è
più grande di noi, la
peste. È più forte di qualsiasi nemico in carne ed ossa che abbiamo
incontrato, più potente di qualsiasi supereroe mai evocato nella
nostra immaginazione e nei film.(…) Una sconfitta mondiale. Come nei
giorni della “spagnola”. (…) ma come possiamo perdere? Dopo
tutto siamo l’umanità del 21 secolo!
Siamo progrediti, computerizzati, armati di mezzi di
distruzione innumerevoli, protetti con antibiotici, immunizzati…
Eppure, qualcosa su di essa, su questa peste dice che le regole del
gioco questa volta sono diverse da quelle a cui eravamo abituati, a
tal punto che, in realtà, si può dire per ora che non ci sono
regole.
(David
Grossman, Marzo 2020)
Devo
confessare di aver letto con un certo ritardo questo libro dello
psicoanalista genovese Cosimo Schinaia, con cui peraltro nel corso di
questo anno "pandemico" ho intensificato molto i miei
contatti per l'uscita di suoi originali contributi, riguardanti sia i
cambiamenti climatici sia le trasformazioni
della pratica analitica a seguito del "lockdown", tanto
nella rivista on-line di psicoanalisi Frenis Zero sia in libri
editi dall'omonima casa editrice. L'esergo di Grossman enfatizza non
poco quel cambiamento di "regole del gioco" che in
psicoanalisi, in tempi ordinari, verrebbe derubricato come
"modifiche del setting". Il merito di questo libro
"L'inconscio e l'ambiente" è invece quello di sottolineare
sin dall'inizio l'atteggiamento di chi, come l'autore, nonostante i
tanti anni di pratica non solo analitica ma anche istituzionale come
direttore di servizi psichiatrici, riconosce che tanto ancora resta da
conoscere, tale è l'impresa della psicoanalisi in una crisi globale
dei fondamenti della nostra civiltà (se non della stessa
sopravvivenza del genere umano) che allo stato attuale non si può far
altro che trarre ispirazione dal concetto di "Capacità
Negativa" di Bion (1970).
<<Bion,
parla della capacità
negativa, mettendo in esergo dell’ultimo capitolo di Attenzione
e interpretazione l’estratto della lettera del poeta inglese
John Keats, ai fratelli George e Thomas il 21 dicembre 1817 su
“la
qualità essenziale dell’Uomo dell’Effettività”.
La
capacità negativa viene definita come:
“Quella
capacità che un uomo possiede di perseverare nelle incertezze
attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a un’agitata
ricerca di fatti e ragioni” (Bion, 1970, p. 169).
Questa
“capacità negativa” consente di tollerare le deviazioni, i
cambiamenti dei punti di vista, gli andirivieni nella ricerca di
soluzioni terapeutiche adeguate e risolutive, restando se stessi e
rendendo ancora più vivo nelle persone il desiderio di comprendere
senza a tutti i costi riempire uno spazio per sentire e per pensare>>
(Schinaia, 2020).
Questa
premessa non deve però scoraggiare il lettore dato che la
struttura ed i contenuti del libro sono quanto di più organico ed
esaustivo si possa desiderare in un campo così innovativo e per molti
versi pionieristico come quello del dialogo tra psicoanalisi e
tematiche ecologiche. Nel 2019 l'autore aveva già scritto due
importanti contributi su tali questioni: aveva rilasciato
un'intervista allo psicoanalista greco Malidelis (2019), e
pubblicato un articolo sull'International Journal of Psychoanalysis
dal titolo "Respect for the environment: Psychoanalytic
reflections on the ecological crisi". Il libro è strutturato in
nove capitoli, più una prefazione dell'analista Lorena Preta, ed una
postfazione del meteorologo Luca Mercalli. La bibliografia che
conclude il volume è quanto di più ricco e documentato un lettore,
non solo italiano, possa desiderare di ricevere dato che non solo
contiene una aggiornata letteratura internazionale ma anche di
provenienza italiana, spesso proveniente da case editrici piccole e
non molto pubblicizzate. Il nocciolo, come in altri libri dello stesso
autore, sta nel far dialogare autori ed opere della letteratura del
"mainstream" psicoanalitico internazionale, della comunità
scientifica a livello mondiale (con un prezioso excursus nel primo
capitolo delle principali tappe di opposizione ai cambiamenti
climatici e di ciò che la comunità scientifica ha definitivamente
assodato su di essi), con una personale interpretazione, non solo di
matrice psicoanalitica, ma anche antropologica, filosofica e storica,
frutto di un impegno civile motivato da un "ambientalismo aperto,
non discriminante, non evacuativo" e dal "l'idea di un
modello produttivo di per sé non nocivo, dovunque si fosse
situato" (p.119). Prende efficacemente egli le distanze da un
ecologismo "duro e puro" a cui peraltro dedica un paragrafo
nel settimo capitolo, quello forse più ricco di suggestioni
provenienti dalla letteratura psicoanalitica contemporanea, memore di
una personale esperienza autobiografica. Schinaia, nato e vissuto
nell'infanzia a Taranto prima dell'nsediamento della grande industria
siderurgica, ha assistito in prima persona allo shock di una realtà
urbana, culturale ed ambientale trasformata ma anche violentata
dall'impatto dello stabilimento più grande d'Europa, quello che un
tempo si chiamava Italsider ed ora ILVA. Ma il suo percorso
professionale e di vita ha voluto che egli vivesse la sua carriera di
psichiatra e di psicoanalista a Genova, dove la stessa azienda ha un
altro stabilimento. A Genova nel 2006 una serie di manifestazioni di
protesta, in cui le donne hanno avuto un peso prevalente, ha indotto i
manager dell'azienda ILVA a spostare le produzioni inquinanti da
Genova a Taranto: un Nord più organizzato e che conta politicamente
di più che per l'ennesima volta "scarica" le fasi più
indesiderate dell'attività produttiva in un Sud
"pattumiera" dove il ricatto "lavoro vs. ambiente"
trova condizioni sociali e politiche meno in grado di negoziare e di
rilanciare. Questo evento ha generato in Schinaia un comprensibile
conflitto interiore che egli ha saputo poi gestire e rilanciare in un
rinnovato impegno ecologico.
A
mio avviso il capitolo terzo, quello dell'evoluzione della riflessione
psicoanalitica sulle tematiche ecologiche tra XX e XXI secolo è
quello centrale del libro: in esso è impressionante la mole di
letteratura che l'autore è riuscito a sintetizzare, fornendone
un'originale elaborazione personale. Tutto parte dal pionieristico
libro di Searles (1960) «L’ambiente
non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia », dove
«l’ambiente non umano » viene
inteso come il passaggio (step)
posto oltre l’intrapsichico e l’interpersonale (Kassouf, 2017).
Come scrisse profeticamente Searles:
Durante
gli ultimi sessant’anni circa l’attenzione della psichiatria si è
gradualnente allargata da un’iniziale preoccupazione per i processi
intrapsichici (dati in particolare dalla lotta dell’individuo con
gli sforzi tra loro in conflitto tra l’Es, l’Io ed
il Super-io) alla comprensione dai fattori interpersonali e di quelli
più ampi di natura socio-antropologica. Sembrerebbe allora che una
naturale fase successiva consista in un ampliamento del nostro focus
ancora oltre, andando a comprendere anche le relazioni dell’uomo con
il suo ambiente non umano
(Searles,
1960).
Le
considerazioni di Searles costituiscono un ampliamento delle
intuizioni di Winnicott (si veda l’opera del 1965 «Non esiste
l’infante») sulla fusione del bambino con la madre (ambiente umano)
in quanto “ambiente facilitante” e di “SET-UP
umano-ambientale”, sottolineando Searles come nel mondo le cose
abbiano una risonanza psichica. Il mondo vegetale, gli animali,
le strutture architettoniche, gli utensili domestici e l’arredamento
giocano un ruolo parimenti determinante nel modellare l’ambiente
affettivo e quello sociale per lo sviluppo psichico, specie
nell’infanzia”
(Schinaia, 2019,
“Respect
for the environment: Psychoanalytic reflections on the ecological
crisis”, International
Journal of Psycho-Analysis, 100 (2), pp.272-286.).
Sebbene secondo Searles i pazienti psicotici siano incapaci di
distinguere se stessi dall’ambiente circostante, una psiche sana si
considera differenziata ma anche in relazione col contesto non umano.
Per
‘colleganza (relatedness)
intendo, da un lato, un senso
di intima affinità, concomitante psicologicamente all’affinità
strutturale … esistente tra l’uomo ed i vari ingredienti del suo
ambiente non umano, un’affinità strutturale in termini di
fisiologia, anatomia, struttura atomica e così via ma anche
un’affinità riguardo alla storia evolutiva del genere umano e del
suo destino biologico (l’ineluttabile destino del nostro corpo
fisico che diventa parte dell’ambiente non umano dopo la morte) (Searles,
1960).
I benefici del senso di ‘colleganza’ possono essere così
schematizzati :
« 1)
alleviamento di diversi stati emotivi penosi e carichi di angoscia ;
2)
contributo all’autorealizzazione ;
3)
rafforzamento del senso di realtà ;
4)
stimolo al riconoscimento e all’accettazione dei propri simili »
(Searles, 1960)
E
ancora:
Il
senso di colleganza
(relatedness) … allevia la
paura della morte.
Aiuta [l’uomo] anche nel trovare un senso di pace, di stabilità, di
continuità e di certezza. Infine … controbilancia sentimenti di
svalutazione e di insignificanza (Searles, 1960).
Come scrive Susan Kassouf (2017): «Searles usa il termine “colleganza”
per indicare una sorta di legame di parità tra uguali, tra alleati o
affini, su cui non possiamo fare a meno di prestare attenzione.
L’accettazione di questa sfida implicita di Searles potrebbe essere
resa meglio dalla parola “incorporazione ”
(embeddedness) in grado di cogliere
l’estrema dipendenza in cui esistono gli esseri umani, con
tutte le sue connotazioni infantili e mortali di grembo, culla e
tomba? L’incorporazione
umana nell’ambiente non umano (in contrapposizione alla colleganza)
non può essere negata né evitata. Essa mantiene un senso di
separazione e di agentività (agency), e può essere ignorata solo al prezzo di una grande
dissonanza cognitiva e psicologica» (Kassouf,
2017).
Allo
stesso modo degli psicoanalisti degli anni 70 e 80 i quali, alle prese
coi “disastri per mano dell’uomo” (come i genocidi) (Bohleber, 2015),
dovettero integrare il ruolo di clinico con quello di “testimone”,
lottando contro le molte forme di negazionismo che si diffusero nel XX
secolo, la psicoanalisi del XXI secolo deve misurarsi coi rischi di
una catastrofe ecologica, denunciando ogni possibile negazionismo in
questo ambito.
Dodici
anni dopo aver pubblicato il suo pionieristico libro
sull’”ambiente non umano” Searles (1972,
in italiano in Controtransfert,
1984) lamentava che continuasse «la mancanza di letteratura
psicoanalitica su questo tema», nonostante il fatto che «la crisi
ecologica sia la più grande minaccia che il genere umano abbia mai
dovuto affrontare collettivamente»: «noi psicoanalisti dobbiamo dare
qualche contributo reale … nell’approcciarsi alla crisi ecologica»
(Searles, 1972). Nel suo libro
del 1960 egli riconosceva che una tale scotomizzazione potesse
dipendere da qualche sorta di ansietà radicata nella psiche
infantile.
A
mio parere molto del nostro ritardo nel nostro giungere, nella
professione psicoanalitica, ad un riconoscimento dell’importanza
dell’ambiente non umano è attribuibile alla circostanza che
qualsiasi sforzo determinato a penetrare questa area
suscita in noi quel tipo di ansietà che, ipotizzo, abbiamo
tutti conosciuto da bambini, quando il mondo intorno a noi sembrava,
molto spesso, costituito in gran parte o interamente di elementi non
umani caoticamente incontrollabili
(Searles,
1960).
Inoltre,
Searles criticava i suoi colleghi analisti i quali, invece di essere
interessati al problema, reagivano alla loro apparente “apatia”
diagnosticando ai loro pazienti, preoccupati per la crisi ecologica,
una sofferenza da “depressione psicotica, o schizofrenia paranoidea”
(Searles, 1972, p.362). Come acutamente scrive Schinaia «(…) egli
asserisce che la generale apatia che si può osservare nell’umanità
in relazione allla crisi ecologica si basa largamente su difese
inconsce dell’Io contro vari tipi di ansietà che si manifestano a
vari livelli in relazione allo sviluppo dell’Io individuale. La
nostra relazione coll’ambiente è intrisa di ambivalenza e di
distruttività, e delle difese dell’Io che oscillano tra la
dipendenza ed il controllo, tra la sottomissione e lo sfruttamento,
tra l’invidia e la gratitudine (…)» come scrive Schinaia (2019),
il cui articolo
sull'International Journal of Psychoanalysis raccomando per
un’approfondita discussione dei meccanismi psicodinamici coinvolti.
Sintetizzandoli, come fa Schinaia nel libro "L'inconscio e
l'ambiente" possiamo classificarli in tre gruppi :
a)
1)
Difese dell’Io che hanno a che fare coi livelli fallico e edipico
dello sviluppo: esse possono essere concepite, riprendendo
l’articolo del 1972 di Searles, come
“L’odio
inconscio per le generazioni successive, per la nostra progenie e per
la progenie della nostra progenie, la vendicativa determinazione a
distruggere il loro diritto di vivere mediante un atteggiamento di
noncuranza, per vendicarci delle privazioni che abbiamo subito dai
genitori in ogni periodo dello sviluppo, comprende e va oltre il
conflitto edipico”(p.175 dell’edizione italiana 1984).
b)
2)
Difese dell’Io connesse con la posizione depressiva della Klein:
«L’inquinamento
non serve soltanto a precludere un futuro alla progenie che
inconsciamente odiamo e invidiamo, ma anche a mettere in ombra un
passato che, inconsciamente, evitiamo di ricordare con limpida
chiarezza. Paragoniamo il mondo idealizzato dell’infanzia, perduto
per sempre, con un ambiente incontaminato. Tendiamo, erroneamente, a
dare per scontato che non si può fare niente per l’attuale
inquinamento dell’ambiente a causa della disperazione, profondamente
falsa, di sapere che non possiamo ritrovare il mondo dell’infanzia,
e che, per di più, idealizziamo retrospettivamente le privazioni e
gli altri aspetti spaventosi. L’inquinamento serve a mantenere in
noi l’illusione che l’infanzia incorrotta e ideale è ancora là,
ancora raggiungibile, se soltanto potessimo darci da fare ed eliminare
ciò che ne rovina e oscura la purezza. In questo senso, le sostanze
inquinanti raffigurano, inconsciamente, le vestigia del passato a cui
ci teniamo stretti, distorsioni transferali che pervadono il nostro
attuale ambiente, proteggendoci dall’avvvertire l’amarezza delle
perdite del passato ma impedendoci, per la stessa ragione, di vivere
pienamente nella realtà attuale. Possiamo sentire, non che abbiamo
perso il mondo dell’infanzia, ma che, onnipotenti, lo abbiamo
rovinato e scegliamo di continuare a rovinarlo sempre più
inquinandolo »(Searles, 1972, trad ital 1984, p.176).
c)
3)
Difese dell’Io correlate con la posizione paranoide :
«Il
mondo sempre più estesamente inquinato in cui viviamo (…) viene
vissuto come il nemico che tutto pervade. Ciò tende a paralizzarci in
una terrorizzata inattività, a maggior ragione perché in questa
modalità profondamente regressiva di esperienza non siamo affatto ben
differenziati dall’ambiente, quindi non abbiamo un Sé chiaramente
separato con cui intraprendere la lotta contro la minaccia esterna. A
questo livello di funzionnamento primitivo dell’Io non c’è
differenziazione tr auna buona e una cattiva madre. […] LA NATURA
E’ STATA SPESSO UNA CATTIVA MADRE PER L’UOMO, spesso si è resa
ospitale per lui soltanto mediante l’attività della nostra
madre buona, LA TECNOLOGIA. Adesso ci viene detto che la nostra madre
buona ci sta avvelenando e che, se non la teniamo a freno e non
riportiamo la natura alla sua primigenia condizione di libertà, siamo
perduti. Abbiamo venerato la tecnologia e il prodotto nazionale lordo
annuale che ne simboleggia lo sviluppo, come una sorta di divinità, e
adesso apprendiamo confusamente che finiremo per affamare questa
divinità per salvare noi stessi »(Searles, 1972, ediz ital
1984, pp.178-179).
Degna
di nota è quindi la conclusione di Searles (1972) :
«Nel
periodo che viviamo oggi siamo di fronte all’alternativa di salvare
il mondo reale oppure di usarlo come strumento per
l’autodistruzione. Penso che il pericolo maggiore non risieda né
nella bomba all’idrogeno, né nell’effetto più lentamente letale
dell’inquinamento che deriva dal complesso della tecnologia. Il
pericolo maggiore risiede nel fatto che il mondo si trova in una
condizione tale da risvegliare la nostra reale angoscia primitiva e,
nello stesso tempo, da offrire la delirante ‘promessa’, questa
davvero mortale, di alleviare tali angosce, di affrontarle,
cancellandole attraverso la completa esteriorizzazione e reificazione
dei conflitti primitivi che le producono. La spinta a diventare
onnipotentemente liberi dal conflitto umano ci mette nel pericolo di
diventare causa della nostra estinzione» (Searles, 1972, ediz
ital p.182).
E
l’atteggiamento preveggente di indignazione di Searles nei confronti
di chiunque, non solo i colleghi, negasse qualsiasi interesse per i
problemi ambientali mi ricorda un’altra analista che negli stessi
anni lavorava con le vittime di tortura provenienti dalla dittatura
argentina: Silvia Amati Sas (1977). Nel 1985 scrisse un articolo il
cui titolo è “Mega-morti, unità di misura o metafora? (Perché
accettiamo l’inaccettabile)” (Amati Sas, 1985 in
«Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale»,
pagg.50-51, 2019).
Secondo la psicoanalista italo-argentina
la creazione scientifica di traumi e di situazioni estreme allo scopo
di manipolare gli esseri
umani è tipica della nostra civiltà. Tale manipolazione può essere
compresa per mezzo del concetto di Bleger di “vincolo simbiotico”
(Bleger, 1967). Quindi quando siamo manipolati ciò significa
che qualcuno ci porta indietro verso la nostra insicurezza primaria o
ci offre una sicurezza disturbante (come quella offerta dalle bombe
atomiche) portandoci a misurarci con un dilemma, una falsa scelta che
non possiamo elaborare, discriminare o valutare da soli.
Franco Fornari (1964)
fu un altro psicoanalista illuminato ad esplorare la psicoanalisi
della guerra nucleare «in cui, egli affermava,
“la necessità per ogni uomo che possa essere considerato
normale di trovarsi in qualche modo coinvolto nella colpa e nella
responsabilità per la possibile distruzione di tutta l’umanità, e
sottolineava, tra gli altri sentimenti, quelli di colpa inconscia, che
si può ancora trovare in relazione al danno ecologico, ma che può
essere negata e proiettata altri
che sono ritenuti responsabili»
(Schinaia, 2019).
A
proposito di
negazionismo ecologico vale la pena di riportare un passo di un'opera
pionieristica del XXI secolo: «Mentre
i meccanismi di difesa, come erano stati concepiti da Freud, erano
visti come difese contro desideri, esperienze o pensieri
incompatibili e potevano mettersi in relazione con le norme
sociali o culturali, gli psicologi sociali contemporanei hanno
applicato tale comprensione a ciò che minaccia l’auto-stima e
l’identità. (…) Come suggeriscono Stoll-Kleemann, O’Riordan e
Jaeger (2001), le difese possono anche insorgere in risposta a più
ampie minacce ed ansietà socioculturali, ma possono anche essere
forme collettive di difesa come il diniego o il disconoscimento» (Lertzman,
2015). Sally Weintrobe (2013), curatrice del libro pionieristico Engaging
with Climate Change: Psychoanalysis and Interdisciplinary Perspectives,
delinea tre forme di diniego: negazionismo (denialism),
negazione (negation) e
disconoscimento (disavowal).
Il negazionismo scaturisce dal diniego, il quale consiste in un
meccanismo di difesa che fornisce «un mezzo per eludere la rimozione
nella forma del tipo “Dico questo [ciò che è rimosso]e non lo
dico” ; o, più propriamente, “è vero e non è vero”» (Litowitz,
in Leo, 2011). Il negazionismo viene definito da Diethelm e
McKee (2009) «l’impiego di argomenti retorici per dare
un’apparenza di legittimazione ad un dibattito quando invece non ce
n’è alcuno, un approccio che ha lo scopo ultimo di respingere una
proposizione su cui esiste un consenso scientifico» (Diethelm,
McKee, 2009).
La negazione è un’affermazione per cui un fatto non è un
fatto, per cui qualcosa che è non è. Ciò può accadere «quando ci
si sveglia e si leggono i titoli sugli incendi in California o su
mostruose uragani con inondazioni di proporzioni bibliche o su
temperature sopra i 40 centigradi e si pensa “Questo non può star
accadendo”» (Haseley,
2019).
Il disconoscimento implica il
conoscere e il non conoscere allo stesso tempo, «rappresenta
una scissione verticale nell’Io di fronte alla percezione della
realtà: “Lo vedo e non lo vedo”» (Litowitz,
in
Leo, 2011).
Si tratta di un meccanismo di difesa molto diffuso,
frequentemente impiegato da noi e dai nostri pazienti. «Si ha quando
qualcosa di disturbante, che è conosciuto, viene minimizzato; nel
nostro lavoro clinico si può manifestare come una versione di “Sì,
ma”. Possiamo vedere tale fenomeno in un recente articolo del N Y Times contenente dei grafici
tratti dalle interviste effettuate nell’ambito dello “Yale
Program on Climate Change Communication” (Popovich, et al. 2017). I
risultati affermavano che sebbene la grande maggioranza delle persone
sapessero che il cambiamento climatico è qualcosa che sta accadendo e
la maggior parte sia d’accordo che esso stia danneggiando le persone
negli Stati Uniti, i più non credono
che esso li danneggerà in prima persona» (Haseley, 2019).
Un
bel proverbio dei nativi americani viene posto in esergo da Schinaia
per trattare il tema della trasmissione transgenerazionale delle
preoccupazioni o dei dinieghi sulla crisi ecologica:
Non
ereditiamo la Terra dai nostri avi;
la
prendiamo a prestito dai nostri figli.
Nostro
è il dovere di restituirgliela.
Quello
che la psicoanalisi ha maggiormente studiato è la trasmissione
transgenerazionale dei traumi, specie di quelli collettivi (come i
genocidi). La difficoltà nello studio delle questioni di quale mondo
intendiamo lasciare alle generazioni future e di quali dinieghi siamo
responsabili in questa trasmissione, a mio avviso dipende da fattori
che la psicoanalisi ha solo in parte teorizzato, fattori che implicano
un'estensione del suo dominio esplicativo verso i fenomeni sociali, e
non solo nella direzione di quelli intrapsichici ed intersoggettivi.
I
mutamenti massivi, a cui fa riferimento Kaës
(in Leo, 2010), come l’industrializzazione
e l’urbanizzazione, le due guerre mondiali (e la terza che è stata
la guerra fredda), i genocidi che hanno aperto e chiuso il secolo e di
cui la Shoah è stato il tragico paradigma, i nuovi grandi flussi
migratori mondiali, l’espansione delle tecnologie e le mutazioni
dell’ecologia, tutte queste sono delle fratture irreversibili che
hanno messo una parte dell’umanità di fronte alla fragilità delle
strutture sociali e culturali su cui si fonda la permanenza di una
civiltà, se non della stessa specie umana. Tali fratture possono
condurre ad una crisi di quelle istituzioni (garanti metasociali come
li chiama Kaës, mutuando il termine dal sociologo Alain Touraine) che
assicurano un certo condiviso sentimento di fiducia nella convivenza
sociale, nelle intermediazioni tra interessi di gruppi e di classi
diverse, nel potere normativo della legge (miti e ideologie, credenze
e religione, autorità e gerarchia) che costituiscono la cornice e lo
sfondo dei ‘garanti metapsichici’. Questi ultimi sono costituiti
per Kaës dalle interdizioni fondamentali e dalle leggi strutturanti,
dai riferimenti per le identificazioni e dalle rappresentazioni
immaginarie e simboliche, dalle alleanze, dai patti e dai contratti
che garantiscono al contempo le basi per l’organizzazione della
psiche e le condizioni intersoggettive su cui essa riposa. Anche il
crollo delle credenze e delle grandi narrazioni che fornivano quei
punti di riferimento identificatori necessari alla stabilità sociale
e psichica sono stati studiati, ad es. da Serres (Serres, M., 2003),
nell’ambito degli studi sul postmoderno. Ma nell' ambito della
riflessione psicoanalitica sulla crisi ecologica la trasmissione tra
le generazioni può riguardare anche il denegare non solo la questione
di quale mondo vogliamo restituire alle generazioni future ma anche di
quali di questi disconoscimenti possono essere ad esse trasmessi.
Scrive Schinaia in L’inconscio e l’ambiente (Schinaia, 2020, p.15):
Insieme
alla bellezza, vanno valorizzati il benessere psicofisico e, ancora,
il futuro dei nostri figli e nipoti, evitando che modalità
denegatorie, fossilizzazioni psichiche, incistamenti, oggi ampiamenti
presenti nello psichico, possano depositarsi e riprodursi nello
psichico delle generazioni future, riproducendo i gravi danni che
infliggono all’ambiente, come un’ipoteca dell’antenato nei
confronti della discendenza. Nella trasmissione tra le generazioni
avviene un processo di identificazione che condensa una storia che in
gran parte non appartiene alle generazioni future. Sottraendo
valore al contratto che lega ciascuno all’insieme e l’insieme a
ciascuno, noi alla terra e la terra a noi, trasmettiamo i sintomi, i
meccanismi di difesa, l’organizzazione delle relazioni oggettuali, i
significanti, in cui si articolano forme e processi della realtà
psichica del singolo soggetto con le forme e i processi che si
costituiscono nei legami intersoggettivi e, più in generale, nel
rapporto con l’ambiente (Kaes et al., Trasmissione della vita psichica tra generazioni, 1993).
Gustavo
Zagrebelsky, un costituzionalista, adotta una bella metafora,
riportata da Schinaia nel suo libro, della responsabilità che abbiamo
nei confronti delle generazioni future, metafora degna di uno
psicoanalista:
Le
generazioni successive non hanno
diritti da vantare nei confronti delle precedenti, ma queste hanno dei
doveri nei confronti di quelle; esattamente come la condizione della
madre, nei confronti del bambino quando lo porta in grembo. Anche in
questo caso, se si parla di diritto alla vita del concepito
s’intende precisamente i doveri della gestante. […] La
responsabilità nei confronti di chi verrà dopo di noi non è
disgiunta da come noi conduciamo la nostra esistenza. Se violentiamo
la natura, rendiamo la Terra infeconda e invivibile, distruggiamo
la specie dei viventi, riduciamo l’umanità a masse passive,
incolte, manipolate e manipolabili, facciamo il male prima di tutto a
noi stessi. […]. Presente e futuro sono inestricabilmente legati.
[…] Il compito dei viventi è di preservare le condizioni della vita
biologica e della sua libertà. Per loro stessi innanzitutto e, quindi
anche per i loro figli, e poi i figli per loro stessi e per i loro
figli, senza fine e interruzioni (Zagrebelsky, Diritti
per forza, 2017, citato da Schinaia, 2020, p.21).
Una
bella immagine che adotta Luc Magnenat nel libro da lui curato “La
crise environnementale sur le divan” è quella del ruolo di
“passeurs” transgenerazionali a cui siamo chiamati.
Si
tratta di tutelare in questa trasmissione transgenerazionale il valore
dei beni comuni che sono:
I
beni necessari alla trasmissione e alla sopravvivenza della vita degli
esseri umani; in genere gli elementi inorganici e organici che
costituiscono la biosfera, senza i quali gli esseri viventi sarebbero
privi della possibilità di sopravvivere: aria, acqua e mare, terra
fertile, cibo, flora e fauna (Zagrebelsky,
2017, cit. da Schinaia, 2020, p.24).
E
quindi, in conclusione di questa recensione, mi sembra altamente
significativa questa citazione di Schinaia (2020, p.24), che
mi sembra sintetizzare lo spirito dell'intero libro.
«Prendersi
cura del ‘bene comune’ vuol dire sostenere con forza il nesso
primario tra paesaggio ed ambiente, evitare lo sfruttamento eccessivo
e non regolato delle risorse, nonché riconoscere i bisogni comuni con
altre specie e forme di vita, animali, piante, minerali, con cui
condividere empaticamente e in equilibrio le risorse del paneta senza
colonizzazioni antropocentriche, prendendo atto dell’irriducibilità
del non umano all’umano, della sua autonomia» (Schinaia, 2020,
p.24).
Condividere
empaticamente e rispettare l'irriducibilità del non umano,
"embededness" e "relatedness": sono questi i due
poli su cui una visione ecologica moderna, che accetta le sfide del
XXI secolo, ma anche informata psicoanaliticamente deve misurarsi per
incidere nelle pratiche e nell'impegno sociale e politico. Questo
messaggio di incoraggiamento a non sentirsi impotenti di fronte a un
problema "più grande di noi" (Hanna Segal) mi sembra il
lascito più encomiabile che il libro di Schinaia lascia alle
coscienze di noi tutti.
BIBLIOGRAFIA
BION, W. R. (1970), Attenzione
e interpretazione. Trad.
it. Roma: Armando, 1973.
BOHLEBER,
W. (2015), "Civilization, Man-Made Disaster, and Collective
Memory”, in Psychoanalysis, Collective
Traumas, and Memory,
a cura di Giuseppe Leo, Frenis Zero, Lecce.
Diethelm, P., McKee,
M. (2009), “Denialism: what is it and how should scientists respond?”,
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