Uno spazio negoziale abitato da attori con
interessi ed obiettivi non sempre armonizzabili.
Sottoposto
a tali contrastanti tensioni, lo stesso «verdetto psichiatrico»
subisce una mutazione, potendo nei suoi responsi «andare in una
direzione piuttosto che in un’altra» (p. 214), secondo logiche
spesso opache. Esempi calzanti in questo senso sono le scelte
psichiatriche nel confronto/scontro con i soldati accusati di
ingiustificato abbandono di posto, di diserzione, di pacifismo più o
meno manifesto.
Intersecando
l’ambito dei comportamenti penalmente perseguibili con una frequenza
irrituale rispetto alle pratiche prebelliche, la diagnosi psichiatrica
si carica, oltre le specifiche sanitarie, di una funzione ambivalente
di filtro patriottico, potendo nel medesimo tempo sia assolvere «il
soldato dalla responsabilità di aver compiuto un reato»
particolarmente esecrabile per la nazione in guerra, sia proteggere «il
sistema militare da situazioni che costituivano una minaccia» per la
sua integrità morale (p. 191).
Nonostante
il montare delle voci critiche, e sullo sfondo di una bizzarra koiné
esplicativa che connette ragioni mediche e motivazioni
extra-scientifiche, il credito conservato dalla scolastica somatista
si rivitalizza al cospetto delle impreviste funzioni ora riservate
all’azione alienistica.
L’ossessione
organicista, come la etichetta Linden (p. 263), con la sua logica
imperturbabile alla scelte volontarie degli individui, attribuendo il
diniego dell’impegno patriottico al «crollo della forza di volontà»
del soldato «di fronte a uno stress insopportabile» prodotto da
causalità biologiche, permette di perseguire un duplice obiettivo. Da
un lato, puntellare con l’aura della scienza l’indisponibilità
delle autorità politiche ad accordare al rifiuto della guerra alcuna
legittimità morale e razionale che non fosse, invece, ascrivibile al
dominio del patologico. Dall’altro, rovesciando la prospettiva in un
gioco di pesi e contrappesi abilmente manovrato dagli psichiatri,
offrire al militare sotto accusa per diserzione o pacifismo una via di
fuga, sollevandolo, con la diagnosi di follia momentanea, dalle
conseguenze di un giudizio penale dall’esito prevedibilmente severo
(p. 211).
Nel
complessizzare ulteriormente il volto della medicina mentale,
che proprio in quegli anni, soprattutto in Inghilterra, scopre
giocoforza la presenza femminile nelle strutture sanitarie in funzione
sostitutiva dei medici mobilitati – presenza celermente risospinta
ai margini nel dopoguerra (pp. 75 e seg.) – Linden si spende per
confutare quello che designa come il mito di un’azione psichiatrica
strumento repressivo al soldo dei governi (p. 109).
Invero
semplificando le tesi della storiografia anteriore, come puntualizza
Antonio Gibelli nelle agili note introduttive (p. 20), l’intento
revisionista dell’Autrice contribuisce ad affinare l’attenzione
dei lettori sul capitolo delle novità terapeutiche allora introdotte,
non da ultimo sotto il pungolo di un allarme non sanitario: il bisogno
di cure rapide per restituire alla guerra guerreggiata i molti
combattenti afflitti da disturbi transitori.
Sconfessando
il credo alienistico ottocentesco relativo al valore di per sé
terapeutico del locus manicomiale, è affrontando le patologie
belliche che gli psichiatri colgono l’occasione per scavalcare gli
angusti steccati della pura gestione asilare della follia, per
riscoprire, con un ritorno alle radici pineliane, un aspetto
trascurato «del proprio lavoro: realizzarono che la loro disciplina
poteva alleviare la sofferenza di un gran numero di pazienti e
iniziarono a concepire la psichiatria come scienza del trattamento dei
disturbi mentali» (p. 262).
Proprio
in ragione dell’eterodossa gamma di atteggiamenti dottrinali
adottati (p. 261), i quali, in ultima analisi, rimandano alla duttile
coesistenza dei modelli biologico e psicologico (p. 103), dal 1915 è
tutto un fiorire di esperimenti terapeutici mai prima di allora così
poliformi, e con tale diligenza medica coltivati. Trattamenti sì
vincolati dalle pressioni sociali e politiche del momento, ma non per
questo esitanti nell’inseguire un tipo di risanamento misurabile sul
lungo termine.
A
tacere delle embrionali prove di cure parlate, e dell’impulso dato
ai percorsi psicoanalitici – percorsi limitati nel numero e
circoscritti in genere agli ufficiali –, l’arsenale curativo si
completa di metodologie non scontate, come le tecniche suggestive (p.
245), le procedure ipnotiche, gli interventi di natura persuasiva, e
la sperimentazione di approcci prototipo delle posteriori terapie
comportamentali. Nello stesso tempo, il ricorso all’elettroterapia
si diffonde su larga scala grazie a clinici come Kaufmann in Germania
(p. 240) e Yelland in Gran Bretagna (p. 147).
Caldeggiato
presso entrambi gli schieramenti, si tratta di un impegno terapeutico
per alcuni aspetti rivoluzionario (p. 260), e non esente, a vantaggio
del perfezionamento dei metodi impiegati, da aspre polemiche, come
quella esplosa in Germania tra Ludwig Binswanger e Max Nonne a
proposito dell’ipnotismo (p. 249).
Un
impegno destinato, per altro, ad infrangersi contro un doppio
ostacolo. Il primo, inscritto nelle forme dell’intervento curativo
(p. 250) così come storicamente messe a punto negli asili della
follia, dato dall’impossibilità per penurie finanziarie,
professionali e di tempo, di fornire trattamenti realmente
individualizzati. Il secondo, altrettanto figlio della storia recente,
illustrato dall’inadeguatezza medica a ripensare l’intervento
terapeutico al di là delle sue componenti paternalistiche, e al di
fuori di quella propensione disciplinare rinvigorita dall’emergenza
bellica (p. 238).
Sulla
scorta dell’articolata ricostruzione della Linden, l’azione della
psichiatria di guerra manifesta qui, apertamente, il suo volto di
Giano, sovrapponendo nell’azione quotidiana vecchie e nuove prassi,
inedite intuizioni e vetuste convinzioni, sensibilità aperte
all’ascolto dei folli e radicate preclusioni circa la loro congenita
pericolosità.
Alla
consolidata routine del lavoro clinico appartiene la predilezione
anamnestica – tanto più viva al cospetto dei pazzi pronosticati
come cronici – diretta a scavare nelle biografie del paziente e dei
familiari per associare patologia e vizi costituzionali di matrice
ereditaria, con ciò condannando a priori il paziente al
simulacro di un fato evoluzionistico invulnerabile ai più tenaci
sforzi curativi (p. 284).
Similmente,
nel capitolo del già noto s’inscrive il dissidio – con
protagonisti del calibro di Alois Alzheimer (p. 186) – concernente i
benefici sociali e razziali propri allo stato di guerra. Esso solo a
fatica maschera, dietro i contenuti guerreschi contingenti, una linea
di pensiero para-darwiniana che, discettando di selezione artificiale
delle forze umane superiori, ricalca, invertendone i fattori, lessico
e logica della discussione psichiatrica fine ottocentesca circa le
ripercussioni patogene della civiltà moderna, intesa anzitutto come
espansione nefasta dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione
(13).
Al
contrario, dal laboratorio avanzato delle prime terapie relazionali
(p. 233) implementate dalla psichiatria di guerra, deriva
quell’attenzione storicamente anomala per la dimensione
antropologico-culturale che, arricchendone il sapere, sprona la
riflessione psichiatrica a farsi carico di due aspetti decisivi nel
rapporto col paziente. Due aspetti fino ad allora scarsamente
approfonditi: quelli dell’autonomia e del consenso – almeno
sottinteso – degli individui sofferenti all’estrinsecarsi del
percorso terapeutico.
È
indagando questo versante, in genere tralasciato dall’analisi
storica, che Linden può asserire con giustificata enfasi: «il
materiale d’archivio mostra che l’interazione tra i medici e i
loro pazienti era molto più complessa di quanto descritto dalla
maggior parte della narrativa contemporanea (…)» (p. 55).
In
un’ottica comparata con gli studi disponibili, sono probabilmente
queste le pagine più affascinanti del volume. Le più fertili di
spunti tematici e suggerimenti interpretativi per l’orientamento dei
futuri itinerari euristici.
Facendo
tacito tesoro delle lezioni dell’antropologia medica statunitense
(14), Linden spiega con dovizia di riferimenti come, per quanto
espressa in forme semplicistiche, oppure vissuta in modi ingenui, la
consapevolezza che esista una dimensione culturale nelle forme di
manifestare il disagio mentale appartenga all’esperienza quotidiana
degli stessi ricoverati, così accreditandone l’indiretta capacità
di leggere e agire i segni dei contesti che li circondano.
Che
gli stati dissociativi possano rappresentare un handicap per il
reinserimento del paziente nella vita civile (pp. 184-85), tanto più
condizionanti se non abbinati a lesioni anatomiche; che sussista un
grado di ammissibilità politico-patriottica delle differenti
patologie, con la nevrastenia da stress bellico reputata «disturbo
rispettabile e privo di connotazioni negative» (p. 144); che
l’espressione del disagio sia, in ultima analisi, «anche influenzat[o]
da quello che l’opinione pubblica considera accettabile o
inaccettabile, autentico o falso, rispettabile o imbarazzante» (p.
288); che, infine, i soggetti stigmatizzati come militarmente
improduttivi rischino la condanna all’invisibilità sociale,
sordamente alimentata da quelle stesse autorità responsabili del loro
invio da uomini sani al fronte (p. 275), sono tutte circostanze
fattuali e nozioni di senso partecipate da gruppi di ex-combattenti
ricoverati nel processo di ordinaria introiezione del proprio
assoggettamento. Consapevolezze istintive in grado di dotare
l’abituale relazione medico-paziente di un terreno di negoziazione
storicamente singolare. Un perimetro di potenziale compartecipazione
del secondo alla definizione della propria biografia morbosa, certo
microscopico e vincolato dal dislivello di potere che lo allontana dal
primo, e non di meno funzionale a veicolare la presenza del
soggetto in crisi (15) in forme meno subalterne rispetto a quelle del
passato.
Impreziosendo
La guerra dei nervi – opera assai più ricca di motivi
d’interesse di quelli qui sinteticamente elencati –, il nuovo
ambito analitico offerto alla storiografia dalla ricostruzione della
Linden incalza a definire ancora, e meglio, le complessità del milieu
psichiatrico coinvolto nella guerra.
Attraverso
l’analisi autoriale spesa con minuzia ad indagare, in parallelo, i
contesti britannico e tedesco, la lente interpretativa costituita
dallo storicamente ed esistenzialmente inedito attivismo dei
ricoverati consente così, di riflesso, di apprezzare le rispettive e
difformi concezioni dell’autorità, dei diritti riconosciuti agli
individui, della disciplina militare e del rapporto
governanti/governati. Aspetti solo in apparenza estranei ai regimi
sanitari, poiché come insegna Linden con abbondanza di
documentazione, essi hanno un peso specifico non minimizzabile nella
determinazione delle valutazioni psichiatriche.
Per
terminare l’esame del volume, può essere utile ampliare lo sguardo
analitico alla medicina italiana, riassumendo brevemente a vantaggio
dei lettori alcuni, e solo alcuni, dei tratti che la distinguono dalle
consorelle germanica e, soprattutto, britannica.
Primo
tratto: nella psichiatria della penisola, la predominate attenzione
accordata dai sanitari d’oltralpe allo shell shock e ai
correlati fattori scatenanti (pp. 219-220), non ha il medesimo
riscontro né teorico né quantitativo. In generale, l’assillo verso
le patologie psichiatriche è a tal punto sminuito che, a livello
didattico, nei corsi accelerati per i laureandi in medicina
dell’università castrense di San Giorgio di Nogaro, le ore dedicate
alla clinica delle malattie mentali sono ridotte al minimo necessario,
ed equiparate a quelle riservate all’ostetricia e alla pediatria
(16); specialità quanto mai lontane dall’universo patologico delle
trincee.
Senza
ignorare le valenze psicopatogene dei disagi – la follia di guerra
è il luogo dove un certo stile alienistico tradisce la propria usura
– gli psichiatri civili e militari italiani, probabilmente in virtù
dell’ancora vigorosa matrice antropologico-lombrosiana (17) che
sprona alla ricerca delle stigmate morfologiche degenerative, si
mostrano più cauti dei colleghi stranieri rispetto alle novità
morbose, ancorando il proprio intervento alla consolidata tradizione
biologico-organicista affermatasi nel Regno dopo il 1870 ad imitazione
del modello scientifico tedesco.
Una
figura come quella di Rivers, per segnalare il caso di uno studioso
d’avanguardia menzionato da Linden, è inimmaginabile tra le file
dell’intellighenzia nostrana. E tuttavia, il richiamo ai
consolidati paradigmi della disciplina non può essere confuso per
sinonimo di arretratezza. In contrappasso, la relativa attenzione
prestata al tema delle nevrosi è rimpiazzata da una più acuta
sensibilità analitica verso quei casi di militari alienati non per
forza protagonisti, in prima persona, dei combattimenti. Associare
automaticamente il disagio mentale alla guerra guerreggiata, e alla
passata presenza del paziente nelle trincee tra assalti, fuoco di
mitragliatrici e bombardamenti, è limitazione di campo dello sguardo
psichiatrico (e storiografico…) a cui i medici italiani sanno in
larga misura sfuggire, come provano la saggistica e le fonti storiche
manicomiali.
Alla
luce di questa realtà analitica, anzi, è opportuno ribadire una
messa in guardia interpretativa. Pur a detrimento degli aspetti
narrativi-letterari più affascinanti, nei termini storiografici
l’acritica trasposizione alle vicende locali delle interpretazioni
prodotte investigando il caso britannico – si pensi alla canonizzata
lettura leediana – minaccia più di complicare che di favorire il
lavoro di comprensione degli studiosi.
Secondo
tratto. La premura palesata, soprattutto dopo il primo semestre
bellico, dai medici britannici verso le dimensioni della soggettività
e dell’autonomia dei combattenti ricoverati, è atteggiamento senza
equivalenti in Italia. A prescindere da singole eccezioni, negli asili
del Regno la titubanza verso i modelli psicopatogeni e la diffidenza
riservata alle teorie psicoanalitiche, fiaccano alla radice la
possibilità di una relazione psichiatra/folle (presunto) meno
sbilanciata a favore del primo.
Tornando
alla documentazione archivistica asilare, è arduo rinvenirvi tracce o
segni di un’attenzione medica che sopravanzi le più consolidate
prassi fissate ad inizio ‘900. La questione di un eventuale
consenso, per quanto indiretto, del paziente proletario ai percorsi
terapeutici, è estranea all’orizzonte di pensiero dei clinici
italiani. Da questo punto di vista, le sfide morbose espresse dal
conflitto intaccano solo superficialmente lo iato culturale e
classista che separa il soldato manicomializzato dal suo medico. Sulla
scorta di un sincretismo politico/scientifico ancora da decifrare nei
risvolti problematici, è allora legittimo chiedersi se non sia il
diverso peso della tradizione liberale tra Italia e Regno Unito, con
la sua proclamata attenzione ai diritti del singolo individuo, a
originare questa decisiva differenza nei rispettivi habitus psichiatrici.
Un
terzo tratto caratteristico del quadro italiano, per fili nemmeno
troppo sottili ricollegabile al precedente, rinvia all’ossessione
mostrata dalle autorità militari e sanitarie di Roma per la
simulazione della follia. Un assillo influente sia nel patrocinare
atteggiamenti di radicale incomprensione verso i vissuti drammatici
dei pazienti, sia nell’esacerbare l’inclinazione degli psichiatri
a risolvere i casi diagnostici controversi con misure punitive
preventive.
Di
questa spiccata attitudine difensiva – figlia a pieno titolo, alla
confluenza di medicina e politica, dei timori sociali paventati
dall’antropologia criminale lombrosiana, e della consapevolezza
governativa circa la lacunosa nazionalizzazione delle masse dopo i
delusi intendimenti post-risorgimentali – si registrano rari esempi
nel contesto britannico, per quanto pur esso non scevro di tentazioni
repressive.
Con
un giudizio sorprendente per gli studiosi degli avvenimenti nostrani,
sul tema Linden è lapidaria: in Inghilterra «durante la guerra né
le autorità militari né tanto meno quelle politiche prestarono molta
attenzione» al tema della simulazione (p. 88), adottando identica
condotta nella contrastata questione dei disertori (pp. 208-209), in
ciò emulati – a differenza degli alleati italiani – dai sanitari
della nemica Germania, al di là delle diverse letture cliniche del
fenomeno.
Rispetto
a quella anglosassone – quarto brevissimo tratto – la psichiatria
bellica italiana si mostra dissonante pure nella disposizione ad
inquadrare nelle strutture sanitarie personale apicale femminile. Se
non mancano casi, di recente riscoperti (18), di dottoresse reclutate
nei ruoli speciali della Croce Rossa quali ufficiali medici durante il
conflitto, l’ambito psichiatrico-asilare non brilla per le aperture
professionali di genere, relegando la presenza femminile solitamente
alla componente infermieristica. Sporadici sono gli episodi come
quello di Cremona del 1915, con l’impiego delle prime infermiere in
un comparto maschile del manicomio provinciale (19). Mentre
altrettanto raro risulta l’itinerario di Maria Del Rio, che dopo la
laurea in medicina a Genova con Arturo Morselli, è chiamata nelle
vesti di neuropsichiatra a sopperire all’arruolamento di tre
colleghi presso i reparti femminili del San Lazzaro di Reggio Emilia
(20).
Infine,
è opportuno non trascurare un quinto tratto che differenzia in forme
non effimere l’esperienza psichiatrica italiana da quella
anglosassone così come brillantemente ricostruita da Stefanie Linden.
La
rilevanza politica, sociale e morale attribuita dai governi di Londra
al fenomeno dei folli di guerra, si carica già alla fine del 1914 di
una dimensione pubblica mai rasentata di qua dalle Alpi. Ad un ceto
dirigente britannico solerte nel «riconoscere il problema delle
malattie mentali causate dal conflitto», e promotore il 20 aprile
1915 di «un progetto di legge (Mental Treatment Bill)»
indirizzato ad «agevolare il trattamento precoce di disturbi mentali
causati da ferite, traumi e altri fattori» (p. 60), fa contrasto una
governo romano avanzato solo a parole nello sforzo normativo e
impacciato nella progettualità sanitaria, e tuttavia rigoroso nel
guardare agli scemi di guerra con malcelata avversione in
ideale accordo con la propria classe sanitaria.
La
distinzione medico-legale tra causa ed occasione di servizio, «fatto
etiologico richiesto» dal lavoro militare la prima, circostanza «in
nesso casuale con la malattia» (21) la seconda, fa dei folli di
guerra, per gli psichiatri, una sorta di profezia naturalistica
autoavveratasi.
Tra
Roma e Udine, le capitali politica dello Stato e simbolica del Paese
in guerra, sono voci marginali quelle tese a contraddire una lettura
del fenomeno più preoccupato di liquidare socialmente il materiale
umano in difetto, che di comprenderlo ed assisterlo.
Una
lettura strumentalmente fatalistica – il combattente impazzito come
individuo tarato destinato ad ammattire comunque per vizi ereditari,
solo più velocemente disvelato nell’incompletezza biologica dalla
guerra – utile a servire, al minimo, un quadruplice scopo.
Giustificare
a priori le scarse risorse finanziarie e professionali
investite nelle istituzioni deputate alla cura di pazzi ritenuti
predisposti alla perdita della ragione. Depurare l’esperienza
militare da attribuzioni causali rispetto all’insorgere dei traumi,
misconoscendone il ruolo di virtuale fattore patogeno. Incanalare la
questione delle pensioni di guerra lungo un binario
burocratico-amministrativo ostico, pregiudizialmente sfavorevole al
riconoscimento delle prevedibili rivendicazioni postbelliche dei
pazienti e dei loro familiari. Ratificare, attraverso lo stigma della
segregazione manicomiale, la cappa di totale invisibilità sociale
calata allora su migliaia di uomini dall’esistenza mutilata, e della
cui memoria pubblica s’era perduta inescusabilmente traccia
storiografica fino ai pionieristici studi degli anni ‘80 di Antonio
Gibelli, Bruna Bianchi, Paolo Giovannini e Paola Nicola (22).
Anche
con un occhio all’esperienza italiana, dunque, il pregevole volume
di Stefanie Linden, completato nella miglior tradizione editoriale
britannica da dettagliati indici, si dimostra opera destinata a
segnare una tappa importante per i futuri itinerari di ricerca.
NOTE
(1) S. Linden, La guerra dei nervi. Soldati traumatizzati sul
fronte occidentale, 1914-1918, Napoli, Guida, 2021. Con un saggio
introduttivo di A. Gibelli.
(2) In merito a tale
inclinazione, diffusa tra gli analisti culturali, rimando alle
riflessioni di S.
Stewart-Steinberg, L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922.
La costruzione di una complessa modernità, Roma, Elliot 2011, p.
41.
(3) A.
Zweig, S. Freud, Lettere sullo sfondo di una tragedia
(1927-1939), a cura di D. Meghnagi, Venezia, Marsilio 2001, pp. 161. Lettera del 31
maggio 1936.
(4)
A. Scartabellati, Esistenze mutilate. La storia
senza riscatto dei folli di guerra, in N. Labanca, a cura di, Guerra
e disabilità. Mutilati e invalidi italiani e primo conflitto
mondiale, Milano, Unicopli
2016, p. 77 e seg. Il volume, celebre, di E.J.
Leed è Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità
personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985.
(5) E. Fachinelli, Su Freud, Milano, Adelphi, 2012, p. 71.
(6) A. Scartabellati, Esistenze mutilate, op. cit., pp.
82-83.
(7) A. Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia
militare, Milano, Treves, 1917.
(8)
D. de Fazio, I nomi
della follia. Premesse per un’indagine storica sulla terminologia
della psichiatria in Italia, “Zeitschrift
für romanische Philologie”, vol. 131, n. 2, pp. 483-510.
(9) J.M. Charcot, Isterismo, in Trattato di medicina,
Torino, Utet, 1897, vol. VI, pp. 477-536; inoltre, G. Didi-Huberman, L’invenzione dell'isteria. Charcot e
l’iconografia fotografica della Salpêtrière, Bologna, Marietti
1820, 2020.
(10)
M. Coddens, La théorie
de l’hérédité-dégénérescence. Morel, Lombroso, Magnan et les autres,
in “L’en-je lacanien”, n. 2, 2016, pp. 123-49.
(11) E. Engstrom,
Clinical Psychiatry in Imperial Germany. A History of Psychiatric
Practice, Ithaca, Cornell University Press, 2003 e M.
Lengwiller, Psychiatry Beyond the Asylum. The Origins of
German Military Psychiatry Before World War I, in “History of
Psychiatry”, 14/1, 2003, pp. 41-62.
(12)
Vedi il capitolo 3°, “W.H.R. Rivers, the English Freud”, di J.
Foster, L. Cameron, Freud
in Cambridge, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, pp.
57-99.
(13) L.
Alzheimer, La guerra e i
nervi, a cura di M. Borri,
Pisa, ETS, 2015, p. 43 e p. 60.
(14) Vedi I.
Quaranta, a cura di, Antropologia Medica. I testi
fondamentali, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006.
(15) Per un’introduzione al
tema, vedi M. Pandolfi, Le
self, le corps, la “crise de la présence”, in
“Anthropologie et Sociétés”, vol. 17, 1993, pp. 59-64.
(16) S. Manente, A. Scartabellati, Gli psichiatri alla guerra.
Organizzazione militare e servizio bellico, 1911-1919, in A.
Scartabellati, a cura di, Dalle trincee al manicomio.
Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande
guerra, Torino, Marco Valerio, 2008, pp. 98-99.
(17) A. Scartabellati, L’esplorazione castrense degli
psichiatri italiani: discontinuità o continuità della Grande
guerra?, in “Rivista
Sperimentale di Freniatria”, n. 2, 2005, pp.149-68; Idem,
Culture
psichiatriche & cultura nazionale. Per una storia sociale
(1909-1929), in
“Frenis Zero. Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e
Creatività”, n. 5, a. III, gennaio 2006; M.
Romano, Soldati e neuropsichiatria nell’Italia della
Grande guerra, Firenze, Firenze University Press, 2020, p. 36 e
seg.
(18)
E. Branca, Appunti di
studio. Dottoresse al fronte? La
C.R.I. e le donne medico nella Grande guerra. Anna Dado Saffiotti e le
altre, Torino, Associazione
Nazionale della Sanità Militare Italiana, Sezione provinciale di
Torino “Alessandro Riberi”, 2015.
(19)
G. Amadei, L’assistenza
femminile in un comparto del Manicomio Provinciale di Cremona, in
“Rivista Sperimentale di Freniatria”, vol. XLI, 1915, pp. 635-36.
(20) M. Azzolini, Donne tra guerra e follia. L’esperienza di
Maria del Rio a Reggio Emilia, in A.
Scartabellati, a cura di, Dalle trincee al manicomio, op.
cit., pp. 331-47.
(21) G. Funaioli, Riassunti delle lezioni di medicina legale
militare, Firenze, Scuola della Sanità Militare, a.s. 1923-1924,
pp. 45-47.
(22)
Mi limito a ricordare solo i primi contributi di un filone
storiografico, al giorno d’oggi, ormai corposo e rilevante sul piano
internazionale: A. Gibelli,
Guerra e follia. Potere psichiatrico e patologia del rifiuto nella
grande guerra, in “Movimento operaio e socialista”, n. 4,
1980, pp. 441-64; B. Bianchi,
Predisposizione, commozione o emozione? Natura e terapia delle
neuropsicosi di guerra (1915-1918), in “Movimento operaio e
socialista”, n.3, 1983, pp. 383-410; P.
Giovannini, La psichiatria italiana e la Grande guerra.
Ideologia e terapia psichiatrica alle prese con la nuova realtà
bellica, in “Sanità Scienza e Storia”, n.1, 1987, pp. 111-52;
P. Nicola, Snidare
l’anormale: psichiatria e masse combattenti nella Prima guerra
mondiale, in “Rivista di storia contemporanea”, n.1, 1987, pp.
59-84.
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