Gian Cesare Marchesi

Il "countertrade" e le sue tecniche

Guida agli scambi in compensazione

Capitolo quinto (prima parte)


5.0.0 - La compensazione in Italia

5.1.0 - Premesse

La tendenza di molti paesi ad attuare forme più o meno accentuate di protezionismo, miranti a salvaguardare le proprie economie dalle ripercussioni negative derivanti dai vari fenomeni recessivi ha portato, come si è visto, il commercio internazionale a dover affrontare situazioni ogni giorno più difficili ed imprevedibili.

Di fronte alle altalene dei sistemi monetari, al susseguirsi di crisi energetiche dagli sviluppi incontrollabili ed all'incancrenirsi delle posizioni debitorie di molti Stati il sogno della libera circolazione delle merci e della eterna multilateralità degli scambi ha dovuto lasciare il passo al risorgere di barriere doganali ed a muraglie protezionistiche che si innalzano ogni giorno di più, lasciando sempre minori spazi ad una competitività di tipo tradizionale basata sulla qualità e sul prezzo dei prodotti, nonchè sulla libera iniziativa dei singoli operatori.

Contingentamenti, licenze o divieti all'importazione, imposizione di scambi compensati, barriere tariffarie e vincoli di ogni genere costituiscono ormai una costante alla quale non si sottraggono più neppure quei paesi che, da tempo, sono strenui difensori del più ortodosso liberalismo commerciale.

Contenere al massimo le importazioni e sviluppare, con tutti i mezzi, le esportazioni sembra essere diventato il motto di tutti quei mercati che non riescono a gestire adeguatamente le proprie risorse ed a contenere i disavanzi delle loro bilance valutarie con misure correttive interne. La conseguenza più appariscente, scaturita da questo groviglio di situazioni, è che è diventato pressochè impossibile continuare ad operare verso taluni paesi in via di sviluppo, se non attraverso forme di esasperato funambulismo mercantile/valutario.

La stessa concezione canonica del marketing internazionale, inteso come attività di promozione e penetrazione commerciale in un certo mercato da attuarsi attraverso un insieme coordinato di azioni strategiche che sollecitano, scovano, gestiscono e mantengono viva la domanda del prodotto, viene sempre più spesso sconvolta dalla necessità di dover inserire, preventivamente, un'azione di marketing all'acquisto.

In sostanza, su talune aree commerciali si può vendere solo se si è anche in grado di acquistare o, comunque, di assicurare l'acquisto di prodotti locali; magari addirittura in misura superiore all'entità delle possibili vendite.

Senza quindi voler dare ulteriore spazio a quelle forme di protezionismo di cui si è parlato in precedenza, si tratta di studiare ed attuare una migliore razionalizzazione dei flussi importativi a beneficio di uno sviluppo delle nostre esportazioni verso i mercati più difficili e, altrimenti, irraggiungibili.

D'altro canto, se osserviamo la realtà quotidiana, rileviamo come spesso la maggioranza dell'opinione pubblica italiana si renda conto dell'esistenza di una realtà-import quando viene a conoscenza dei dati sui saldi della nostra bilancia commerciale e scopre che se il prezzo del barile di petrolio scende al di sotto di certi livelli possiamo sperare in un bilanciamento delle posizioni o, addirittura, in un saldo positivo degli scambi con l'estero. Oppure, ancora, quando il consumatore trova sulla propria tavola agrumi provenienti da Israele, fichi secchi turchi o marmellate australiane, tutti prodotti cioè che si chiede come non debbano essere esclusivamente di origine italiana. E ciò, beninteso, solo per citare qualche caso elementare.

In realtà, per un paese trasformatore e carente di materie prime quale è il nostro, le importazioni costituiscono una componente di primo piano.

Nel clima di multilateralismo degli scambi che ha caratterizzato i decenni passati, l'attenzione degli osservatori si è sempre più soffermata sui problemi dell'esportazione e lo stesso termine "interscambio" è diventato - in senso chiaramente limitativo- quasi sinonimo di "vendite all'estero".

La maggioranza dei convegni, studi, seminari, ecc. si sono svolti sul tema dell'esportazione, quasi ignorando che il "commercio estero" nel nostro paese è formato da due componenti che, quando ci va bene, si equivalgono: gli acquisti dall'estero e le esportazioni. L'armonizzazione delle due funzioni dovrebbe essere un motivo di maggior interesse per l'intera collettività.

Certamente presso gli enti che gestiscono le importazioni in forma più diretta, siano essi importatori-utilizzatori od importatori-commercianti, e quindi sensibili ed attenti alle problematiche del settore, non si nota questo apparente disinteresse al problema, ma sinora le esperienze e gli interessi che si sono formati nel campo degli approvvigionamenti dall'estero hanno generalmente viaggiato su binari completamente distinti, se non addirittura divergenti, da quelli sui quali marciano le esperienze e gli interessi dell'export.

Capita così, ad esempio, che si acquistino annualmente da taluni paesi in via di sviluppo svariati milioni di dollari di prodotti, pagati in valuta, e che -per contro- non si possano più vendere a quegli stessi paesi i nostri tradizionali beni industriali in quanto mancano le sufficienti garanzie di incasso dei crediti. Tutto ciò principalmente perchè coloro che curano l'importazione delle "commodities" non sono generalmente interessati alla produzione ed alla vendita di beni industriali, e viceversa.

Se su un piano più esteso gli interessi e le esperienze di chi importa sono distinti da quelli di chi esporta, in settori particolari dell'attività più strettamente industriale si ritrovano talvolta
situazioni che rendono possibile un'immediata correlazione fra gli acquisti e le vendite nei confronti dell'estero. Questo caso si presenta ogni qualvolta un'impresa utilizza nel proprio processo industriale materie prime, semilavorati o componenti acquistati presso la stessa controparte (azienda o paese) alla quale sono stati venduti, o si venderanno, i prodotti finiti.

La circostanza, come già osservato in precedenza, non è sempre conseguenza di un'imposizione di "buy back" o di "offset" originata dal cliente estero, bensì può derivare da una precisa valutazione di convenienza economica che rende possibile, da una parte, acquisire un mercato di sbocco e, dall'altra, diminuire i costi di produzione e migliorare la competitività del prodotto finale.

Questa situazione è realizzabile soltanto nei limiti della capacità e della convenienza della specifica azienda industriale di portare a termine l'iniziativa e trova un più ampio spazio operativo in presenza di un conglomerato industriale che consenta ad una fabbrica di utilizzare certi beni d'importazione e, ad una seconda fabbrica dello stesso gruppo, di vendere i propri prodotti al medesimo paese estero.

Al di là delle particolari circostanze sopra esemplificate, la ricerca delle possibili sinergie fra le due funzioni dell'interscambio richiede interventi ben più ampi e di non sempre facile realizzazione, in quanto coinvolge o realtà industriali meno disponibili al semplice utilizzo "in house" del prodotto esistente in quello specifico mercato estero, od organizzazioni commerciali nettamente differenziate sul piano degli interessi merceologici.

Si deve pertanto stabilire a priori chi fa che cosa e quindi cercare di coinvolgere le parti nella ricerca di un comune interesse che le possa legare assieme.

Gli interrogativi che si pongono per cercare di impostare una utile armonizzazione fra le due funzioni sono sostanzialmente pochi:

- che cosa e da dove si importa, o si potrebbe importare,
- chi importa,
- come e da chi vengono utilizzati i beni importati,
e, per contro:
- che cosa si esporta
- chi esporta,
- dove si esporta, o si potrebbe esportare.

Si tratta quindi di valutare i dati raccolti alla luce anche delle abitudini e delle regole che governano l'interscambio di taluni prodotti, in particolare, per quanto riguarda le materie prime, i prodotti energetici, le grandi "commodities", nonchè dei vincoli comunitari ed extra-comunitari che, a vari livelli, limitano la libera trasferibilità di molte merci.

Infine occorre individuare le modalità e le componenti più idonee per dar corso ad una intelligente utilizzazione dell'interscambio, senza peraltro sconfinare verso forme di protezionismo di tipo coercitivo.

La sede più naturale nella quale dovrebbe nascere e svilupparsi buona parte delle azioni più sopra illustrate, risiedererebbe nella "trading company ", cioè in quella particolare struttura commerciale che, collocandosi in una posizione mediana fra la produzione ed il consumo, è in grado di assicurare, all'uno ed all'altro, maggiore economicità degli approvvigionamenti e migliore assistenza nella commercializzazione dei prodotti.

Per poter far ciò dovrebbe però esistere nel nostro paese un sistema di trading analogo, quanto a magnitudine, a quello giapponese, adeguatamente dimensionato, quindi, a gestire un così ampio spettro di interessi e di volumi d'affari in modo strutturalmente omogeneo. La stessa Trading Company che, per sua propria specializzazione merceologica e geografica, è interessata ad esportare un certo gruppo di beni verso una determinata area, dovrebbe poter essere messa in grado di curare gli acquisti, da quella stessa area, di altri beni (che potrebbero anche non aver nulla a che fare con i primi) da fornire agli utilizzatori nazionali.

Purtroppo nel nostro paese uno schema di carattere generale, così come idealizzato più sopra, è difficilmente attuabile e può persino apparire alquanto utopistico a causa delle diverse realtà in cui si sono sviluppate, nel tempo, le nostre principali esperienze di trading.

Infatti, anche in questo campo la netta distinzione fra l'import e l'export ha interessato pressochè tutti gli operatori, ed oggi riscontriamo l'esistenza di una pluralità di aziende, grandi e piccole, che si occupano generalmente o dell'uno o dell'altro degli aspetti dell'interscambio. Con la sola differenza che, a causa delle solite deformazioni terminologiche imposte dalle mode del momento, vengono oggi comunemente definite trading company quelle aziende che sono prevalentemente "export oriented", mentre restano senza una precisa etichettatura anglo-sassone le aziende commerciali che trattano anche ingenti quantità di prodotti all'importazione.

Gli importatori di petrolio sono così definiti "petrolieri", mentre agli importatori di carne, cereali o di altre commodities viene, ancor più semplicemente, attribuita la qualifica di "commerciante" o di "grossista".

Ma, a parte questa parentesi linguistica, vi è una profonda differenza di esperienze fra le due entità commerciali. Chi è uso importare lana, cacao, legname, zinco o qualsiasi altra merce ne ha assimilato tutto lo scibile. Per contro, questo stesso operatore non conosce pressochè nulla della vendita all'estero di quei beni dell'industria italiana di trasformazione che formano la base dell'esperienza delle "Trading Companies export oriented".

Se pensare di poter giungere un giorno ad una completa fusione delle differenti esperienze può essere considerata mera illusione, non è invece vano cercare di individuare possibili collaborazioni fra i diversi mondi.

In ultima analisi, queste sinergie si possono trasformare anche in concreti vantaggi economici per i due gruppi di operatori. Se, infatti, una diversa canalizzazione dei flussi d'importazione può consentire l'espansione dell'export, non è improbabile che quelle stesse merci estere possano venire a costare meno all'utilizzatore nazionale proprio grazie al vantaggio dato all'azienda che ha potuto esportare di più.

Grafico N. 5


(Andamento nell'anno 1987 dei flussi dell'import/export italiano suddivisi per gruppi di paesi .

Valori in miliardi di lire. Fonte: Rapporto sul commercio estero, ICE, 1987)


5.2.0 - La realtà nazionale

Nelle pagine precedenti si è parlato di compensazioni in termini di origine, casistiche e problematiche, sorvolando temporaneamente sul ruolo che il nostro paese ha svolto, o sta svolgendo, in questo settore particolare dell'interscambio. Per non generare l'impressione che l'Italia sia esclusa da questo tipo di operazioni si sottolinea che anche da noi il countertrade ha avuto alcune sue esperienze che hanno contribuito a mantenere una certa presenza nel settore.

Dalle grandi operazioni condotte da imprese di notevoli proporzioni, agli scambi di "piccolo cabotaggio" finalizzati quasi in sordina da un certo numero di altre aziende, soprattutto di "trading", si ricava l'immagine di un paese che, nonostante le difficoltà obiettive esistenti e di cui si parlerà più diffusamente in seguito, riesce a "restare a galla" ed a mantenere un proprio ruolo nel novero dei paesi che intervengono in questo tipo di operazioni.

Occorre innanzi tutto ricordare che per una loro certa riservatezza, gli operatori italiani sono sempre stati piuttosto restii a diffondere notizie sull'entità e sulla vera natura delle operazioni da loro concluse e che, non esistendo a livello ufficiale precise rilevazioni statistiche sulle transazioni di contropartita finalizzate, non è in alcun modo possibile quantificare con esattezza l'entità del coinvolgimento italiano nel fenomeno.

Se però questa immagine "italiana" esiste a livello di grandi imprese industriali e di strutture commerciali specializzate, si osserva -per contro- ancora un notevole vuoto da parte degli altri settori, costituiti da una miriade di medi e medio-piccoli imprenditori che sono completamente al di fuori da qualsiasi coinvolgimento operativo in materia compensativa.

Tutto ciò è principalmente dovuto alla resistenza espressa da queste fasce nei confronti di una tipologia operativa la cui attuazione, già di per sè stessa difficile, è aggravata anche dall'effetto combinato dei seguenti fattori:

a) insufficiente conoscenza della meccanica operativa,
b) carenze strutturali nel "sistema",
c) limitazioni burocratico-normative.

Ciascuno di questi elementi ha esercitato una propria forza centrifuga nei confronti di uno sviluppo nazionale del countertrade, con il risultato che il nostro paese, per quanto riguarda le piccole e medie imprese (PMI), è praticamente diventato "terra di conquista" degli operatori stranieri che abilmente ne sfruttano le debolezze.

5.2.1 - Conoscenza della meccanica operativa

Anche se da qualche anno, grazie all'azione condotta da talune Associazioni di categoria, dall'I.C.E. e da scuole di formazione, ha cominciato a diffondersi una certa conoscenza propedeutica in materia, la gran parte degli operatori nazionali non si è ancora addentrata nella materia e non ha acquisito gli strumenti idonei ad un più completo approfondimento della tematica ad essa relativa.

Si tratta, in effetti, di una situazione che non sorprende eccessivamente se si considera che per molti imprenditori di casa nostra non solo la compensazione, ma molte tecniche operative riguardanti il commercio estero costituiscono tuttora qualcosa di misterioso dal quale è meglio "stare alla larga", a meno che non si risolvano sottoforma di normali transazioni regolate con crediti documentari irrevocabili e confermati da primarie banche internazionali.

D'altro canto, sfogliando la stampa nazionale più o meno specializzata in materia di interscambio si leggono saltuariamente notizie di cronaca su operazioni compensative, vere o presunte tali, concluse fra questo e quel paese, o si trovano articoli divulgativi che spesso risultano estremamente sintetici e, purtroppo, addirittura palesemente ripetitivi.

Di fronte ad una tale realtà l'operatore che desidera "informarsi" deve ricorrere alla stampa estera che, ovviamente, non tralascia di ricordare le possibilità compensative offerte dalle strutture presenti nei propri paesi e di attirare così, oltr'alpe, la domanda di assistenza proveniente dal nostro paese.

5.2.2 - Carenze strutturali

Al successo dell'interscambio in genere contribuiscono (anche se non sono disponibili precise rilevazioni statistiche in merito) sia le aziende industriali o commerciali di grande dimensione, che quelle di minore importanza, talvolta addirittura costituite da pochi individui ricchi di fantasia e di coraggio, che affrontano con costanza e decisione anche i mercati esteri più lontani.

Mentre però le aziende di maggiori dimensioni ed i grandi gruppi industriali dispongono solitamente di strumenti idonei a garantire il supporto conoscitivo necessario per lo sviluppo del commercio estero, l'impresa minore si trova spesso impreparata ad affrontare situazioni anomale o mutazioni di tendenza del mercato.

Ciò anche perchè i mercati esteri vengono troppo spesso intesi come un'alternativa da esplorare solo in mancanza di una sufficiente domanda interna, e viene denunciata così una carenza di "vocazione" all'export ed una assenza di programmazione strategica a medio-lungo termine.

Quando poi si presenta la necessità di operare nel campo delle compensazioni l'azienda di grandi dimensioni è solitamente in grado di scegliere se gestire l'operazione con proprie strutture o con il supporto esterno degli specialisti di countertrade, mentre l'impresa minore, il più delle volte, non affronta neppure il problema rinunciando a continuare le trattative.

L'insufficiente conoscenza delle problematiche, la diffidenza nei confronti di qualsiasi forma di intermediazione, tipica di un certo mondo imprenditoriale ancora troppo spesso legato all'individualismo ed al "fai-da-te" ed, infine, la carente assistenza delle istituzioni tradizionali, sono fra le cause principali della riluttanza di molte aziende a considerare nella giusta luce gli scambi di contropartita.

Da questo genere di critica non devono ritenersi esentate neppure le aziende commerciali che, fino a pochi anni or sono, sono forse vissute e cresciute in un mondo tutto loro, senza preoccuparsi troppo di diffondere una loro immagine e di mettere a disposizione di un universo più ampio le esperienze acquisite nel corso della loro poliedrica attività (Cfr. i già richiamati atti del convegno: Commercio di transito: un contributo alla nostra economia, ICE/ANCE, Roma, 1983).

In effetti, comunque, a ben guardare nell'interno della struttura nazionale, non è che il "sistema" sia carente di strutture, bensì esistono talune carenze nel "sistema" che possono essere facilmente colmate con una più diffusa informazione e con l'utilizzo di una maggiore sinergia operativa fra le realtà esistenti.

5.2.3 - Limitazioni burocratico-normative

Nel campo degli affari in compensazione si ritrovano tutte le problematiche normative riguardanti in genere il commercio con l'estero di tipo, per così dire, tradizionale ed in più talune disposizioni particolari che comportano ulteriori adempimenti o condizioni pregiudiziali.

Quando poi da una operazione compensativa semplice, che prevede l'importazione in Italia dei prodotti di ritorno, si passa ad una transazione triangolare che comporta la rivendita di tali prodotti su un mercato terzo, intervengono le normative concernenti il commercio di transito che, nonostante le liberalizzazioni recentemente introdotte, non consentono ancora all'operatore nazionale di confrontarsi ad armi pari con la concorrenza estera (Cfr.: Gli operatori commerciali nel processo di internazionalizzazione dell'economia italiana, a cura di C.Secchi, Cescom/F.Angeli, Milano, 1984).

Tutti questi aspetti possono forse giustificare talune scelte che gli operatori italiani si sono trovati spesso costretti ad affrontare trasferendo su Countertraders esteri le incombenze della compensazione.

5.3.0 - Una diversa strategia di marketing

Abbiamo notato come il countertrade si esprima, nella sua attualità pratica, anche quale strumento di pagamento di esportazioni che in presenza di difficoltà valutarie non riescono ad ottenere un regolamento monetario di tipo tradizionale e che l'esportatore, dopo aver visto sfumare tutti i suoi tentativi di ottenere dalla controparte un impegno di pagamento in denaro, o rinuncia a concludere la trattativa o soggiace alla proposta di essere pagato con altre merci.

Schematicamente l'iter seguito abitualmente dall'operatore passa attraverso le seguenti fasi:

1) offerta tecnico-commerciale del proprio prodotto,
2) richiesta di pagamento in valuta,
3) esame delle richieste di regolamento compensativo della controparte,
4) decisione di accettare o meno le richieste di controacquisto.

La compensazione in merci potrebbe rivelarsi vantaggiosa se l'esportatore avesse anche un interesse particolare per le merci proposte in controacquisto, ma nella maggior parte dei casi l'accettazione di questa forma di pagamento rappresenta invece una soluzione forzosa, talvolta addirittura imprevista, dalla quale scaturisce una serie di problemi non indifferenti.

Innanzitutto si pone il quesito di come, da chi e per quale valore sarà possibile far assorbire i prodotti compensativi e, conseguentemente, di valutare i costi dell'operazione. Inoltre rimane il timore che la controparte estera non mantenga fede ai propri impegni e ritardi nella consegna delle merci pattuite o, peggio ancora, non sia neppure nelle condizioni di farlo.

Partendo infatti dall'assunto lapalissiano secondo il quale un paese che gode di sufficienti risorse non necessita di imporre, o comunque di dover escogitare, complesse formule compensative per restare a galla, è sin troppo evidente che i problemi dell'esportatore sopraccitato hanno un solido fondamento ed una non facile soluzione.

5.3.1 - Gli "errori" più comuni

Certamente la scelta del rifiuto aprioristico di accettare pagamenti diversi da quelli monetari e, al limite, qualsiasi forma di pagamento al di fuori del pagamento anticipato in valuta o per mezzo di credito documentario irrevocabile e confermato elimina tutti i problemi compensativi prima ancora del loro insorgere, ma questa strategia è purtroppo praticabile da quelle sole imprese che, beate loro, navigano ancora in acque tranquille, senza dover remare più del solito per mantenere e per creare proprie quote di presenza nei mercati esteri.

Le notizie che coralmente vengono diffuse da più parti denunciano purtroppo in questo periodo una sempre più accentuata perdita di competitività dell'Azienda Italia, in particolare proprio nei confronti di quei mercati che lamentano carenze ormai endemiche di valuta trasferibile.

A ben guardare si tratta pur sempre di mercati che dispongono di materie prime che alimentano anche le nostre industrie, di prodotti alimentari che imbandiscono le nostre mense, di generi d'abbigliamento che troviamo in tutti i grandi magazzini. Sono prodotti che entrano nel nostro paese perchè qualche connazionale li ha acquistati nei mercati d'origine pagandoli in valuta, oppure perchè qualche altro operatore straniero, che li ha ottenuti - magari in compensazione - dal paese d'origine, ce li vende facendosi pagare in valuta.

Dall'Italia esce quindi valuta forte e, finché non ci si sarà pienamente resi conto della necessità di armonizzare meglio i due flussi d'interscambio per favorire le esportazioni facendo leva sulle importazioni, ci saranno sempre coloro che si lamentano perchè le possibilità di ricevere i famosi crediti documentari irrevocabili e confermati diminuiscono ogni giorno di più.

Ecco quindi che la strada del rifiuto aprioristico nei confronti delle formule compensative assume talvolta connotazioni masochistiche, indice di scarsa vocazione estera e di incapacità a gestire un marketing internazionale in linea con la realtà di molti mercati esteri.

Poichè la compensazione non è una novità del commercio internazionale, molte esperienze di oggi si possono ricollegare a quanto avvenuto in tempi, tutto sommato non tanto lontani, e tante domande odierne possono trovare, con le dovute varianti, una risposta nelle soluzioni adottate allora.

Proprio dall'esame, anche retrospettivo, del fenomeno si ricava una considerazione di base: la compensazione, quale strumento alternativo alle forme di pagamento tradizionali, richiede la modifica di alcune strategie di marketing poste in atto sia dalle singole imprese che dall'Azienda Italia nel suo insieme; il primo cambiamento che si impone all'impostazione del marketing aziendale riguarda un più incisivo intervento operativo delle strutture di intermediazione commerciale.

L'abbandono, quindi, di quelle posizioni autarchiche che avevano sinora spinto le industrie nazionali a voler gestire in forma completamente autonoma sia la vendita dei propri prodotti, sia l'acquisto delle materie necessarie ai propri fabbisogni produttivi.

Countertrade significa sostanzialmente scambio di merci, per cui l'attenzione dell'operatore non può più soffermarsi unicamente sulla prima parte della transazione, riguardante l'esportazione, bensì deve anche estendersi (ed in talune circostanze, prima di tutto) alla parte relativa all'acquisizione ed all'utilizzo dei beni da ricevere in pagamento. Nella maggioranza dei casi, però, come abbiamo già visto in precedenza, i beni scambiati non sono fra loro compatibili e nemmeno assimilabili alla stessa famiglia merceologica, per cui l'azienda che esporta non ha alcun interesse ad utilizzare direttamente ciò che dovrebbe ricevere in controacquisto. Per contro, l'importatore che abitualmente utilizza prodotti simili a quelli oggetto del pagamento compensativo è generalmente poco sensibile, se non del tutto estraneo, alle problematiche di chi deve esportare.

S'impone quindi l'intervento di una struttura d'intermediazione commerciale, che attraverso l'accorta gestione dei "margini" economici disponibili, leghi fra loro i due flussi d'interscambio e consenta la conclusione dell'operazione.

5.3.2 - I vantaggi della collaborazione

I benefici derivanti all'industria esportatrice sono a questo punto ovvii, ed altrettanto evidenti risultano quelli dell'azienda importatrice, nei limiti in cui la struttura di prezzo del prodotto esportato permetta all'intermediario di concedere all'importatore un vantaggio sul costo del prodotto importato.

Il grafico che segue chiarirà meglio il concetto sopra esposto.


(L'esempio presuppone che il valore "normale", sia del bene "A"che del bene sia pari a 100)


L'esperienza quotidiana dei mercati internazionali ed in particolare di quelli che richiedono scambi in compensazione presenta, in realtà, problematiche operative che vanno ben al di là della semplice schematizzazione teorica illustrata più sopra: ciònonostante il concetto rimane valido per definire la fattibilità o meno di una qualsiasi operazione compensativa.

In sostanza devono sussistere i seguenti requisiti economici di base:

1) che il valore "normale" del bene "A" permetta all'industria produttrice di destinare una certa percentuale di margine (x) a beneficio della finalizzazione della propria esportazione,
2) che il valore all'origine del bene "B" sia veramente mantenuto nei limiti della "normalità". Questo è un caso che, purtroppo, non si verifica abitualmente,
3) che l'azienda utilizzatrice dei beni compensativi "B" trovi, nel vantaggio (y), un sufficiente incentivo per l'acquisto propostole,
4) che il margine (x-y) rimasto a favore dell'intermediario remuneri sufficientemente il lavoro svolto e copra i rischi dell'operazione rimasti a carico della sua struttura.

Una delle più frequenti difficoltà che nella pratica ostacolano la realizzazione di questo tipo di operazioni consiste proprio nella determinazione del valore che qui abbiamo definito "normale".

E' infatti chiaro che ciascuna delle cinque entità che intervengono nello scambio cercherà di acquisire il massimo dei benefici possibili dalla parte di operazione nella quale risulta coinvolta (in particolare, l'acquirente estero cercherà di spuntare il minor prezzo possibile e l'esportatore estero il massimo vantaggio dalla propria vendita).

Tutto ciò porta ad un altro importante motivo di riflessione, per definire le strategie che devono esere attuate al fine di non vanificare sin dall'inizio la realizzazione dell'operazione.

Tale esame riguarda fondamentalmente tre aspetti, fra loro complementari:
a - la strategia delle vendite,
b - la strategia degli acquisti,
c - l'azione delle strutture d'intermediazione.

5.3.3 - La strategia delle vendite

Come è stato anticipato più sopra, le azioni di penetrazione commerciale nei confronti di mercati che attuano forme di pagamento compensativo devono essere condotte secondo metodologie particolari che, rispetto ai canoni tradizionali, presentano la novità sostanziale della determinazione, tutt'altro che facile, di quell'elemento (x) che costituirà, in ultima analisi, la chiave risolutiva dell'intera iniziativa.

Si potrà obiettare che è già insita nella natura stessa della vendita la tendenza ad ottenere il massimo dei risultati tenendo presente il livello di soglia minima al di sotto del quale la transazione non ha più alcun significato; ma qui il problema di fondo consiste nel fatto che il più delle volte chi vuole esportare sa molto bene cosa vuol vendere e come vendere, ma non sa ancora se e cosa gli potrà essere offerto in cambio. Inoltre, fattore ancora più importante, quale potrà essere il valore "normale"dei beni che gli verranno offerti in pagamento.

Ecco che allora s'impone un'attenzione particolare al prezzo da richiedere alla controparte per il bene da esportare. Come è già stato sottolineato in un precedente capitolo, è ingenuo ritenere che per superare questo imbarazzo basti esprimere un'offerta basata su un semplice prezzo "cash".

Questo è infatti il modo più classico di perdere tempo e denaro in una tentata vendita che ben difficilmente arriverà ad una conclusione. Se infatti si presentasse la necessità di controacquistare altri prodotti differenti, il prezzo "cash" potrebbe anche non risultare sufficiente a contenere il famoso elemento (x) di cui si è parlato più sopra.

Alla tradizionale azione di marketing che conduce all'offerta finale del prodotto deve quindi essere affiancata, sin dall'inizio, una valutazione più accurata del mercato nel quale di vuole operare, per stabilire se, ed in quali termini, potrà essere necessario regolare la transazione con una cessione di altri beni.

In presenza di tale eventualità occorrerà definire, con la massima obiettività, le capacità intrinseche dell'azienda esportatrice di gestire adeguatamente il flusso merceologico di ritorno. In caso di dubbio, il ricorso ad una struttura di intermediazione specializzata in quei prodotti e su quello specifico mercato diventa tassativo.

Solamente dopo aver correttamente valutato i costi, i rischi e le modalità di gestione dei prodotti di ritorno potrà essere determinato l'elemento (x) e, quindi, formulata l'offerta al potenziale cliente.

5.3.4 - La strategia degli acquisti

Ogniqualvolta si sente parlare di paesi che offrono prodotti in compensazione ci si chiede come mai questi beni non vengano semplicemente esitati sul mercato dallo stesso produttore per generare valuta in una logica multilaterale di scambio.

Le ragioni, come abbiamo già avuto modo di vedere, sono molteplici ma, in ultima analisi, la risposta è una sola: il produttore vuole realizzare un prezzo superiore a quello che il mercato sarebbe disposto a pagare per quello specifico bene. Tutte le altre spiegazioni, più o meno complesse, più o meno dotte, riconducono alla fine alla stessa semplice conclusione.

L'impreparazione a gestire un proprio marketing all'esportazione, le eccedenze produttive, l'arretratezza tecnologica, il bisogno di conquistare nuovi mercati, il desiderio di internazionalizzare i cosiddetti non traditional items, ecc., visti nell'ottica del singolo prodotto dimostrano che il rapporto qualità/prezzo è generalmente squilibrato rispetto a quanto il mercato internazionale è in grado realmente di corrispondere in una logica di libera concorrenza.

Il ferro da stiro elettrico offerto in compensazione da un paese dell'Est, privo di cavo di terra, senza termostato graduabile, con un look ed un packaging superati, viene valutato ad un prezzo decisamente superiore a quello di un analogo prodotto fabbricato a Taiwan, ma dotato di tutte le sofisticazioni tecniche e d'immagine che l'esperienza e le astuzie di quell'isola hanno saputo creare. Il cacao di un paese africano, quotato alle borse internazionali con un abbattimento notevole rispetto alle valutazioni delle migliori qualità, viene offerto ad un prezzo pari ai massimi del listino. E così via.

E' la logica del bisogno che spinge questi paesi a realizzare il massimo possibile attraverso l'azione ricattatoria dell'imposizione compensativa. Con il risultato, peraltro scontato, di creare una spirale distorsiva nei prezzi che poi, a conti fatti, riporta la sostanza più o meno all'origine.

Infatti quel cacao dovrà essere collocato sul mercato al suo giusto prezzo ed il paese produttore ne avrà pagato indirettamente la differenza attraverso la maggiorazione di prezzo - il famoso elemento (x) - che gli sarà stata applicata sui prodotti vendutigli.

In questa realtà complessa e, sotto certi profili, ambigua ci si deve muovere per collocare i beni ricevuti in compensazione, con l'ulteriore aggravante che spesso l'operatore si presenta sul mercato come offerente marginale ed, in questa veste, deve scontare il prezzo del biglietto di ingresso. Infatti non dimentichiamo che, soprattutto nel settore delle "grandi commodities" i ruoli sono già da tempo ben definiti e che gli operatori abituali conoscono tutti i meandri del labirinto in cui si muovono.

Quando si presenta sul mercato un nuovo offerente con una partita di merce che, è evidente, si è trovato fra capo e collo per via di un regolamento compensativo, l'Establishment non si lascia sfuggire l'occasione di concludere un buon affare.

Tutto ciò sottolinea che la ricerca di collocamento di prodotti compensativi, dopo la finalizzazione delle intese per l'esportazione del bene principale, si rivela altamente rischiosa e spesso dispersiva.

La metodologia corretta di acquisizione e collocamento dei prodotti compensativi deve partire da uno stadio molto più arretrato; l'ideale sarebbe poter rovesciare completamente lo schema tradizionale sin qui esaminato, riconsiderando il tutto secondo il seguente iter procedurale:

1) esame del paese nel quale si vuole esportare,
2) ricerca dei possibili prodotti da ricevere in controacquisto,
3) ricerca di possibili utilizzatori di tali prodotti,
4) formalizzazione di accordi ben definiti con il paese in questione per la realizzazione dell'operazione,
5) vendita del bene principale.

E', in sostanza, l'attuazione di una strategia d'acquisto di taluni prodotti, finalizzata alla vendita di altri beni, che anticipa - e quindi rende meglio governabili - i problemi che si sono visti in precedenza.

Il punto delicato di questa ipotesi di lavoro consiste nel fatto che l'azienda industriale si troverebbe assolutamente impreparata , da un punto di vista istituzionale, ad affrontare un marketing d'acquisto e di vendita di prodotti quasi certamente molto diversi da quelli abitualmente gestiti. In realtà è un ruolo che non le compete e che chiama in campo una struttura commerciale disposta ad affrontare quel problema in tutta la sua dinamica.

5.3.5 - L'azione delle strutture d'intermediazione

La presenza pressochè costante di un intermediario nel contesto delle operazioni compensative è ormai un fatto acquisito e poche sono le operazioni che, per loro specifica natura, non richiedano questo tipo d'intervento.

Il termine "intermediario" è stato qui inserito nella sua più vasta accezione, comprendendovi sia le strutture commerciali interne di cui un'azienda può disporre (le cosiddette Countertrade units ) che le più complesse organizzazioni esterne (Trading Companies).

Occorre tuttavia osservare che tale intervento assume differenti connotazioni e raggiunge diversi risultati a seconda di quando e di come viene richiesto ed attuato.

Come abbiamo già avuto modo di vedere, nella pratica più corrente quando l'esportatore sta per concludere la propria vendita e si rende conto di non poter adeguatamente gestire il flusso di ritorno interpella l'intermediario, prospettandogli un'operazione che, quasi certamente, è già pregiudicata in partenza. Le risposte che giungono sono infatti quasi sempre di questo tipo:

a) l'operazione non interessa,
oppure:
b) per intervenire nel collocamento dei prodotti compensativi occorre destinare una percentuale che, il più delle volte, è superiore a quel famoso elemento (x) qui ripetutamente citato.

La seconda risposta, apparentemente positiva, in molti casi non lo é affatto, in quanto l'entità della percentuale richiesta (premi di sfioramento, commissioni ed ammennicoli vari) potrebbe non consentire all'esportatore di rimanere entro la sua soglia minima di profitto.

Inoltre, al di là della pura e semplice percentuale richiesta, dovranno essere considerati altri elementi di rischio che potrebbero essere lasciati a carico dell'esportatore.

Infine, fra i malintesi più frequenti, c'è anche quello di ritenere che tutti gli intermediari abbiano, più o meno, lo stesso tipo di esperienza e lo stesso tipo di operatività. La realtà invece indica che la specializzazione per area e per prodotto è particolarmente necessaria e che, in considerazione della vasta gamma di merceologie e di mercati interessanti il countertrade, non è pensabile che ciascuna struttura d'intermediazione sia, da sola, in grado di gestire qualsiasi operazione. L'intermediario, è vero, può a sua volta rivolgersi ad altri operatori di sua conoscenza per ricercare forme di collaborazione orizzontali, ma questo non riduce certamente l'entità della percentuale di cui si è parlato più sopra.

Tutto ciò riporta quindi, ancora una volta, il discorso a quanto detto in premessa: è importante che il ricorso all'intermediazione non derivi da un'incapacità operativa dell'esportatore riscontrata a giochi già fatti, bensì dalla consapevolezza che gli scambi in compensazione comportano una serie di ostacoli che si possono agevolmente superare se esiste, sin dall'inizio, una sinergia operativa fra le varie figure imprenditoriali.

D'altro canto il "commercio" non necessariamente sta alla finestra in attesa che qualcuno lo interpelli per una collaborazione operativa ed anzi, nel campo della compensazione, svolge spesso un'azione promotrice diretta, i cui effetti non possono che ripercuotersi favorevolmente sull'industria esportatrice.

Al di là delle operazioni di contropartita che potremmo definire di piccolo cabotaggio, il ruolo più significativo delle aziende specializzate nel "trading" viene svolto, in campo compensativo, con l'organizzazione di più complesse operazioni che creano , attraverso l'acquisizione preventiva di fonti di approvvigionamento alternative, le disponibilità valutarie estere necessarie a ripagare le esportazioni delle industrie nazionali.

Un esempio, fra gli altri, è quello abbastanza recente dell'acquisto di petrolio per risanare le posizioni debitorie di alcuni paesi medio-orientali e permettere la ripresa delle esportazioni italiane verso quelle aree.

Le Trading Companies che organizzano questi tipi di operazioni partono proprio dalla ricerca preventiva di ciò che può essere acquistato in un certo paese e gestibile in forma compensativa. Quindi valutano e stabiliscono un plafond entro il quale si può operare, determinando anche le modalità e le condizioni per la concreta realizzazione dell'iniziativa.

A questo punto, fissata la linea di credito ed i relativi requisiti per il suo utilizzo, non sarà difficile ottenere l'interesse delle aziende esportatrici che hanno in corso trattative di vendita con quel paese e rivitalizzare così pratiche che avevano ormai quasi completamente perduto la speranza di essere portate a compimento.

Certamente queste iniziative, che da un certo punto di vista ricordano i conti di clearing di non antica memoria, non sono nè di facile, nè di immediata realizzazione e richiedono un notevole lavoro di ricerca, di negoziazione, di coordinamento e di "follow-up". E' peraltro un esercizio nel quale le società di trading riescono ad esprimere tutta la loro inventiva, la loro esperienza e la loro capacità di adattamento alle varie circostanze che il commercio internazionale quotidianamente presenta.

Sommario
del volume
Profilo
Capitolo
primo
Capitolo
secondo
Capitolo
terzo
Capitolo
quarto/1
Capitolo
quarto/2
Capitolo
quinto/1
Capitolo
quinto/2
App. n. 1
App. n. 2
App. n. 3
App. n. 4
Bibliografia
Indirizzi
utili
Indice
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