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Cap. IXGran lanciatura di don Giovanni. - Dove hai preso
il denaro per far questo ? - domandò impensierito il giovane al suo socio, dopo
che ebbe visitato il palazzo e osservato il nuovo aspetto che aveva assunto. - Credito. - Come sarebbe a
dire ? - Credito. Non
credete al credito? Sareste voi il solo a non accordarne a voi stesso?
L'eloquenza dei fatti vi dimostra che avete torto. Il credito è l'anima del
commercio, il commercio è l'anima della vita civile, quindi io, dando a credere
quei che gli altri vogliono credere, contribuisco alla civiltà del mondo. A
ogni modo vi giuro che non ho rubato, né ho istinti rubatorii. - E come faremo a
pagare ? - Con nuovo credito. E' uno scrigno
senza fondo, un tesoro inesauribile. - Ma il credito
senza fondamento, che finisce col non assolvere i suoi impegni, è una forma di
furto. - Voi
bestemmiate. Prima di tutto non è detto che gl'impegni non debbano essere
assolti. Secondo, che il fondamento c'è, e doppio: il vostro fascino e la mia
eloquenza. Perché un fabbricante di salami, per esempio, o un venditore di
concime possono, secondo il vostro ragionamento, essere più solvibili di noi?
Che cosa hanno a base del loro traffico? Vile carne di maiale, spesso mescolata
con carne d'asino e d'altre bestie, e vilissimo concime, ammettiamo anche non
sofisticato. E ciò, a sentir voi, varrebbe più dell'eleganza, della bellezza e
della virilità d'un gentiluomo, nonché della divina fiamma dell'ingegno e
della parola d' un letterato e filosofo quale io mi sono? State tranquillo,
prendo ogni cosa a mio carico. A voi non si domandano che due atti di condiscendenza:
continuare, almeno per un po' di tempo ancora, a concedere i vostri favori a
Estrella; e intervenire alla prossima festa floreale sul Guadalquivir. Erano
due favori che non costavano troppo al nostro eroe, anzi
secondavano l’uno il suo istinto fisico e l’altro quello
morale; diciamo quello morale perché egli sperava - e il Maggiordomo
gli aveva fin da principio fatto sperare - che in luoghi pubblici, in occasioni
di feste di molto richiamo, egli avrebbe più facilmente incontrato la bella incognita
dei suoi pensieri. Ma tutto ciò non
era che realtà, o meglio intenzioni reali parziali, e cioè quanto era
riservata all'opinione di Estrella prima, di don Giovanni poi. C'era, sotto,
l’intenzione più efficiente e nascosta, ed era quella del Maggiordomo, alias,
letterato e filosofo. Difficile ci
sarebbe penetrarla, se egli stessoa non ce ne offrisse il mezzo con la sua
vantata eloquenza, che non si manifestava soltanto in colloqui e in operazioni
palesi destinati a catechizzare e convincere gli altri, ma anche in soliloqui,
dei quali il fecondo oratore faceva uso nelle importanti occasioni per
catechizzarsi e convincersi da sé. - L'avventura - si diceva egli -
sarebbe alquanto meschina se, dopo tanto chiasso iniziale, dovesse limitarsi
alla conquista della figlia di un oste, salita di grado, se vogliamo, e ricca
abbastanza, divenuta una consorella dell'etèra Aspasia, della cortigiana
Tullia d'Aragona; ma, per quanto si voglia ornarla di titoli aulici, gratta,
gratta rimane quella che i dizionari chiamano «donna che per mercede fa copia
altrui del proprio corpo». Con noi è nobilitata dal fatto di non richieder
mercede, anzi... Ma e con ciò?
Dal punto di vista morale, noi che cosa ci guadagnamo? II mio giovane padrone ha
avuto il lampo geniale di cacciarsi nell'avventura; ma senza un programma...
perché programma non può chiamarsi l’intenzione di cercare i suoi genitori,
né quello di ritrovare la sua incognita. Tocca a me correggere i difetti della
gioventù, organizzare un modo di vivere, trarre profitto dalle situazioni
favorevoli. Noi dobbiamo continuare a tenerci in buona la munifica Estrella,
almeno a titolo di interessi sugli anticipi apprestatici, ma riscattarci dalla
sua tutela, riacquistare la nostra indipendenza per mettere in valore il nostro
prestigio. Bisogna, per, ottenere ciò, iniziare in pieno la nostra attività,
di cui l’episodio Estrella non è stato che il prologo. E iniziarla come? Con
un nuovo colpo pubblicitario, di cui può benissimo offrirci il destro questa
prossima grande festa dell'Assunzione che richiamerà sul fiume e lungo le
rive del fiume tutta Siviglia e dintorni. Don Giovanni deve mettersi in vetrina
e prestarsi alla gara fra le migliori offerenti. Naturalmente, per
salvaguardare i suoi scrupoli che minacciano d'inceppare un poco l’opera
mia, con lui bisognerà agire coi maggiori riguardi, toccare con le molle la sua
suscettibilità idealistica e presentargli soltanto una superficie color di
rosa. In pochi mesi, gioco la mia testa che ci saremo fatta una posizione di
prim'ordine e che finiremo con lo sposare la più ricca ereditiera d'Andalusia,
chissà, forse anche la stessa di cui siamo innamorati senza saperne il nome.
Quanto al babbo e alla mamma, è questione di secondaria importanza. Così avrò
fatto la fortuna di di questo pupillo regalatomi dalla sorte, e quanto a me...
Quanto a me, mi accontenterò di assicurarmi una buona e ben fornita cantina, più
soddisfacente di quella della nostra ospite, dove maestro Blasco, mi consente di
attingere con soverchia parsimonia... Eh no, dopo quello che abbiamo fatto per
la felicità della sua padrona, io non dovevo essere trattato col semplice
vinello da dozzina, e misurato per giunta, riservato al servidorame, mentre egli
tiene tutti per sé ì fondi delle bottiglie di marca avanzati dalla tavola
padronale. Eh no! basta con le umiliazioni! I preparativi per l’intervento alla
festa fluviale furono da Estrella affidati al Maggiordomo, con sensibile
dispetto di Blasco che si vide detronizzato da una delle sue funzioni di maestro
di casa. Ma l'idea era stata del Maggiordomo, il quale si era anche rivelato
persona di buon gusto e dava affidamento per le sue vantate qualità
filosofiche e letterarie; ed Estrella sapeva a tempo e luogo essere giudiziosa
ed equanime. Bisogna riconoscere che infatti la festa segnò un trionfo per la barca
addobbata dal nostro sapiente e quindi per don Giovanni ed Estrella. II sole non era
ancora tramontato, quando il bel Guadalquivir cominciò a formicolare d'imbarcazioni,
tutte, anche quelle da nolo, pavesate e infiorate. Ve ne erano di modeste, in
cui la vivacità e l’allegria degli equipaggi compensava la mediocrità
dell'addobbo. Altre invece ostentavano tappeti e arazzi che toccavano 1'acqua, e
festoni di fiori su cui le gocce spruzzate dei remi scintillavano come diamanti.
Ciascuna portava almeno un suonatore di chitarra o di mandolino; ma ce n'erano
di quelle che contenevano una vera orchestrina, di violini, pifferi, nacchere e
tamburelli. Da qualcuna si cantava a solisti e coro, in un alternarsi di
canzoni nuove in cui si sbizzarrivano gli estri di poeti e musicisti
popolareschi. All' arrivo del marchese de Guimera, il governatore, insieme con
la moglie, nella tribuna della riva destra, ove dovevano presiedere la giuria
per 1' assegnazione dei premi alle barche più artistiche, e alle vincitrici
delle gare di voga, squillarono le fanfare militari e il pubblico che assisteva
dalle rive o che partecipava alle regate scoppiò in applausi chiassosi. Ci fu una prima
corsa di barche da pescatori, disadorne, grosse e pesanti, che si svolse tra i
lazzi e i fischi degli spettatori. Non era ancora finita quando si vide arrivare
un battello che richiamò l'attenzione di tutti. Aveva esso le
leggiadre forme di un candido cigno, che dava l’illusione di nuotare perché
non se ne distinguevano i remi, nascosti dalle ali un po' dischiuse, in atto
pieno di grazia. Sul collo elegantemente arcuato portava collane di rari
fiori, camelie e gardenie, e al becco, per redini, nastri d'oro che dalla poppa
una vezzosissima dama sfarzosamente vestita reggeva in atto di molle indolenza.
Accanto a lei sedeva un giovine gentiluomo elegantissimo, dal viso serio e un
po' pallido sotto un gran cappello magnificamente impennacchiato. Dinanzi a loro
quattro rematori in lussuose livree azzurre gallonate d'argento e a prua cinque
musici, uno dei quali - anziano e rubicondo - dirigeva le battute, e un cantore
che con chiara voce tenorile lanciava le originali note di una cobbola d'amore. Ardo y lloro sin
sossiego, y llorando y
ardiendo tanto que ni el llanto
apaga el fuego, ni
el fuego consuma el llanto. Dalle
imbarcazioni più prossime fra le quali
il battello avanzava, dalla riva dove s'innalzava la tribuna del governatone e
più stipata di spettatori, molti riconobbero la dama e conseguentemente il
cavaliere che l'accompagnava: più di uno, o meglio più di una, ricordarono di
averlo anzi visto uscire da un palazzo famoso, circa un mese prima, e sparire
subito dopo, involato in una portantina. - Guarda, è lei
! - No, è lui! - Estrella ! - Don Giovanni ! - Estrella ....
Estrella ..., ella .... ella .. - Don Giovanni...
don Giovanni.., anni.., anni... Si ripeté il
fenomeno acustico e telepatico al quale abbiamo già assistito all'arrivo del
nostro eroe sulla scena di Siviglia: in meno di trenta secondi più di
ventimila persone sapevano che egli era tornato a offrirsi al pubblico,
ventimila bocche lo nominavano e ventimila dita si puntavano verso il cigno che
lo portava, in compagnia della fortunata collezionatrice d'illustri amatori. Tosto, il centro
dello spettacolo e della festa, che fino a pochi momenti prima era stata la
tribuna del Governatore, con le dame e i cicisbei che la occupavano, si spostò
in quella parte del fiume dove il cigno bianco scorreva, lento e maestoso, quasi
pago di offrirsi all'ammirazione della folla. Ammirazione che si dibatteva tra
opposti sentimenti forse in ciascuno degli astanti, perché le donne che se ne
andavano in estasi a guardare don Giovanni provavano contemporaneamente uggia
e dispetto contro la sua compagna, mentre gli uomini che si ringalluzzivano
dinanzi alla desiderabilissima Estrella, si cuocevano il fegato a vedere tanti
segni d'omaggio femminile per l'avventurato giovane. La storia non registra il nome di
colei che osò per prima rivolgere i saluti floreali all'eroe delle supreme
galanterie: certo è che a un tratto un fiore, gittato con grazia da una gondola
verso il cigno, cadde mollemente sul grembo di don Giovanni. Il cigno, per mano
di Estrella, ricambiò l'omaggio: e questo fu il segnale della pioggia di fiori
che subito si iniziò da un'imbarcazione all'altra, con particolare riguardo
per quella dei due amanti. Alle ultime luci del vespero effondentisi dalla gran
cupola del cielo che pareva di smalto, i colori e le forme sbiadivano come in
sogno; ma occhi accesi da quella grande potenza della vita che è l'amore e più
ancora il desiderio d'amore, continuavano a cogliere lo spettacolo affascinante
del bel cavaliere accanto alla sua eletta. Le onde, divenute color d'argento,
del bel Guadalquivir, scorrevano lente, trascinando seco petali e corolle cadute
come desideri e illusioni, con un lene murmure voluttuoso. Ad un dato
momento, simultaneamente sei torce si accesero sul Cigno: parve che don Giovanni
e la
sua compagna, cinti da una corona di fiamme, realizzassero l'antico mito di
Dionisio e Arianna, deità della gioia vitale. Il fuoco, moltiplicato dai
riflessi dell'acqua, li portava ardendo senza bruciare simbolico anch'esso. L'entusiasmo non
conobbe più limiti: applausi scoppiarono dalle imbarcazioni e dalle rive.
Perfino la compassata tribuna governatoriale applaudì. Una discussione
animata nacque fra i membri della giuria, per l’aggiudicazione del primo
premio alle barche meglio addobbate. Alcuni proponevano senz'altro di secondare
il voto espresso dalla folla, assegnandolo al Cigno; ma altri, i più puritani,
legati alla rigida etichetta dell'aristocrazia spagnuola, osservarono che non si
poteva premiare un battello occupato da una signora dalla posizione sociale non
perfettamente corretta. La questione fu risolta dalla governatoressa, presidente
della giuria: - Il battello è
occupato da un cavaliere, che certo ne è il proprietario. I nostri premi sono
destinati all'addobbo dei battelli: la dama che si trova su quello che per
voce generale è il più elegante e ben messo, fa parte dell'addobbo. Quindi il
primo premio é ben dato. Quando fu l'ora
della distribuzione dei premi, e il Cigno si accostò alla riva e venne sotto il
palchetto del governatore, il nostro eroe trasalì sentendo la voce della
governatoressa chiamarlo : - Don Giovanni
Tenorio. Si alzò, montò su una traversina
del battello e levò le mani per prendere la coroncina di fiori d'argento che la
nobilissima dama gli porgeva, accompagnata dal più fausto dei sorrisi e da una
frase cordiale: - Bene assegnato
il nostro premio. E' il primo saluto che vi dà la città dei vostri padri,
conte. La città dei
suoi padri! Ormai non c'erano più dubbi: egli era consacrato in faccia a tutti.
Anche lui poteva convincersi di chiamarsi don Giovanni Tenorio dei conti di
Marana. Cap. XVita privata di don Giovanni. Mentiremmo se
sostenessimo che nella infatuazione di Estrella per il giovane don Giovanni
non entrasse in buona parte la vanagloria: sentimento che aveva subito una
scossa all'accorgersi che l’uomo da lei conquistato a preferenza di tante
altre era un novellino in amore, e sull'idendità del quale molti dubbi potevano
fondarsi. Ma questa scossa e questi dubbi venivano compensati dal successivo
manifestarsi d'un sentimento più intimo, qual’era l'attaccamento per un
amante ben diverso da quelli a cui essa nella sua carriera aveva dovuto
adattarsi, e cioè giovane, avvenente e interessante. Ecco però che il grande successo
alla festa fluviale veniva a rinfocolare l’intiepida vanagloria: spesso le
donne si appassionano più con la testa che col cuore e coi sensi, organi che
qualunque uomo può più facilmente appagare - l'amore per orgoglio e per amor
proprio è il più tenace, ed è comune assai più che non si creda. Estrella, in
cospetto all'amante celebre, festeggiato, collocato dalla gloria al vertice
della mascolinità di Siviglia, si rassegnò definitivamente alla sua parte
secondaria, a non rappresentare nel connubio da lei voluto ed ora più che mai
necessario a questa nuova fase della sua vita, che la compagna disposta a tutto
concedere pur di non rischiare la soluzione più deprecabile, che sarebbe stata
quella di vedere l'amante, stanco, volar via verso nuovi legami che la fortuna
propizia gli offriva. Per queste
ragioni essa si sottomise alla decisione di don Giovanni, manifestatale in
istile assai adorno dal Maggiordomo, di traslocarsi nel palazzo dei suoi padri
opportunamente ricordati dalla marchesa de Guimera. A sua volta, però, essa
propose la postilla che i rapporti venissero mantenuti attivi, con frequenti
incontri, sì nella sua villa che nel palazzo Marana. - Noi siamo
gentiluomini d'antico casato - osservò il Maggiordomo - di una delle
ventiquattro famiglie più nobili di Siviglia, signora; e come tali non
prendiamo impegni se non per mantenerli. Impegnarci nel senso da voi
desiderato, non é possibile. Pensate: il marchese del Basto, che fece di voi
la sua regina, vi chiamò mai nella sua avita dimora? Si affacciò mai nella
vostra mente l'opportunità di recarvi una sola volta, sia pure per allietarli,
nei palazzi del conte di Peňaflor e del duca d'Olmedo? Avete mai sentito
raccontare che sovrani galanti per eccellenza, quali Francesco I di Valois ed
Enrico IV di Borbone, accogliessero
nella reggia rispettivamente la bella Ferronière e Gabriella d'Estrèe? No, non
è vero? Perché? Perché sarebbe stato di cattivo gusto. Non si accoglie la
donna amata in sale gravi e severe, fra ritratti arcigni di di antenati e
solenni ombre del passato. Buon gusto vuole che l'amore abbia una cornice gaia.
Quale gaiezza maggiore di quella che offre la vostra casa? Qui don Giovanni vi
ha amato, qui vi amerà ancora. Prendiamo impegno che egli ritornerà più
frequentemente dei vostri passati protettori. - Bella forza! -
si lasciò scappar detto Estrella - Quelli ci saranno venuti in tutto due o tre
volte ciascuno... - Ebbene, don
Giovanni verrà due o tre volte... - …la
settimana... - …il mese. Questa enormità
ridestò in Estrella la figlia dell' oste: - Eh? tu scherzi!
Va al diavolo! ne parlerò io con lui. Che interesse hai tu di tenerci così a
stecchetto? Io cedo, dico di sì, ma fino a un certo punto! - Calmatevi, ve
ne supplico, luminosissima Estrella! No, voi sarete sempre la stella più
fulgida del suo firmamento, Venere che si chiama Vespero o Espero quando si leva
a sera, e Fosforo o Lucifero quando si leva sul far del mattino. Ora a sera, ora
a mattino voi splenderete per lui, non avrete orari nella sua amorosa ellisse.
Ma vi prego riflettere d'altra parte, che saggezza vuole che l'amore sia dosato:
guai a chi vi si abbandona con disordinata foga! E' come per quei cattivi
bevitori che cioncano il vino, qualunque esso sia, a caraffe, tutto d'un fiato,
guastandosene lo stomaco e il cervello, con la conclusione di doverlo poi, in
modo disgustoso, restituire. In amore come pel buon vino bisogna centellinare,
evitare la sazietà, conservarsi anzi un po' di vuoto, per mantenere il
desiderio e ritornare poi al dolce rito con rinnovato ardore. Suvvia, vi
prometto che don Giovanni verrà a trovarvi almeno una volta la settimana. Su questa
promessa, Estrella accordò il suo lasciapassare. Quando venne il
momento di separarsi, don Giovanni ed Estrella seppero essere degni l'uno
dell'altra. Egli le disse: - Ti sono assai
grato dell'ospitalità. Spero che la vita ci riservi ancora dei giorni quali io
li desidero e quali tu li meriti. Il vero senso di
queste parole sfuggì certamente ad Estrella, come non è troppo chiaro neppure
a noi; ma essa lo prese per quello che voleva, e cioè piuttosto
ottimisticamente. E rispose : - Non mi devi
nessuna gratitudine. caro. Mi hai dato più tu. Torna spesso a trovarmi. A questa frase
egli non rispose; forse perché apparve in quell'istante il Maggiordomo ad
annunziare: - Il cavallo di
Vostra Signoria Illustrissima è pronto. Infatti don
Giovanni partì a cavallo, seguito dal suo fedele servente che montava una mula,
sulla quale erano pure caricate due valigie, con gli effetti personali di Sua
Signoria Illustrissima. A palazzo trovarono numerosa posta, e
raccomandate a mano, arrivate in quei giorni pel conte Tenorio, che erano
state ricevute dalla servitù reclutata a tempo dal Maggiordomo per stabilire il
servizio della rispettabile casa. Lettere e raccomandate erano quasi tutte di
ammiratrici, che prendevano lo spunto dal successo della festa floreale per complimentare
il galante cavaliere, per protestare la più sconfinata ammirazione, per offrire
amicizia. Talune erano accompagnate da donativi: fiori, profumi, ritratti in
miniatura, bottiglie di vini scelti. Queste
ultime commossero in modo particolare il Maggiordomo. - Non vi pare che
si cominci bene? - domandò, a don Giovanni, mentre questi era intento a
scorrere le missive, con la segreta speranza di trovare in qualcuna di esse
l’indizio che egli cercava. «La mia casa vi
è aperta - scriveva donna Anna de Acuna - La vostra famiglia fu sempre amica
della mia. Quanto vi ammiro ! Siete la più perfetta incarnazione della nobiltà
spagnuola! Intendetevi con la mia lettrice, che vi porta questa lettera sul
giorno e l'ora in cui sarete comodo di venire a visitarmi. «P. S. II mio
nobile consorte è assente; egli governa, in nome del Re, il Monzambico: molto
lontano!» Donna Clemencia
de Falla scriveva : «Non ho mai
gradito la conversazione con uomini. Gli amici di mio marito sono
insopportabili. Ma con voi sento che converserei tanto volontieri.» Donna Elvira
Soldevilla: «Ho un secreto
da confidarvi, da cui dipende la mia felicità: voi solo potete trarmi
d'angoscia. Vi prego farmi sapere dove e quando vederci.» Egli stracciò
queste e altre lettere; una sola lo impressionò. Era firmata Solar del Rio e
diceva: «Ieri, tra i
fiori che piovevano su voi, mi sono sentita penetrare il cuore dalla tristezza
che vi si leggeva negli occhi. Perché siete triste? Io non sono che una
fanciulla e non dovrei scrivere a un cavaliere che neppure mi conosce. Ma il
sentimento che mi avete ispirato è più forte delle convenienze. Non mi
rispondete, vi prego, se non vi è possibile farlo per mezzo della donna che vi
porterà la presente, perché in qualunque altro modo sarebbe pericoloso per me
e per voi. Ma non occorre che mi rispondiate. Sappiate soltanto che c'è, non
molto lontana da voi, chi sarebbe felice di dare qualche cosa per vedervi
sorridere.» - Se fosse lei -
pensò subito don Giovanni. E ne parlò col Maggiordomo. - Per l’amor di
Dio, mio signore, - rispose il sempre bene informato socio e servente - cosa
andate sperando? I del Rio sono signori di grande ricchezza che non lasciano mai
viaggiare da sole le loro donne, anzi le tengono quasi all'uso saraceno. Capo
della famiglia è un barone di cattivo carattere, ma assai affezionato a una
figliuola sedicenne, educata in casa e tenuta come cosa preziosa. No, no, non
c'è proprio niente di comune con la vostra incognita dell' albergo. Cominciò per don
Giovanni un nuovo tenore di vita; quale esso si fosse, però, non si seppe bene
in Siviglia. Il mistero accresce il fascino ed eccita la curiosità; e non ci fu
persona, si può dire, della dolce città andalusa che non cercasse penetrare
nel secreto della vita intima dell'eroe. I1 portone su cui noi vedemmo già quel
bizzarro cartello, ora restava sempre aperto, ma a ben pochi era lecito varcarlo
se non per ragioni plausibili. Le ragioni plausibili erano gli apporti di
lettere e donativi o inviti del padrone di casa a presentarsi. Pel resto, gli
stessi fornitori erano ricevuti dai servi dinanzi al portone. Non di rado
scendeva incontro a fornitori e sollecitatori il Maggiordomo in persona, anzi
ormai era diventato per voce generale il San Pietro di quel piccolo paradiso
profano. E non c'era volta, si può dire, che affacciandosi dal portone per
riceversi, puta caso, il vino o l’olio,
non trovasse attorno nella piazza sei o sette persone, talvolta più, e in
massima parte di genere femminile - cameriere, governanti, borghesi e magari
piccole dame attardatesi al ritorno della messa - ferme a curiosare, ad
attendere un segno qualsiasi della presenza dell'uomo più celebre d' Andalusia. All'apparire del
factotum, che nella celebrità di quel giorno occupava appena il secondo posto,
era un sorridere, un salutare, un far cenni vezzosi per ingraziarselo. Spesso si
attaccavano dialoghi di questo genere: - Buon giorno,
signor Maggiordomo. Come state? - Lo vedete, in
piedi. Stare in piedi, amabili ragazze e degne matrone, è un dono fatto da Dio
al genere umano, che può tenere così la testa più del resto del corpo
prossima al cielo, al contrario di quasi tutti gli animali. È vero che fra
questi c'è la giraffa, e lo struzzo e qualche altro pennuto che portano alta la
testa di più spanne sopra il garrese. Ma in costoro essa è estremamente
piccola, mentre nell'uomo proporzionalmente è la parte più grossa, e capace di
materia grigia. Io accetto questo dono di Dio e fo di tutto per rendermene degno
e lo benedico ogni giorno, quando mi levo dal letto, ove la mia testa posa al
livello delle altre membra. Non stare in piedi, vuol dire quindi dormire, e cioè
diventare pressoché nullo, o star male, o, peggio ancora, esser morto. - E il vostro
illustre signore sta in piedi pure lui? - Secondo. Egli
è un essere privilegiato, pel quale anche la posizione sul piano dell'orizzonte
presenta spesso piacevoli vantaggi. - Perché lo si
vede così di rado ? - È occupato,
occupatissimo, La sua vita è una specie di missione. Non può perdere un'ora in
quisquilie. La mattina, si comincia, è destinata in gran parte alle cure
personali, o per dirla con frase più moderna, all'educazione fisica. - E siete voi che
curate la sua toilette? - lo? ma io sono
il Maggiordomo. Major domus:
il maggiore della casa. Alla toilette del signor conte sono destinate altre
delle nostre persone di servizio. - Una donna o un
uomo? – chiede ingenuamente una servetta. - Una donna? - la
redarguisce una matura governante - che giudizio, ragazza mia ! - Le donne
servono le signore, - stabilisce un giovane palafreniere, che passando per caso,
s'è fermato, attratto dal crocchio, ad ascoltare. - Prego: -
rettifica il maggiore della casa - un vero gentiluomo si fa servire dal suo
cameriere per barba e capelli, per cappa e spada; ma ci ha anche la cameriera
per qualche servizio più fine... - Come sarebbe a
dire? - Manicure,
massaggio, stiro, attaccare bottoni.. II cameriere lo rade, la cameriera lo
incipria; il cameriere lo pettina, la cameriera dà il profumo... - Ed è giovane,
la cameriera? - Diamine!
vorreste che non fosse giovine? Ventitrè anni, fede di nascita presentata
all'atto dell' assunzione in servizio. E sa già che al comparire del
venticinquesimo anno sarà messa in libertà, a meno che non acconsenta a
passare ai lavori di cucina fino ai trenta, e dai trentuno ai trentacinque al
guardaroba. Una cameriera non può non essere giovine: Ebe, coppiera, cioè in
linguaggio povero cameriera degli dei, era anche la dea della giovinezza. Il
servizio di una donna giovine, dà un senso perenne di freschezza in una casa.
È una specie di sorriso domestico. - Oh, come la
invidio! esclama irresistibilmente la lettrice di donn'Anna de Acuňa,
ritornata per sentire se c'è risposta per la sua padrona. - E - domanda la
governante - una simile toilette ogni mattina? - Ohibò ! se
permettete, ogni mattina e ogni sera. - In ventiquattr'ore
due volte ! - fa la servetta, con l'acquolina in bocca. - Naturale: un hidalgo della
fatta del mio signore non può essere la notte men bello che il giorno. Di
giorno promette quel che la notte mantiene. La toilette è un'attrazione, un
mezzo d'adescare, una maschera, per gente dai dubbi gusti. Ma in persone
professionalmente distinte, essa è il compimento necessario e doveroso della
bellezza. E il coro delle
donne: - Che sentimenti
squisiti! Ma sono
sopraggiunti e si son pure soffermati ad ascoltare due dei cavalieri della
scarsella vuota, rimasti male al primo successo di don Giovanni; e sono don
Inigo Tellez e don Luis Volpes. E l'uno commenta in tono velenosetto anzichenò: - Sicché egli
passa le ore tra specchi, bagni e profumi? - Come una
femmina! – rincalza l’altro, schizzando arsenico da ogni sillaba. E il
Maggiordomo, risentito: - Ohibò! Vengano
a vedere, le lor signorie, quante peregrine fatiche si compiono nella nostra
magione; ma tutte in modo sì eletto, che diventa nobile e lieve anche il nostro
servire! Ogni attimo si trama d'eleganze sempre nuove: si fanno versi, si
conversa, si fuma, si gioca, si accoglie ogni dama con perfetto cerimoniale...
si cena... si beve... Vedeste che arte, nel bere ! - Ma sono
piaceri... - ...perversi, -
reiterano, quasi ringhiando, i cavalieri. - Non c'è mai
perversità in una cosa, signori, ma solo nel modo. E noi siamo i Raffaelli e i
Cellini del modo. Una dama velata
che ha ascoltato alle spalle degli altri: - E' vero. In
quello che dite non trovo che perfezione. E... vengono molte dame a conversare
col vostro signor conte ? - Sì, vengono. E
mandano. - Mandano ? - Sì: fiori,
lettere, doni. Io particolarmente sono addetto al reparto doni. Smisto,
catalogo, metto da parte i più meschini. I fiori, per esempio, sono gentili, sì:
ma durano - si sa – lo spazio d’un mattino. Le lettere non meritano sempre
una risposta. E' doloroso, ma è così. La dama velata : -
Quali sono allora i doni preferiti ? - Oh, tutti in fondo, anche i modesti: si accetta il pensiero. Ben vengano i gioielli, il vasellame... Ci mandano anche broccati, piume, merletti, pasticci fatti nei monasteri... Non che in tutti i monasterisi facciano dei pasticci, ma dove li fanno, sono di prim'ordine... Liquori delle Antille, coloniali delle isole della Sonda, tabacco d'oriente... e anche libri: l'alimento dell'intelletto è ambitissimo nella nostra casa. Purché non sia roba futile. Noi disdegniamo l'orpello in ogni cosa. Vostra signoria non si preoccupi, l'oggetto più prezioso non è sempre il più costoso: noi cerchiamo lo spirito, e lo sappiamo trovare, meglio che in un regalo vistoso da gente vanamente ricca, in un piccolo ricamo o in una bottiglia di autentico vino delle Canarie. |
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