Cap. XVII - Cap. XVIII
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Cap. XVII

Don Giovanni spiegato dagli altri, e da se stesso.

 

 

La padrona di casa notò che un silenzio un po' impacciato aveva fatto seguito alla presentazione e volle escogitare un mezzo adatto all’uditorio per rompere il ghiaccio:

- Don Giovanni, conto darle presto buone no­tizie sulla sua raccomandata. Vostra signoria merita ogni assistenza nella sua pia opera. Miei signori, voi non immaginate quanto il conte Tenorio sia un uomo pio.

Tutte le facce si rivolsero verso don Giovanni, diversamente sorprese.

- Pio - disse alquanto bruscamente il dome­nicano - è chi vive nelle leggi della chiesa.

- Se la legge della chiesa - rispose il giovane, trovandosi subito il terreno sotto ì piedi - è la legge di Dio, essa si può riassumere tutta nel detto: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso. E con ciò s'intende che bisogna anche fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi.

I presenti si guardarono fra loro con sorpresa aumentata.

- Fa piacere osservò don Baldassare Salazar, con un sorrisetto lievemente ironico fra le labbra sottili - sentire massime religiose su una bocca che si suppone piuttosto incline alle galanterie.

- La religione - chiosò ancora don Giovanni - appartiene alla parte eterna dell'uomo, che è lo spi­rito; mentre le galanterie sono espressione della parte caduca: la mondana. Non sono, quindi, tutto l’uomo, bensì effimere faville di quel fuoco effimero che è la vita terrena, la persona carnale.

A quest'ultima parola Torquemada corrugò le folte sopracciglia, l’arciprete ebbe un soprassalto e si fece il segno della croce, il vescovo tornò a sor­ridere, donn'Anna inghiottì un po' d'acquolina. Gli altri due rimasero muti e sdegnosi.

- Non si può meritare la grazia divina - rim­beccò monsignor Luca Perello con voce che somi­gliava a un ruggito addomesticato - se la sola anima vive nella religione, mentre il corpo si trascina nel peccato.

- Si trascina . . . . . . . . . . . . via, padre, è un po' forte. Ella parla di peccatori assoluti, induriti a rubare, ammazzare, bestemmiare, fare ogni sorta di danno al prossimo... Eppure non c'è peccato che Dio non assolva, quando se ne faccia ammenda. Non perdonò egli il buon ladrone, che sulla croce invocava il suo nome ?

- Avete mai sentito che Dio perdonasse un lussurioso?

A queste parole del domenicano, un attimo di gelo pesò fra gl'interlocutori. Lo dissipò don Giovanni.

- Non ricordo esempi specifici di lussuriosi; ma di qualche lussuriosa, sì: Gesù salvò dalla lapi­dazione l’adultera e accolse fra i suoi discepoli la Maddalena.

- Maria Maddalena è una  santa, signore, - saltò su inviperito monsignor Pablo Martinez - e poiché la Chiesa 1'ha santificata, essa non può mai aver commesso peccato. Dio ci perdoni dì aver prof­ferito il nome di lei invano!

E si segnò in fretta un'altra volta. Don Giovanni non volle raccogliere la replica; aggiunse:

- E debbo dire che non è precisato nelle sacre scritture quale sia stato il giudizio del Signore per il bigamo Giacobbe, né pel donnaiuolo David, né per Salomone dalle novecento concubine... Ma Dante Alighieri asserì d'averli incontrati in paradiso, e la stessa Chiesa li pone fra gli eletti.

II domenicano si fece pallido, l'arciprete rosso, il vescovo prevenne a tempo con amabilità, ma an­che con una sfumatura di sarcasmo, le loro esplosioni:

- Le questioni teologiche non sono fatte pei secolari. I miei confratelli lo sanno, non è vero? e non le risponderanno, signor conte. Ella è un laico, ma non un teologo. Si capisce, però, che ciascuno di noi può sfoggiare la sua migliore eloquenza nella materia in cui più è pratico.

Donn'Anna guardò don Giovanni e sorrise beata. Si udì una voce sottile, una specie di miagolio:

- La sola saggezza è eloquente in tutte le materie.

La voce sottile e le parole gravi provenivano dal personaggio più carnoso della seduta: il proto­medico don Filippo Ugarte. Si affrettò a rimbeccarlo il più ossuto, l'astronomo don Diego Montino.

- La suprema saggezza risiede nella matematica: soltanto essa può risolvere tutto.

- Se mi parlate di astrazioni - miagolò il pro­tomedico - può essere vero. Ma in fatto di cose concrete, non c'è che la medicina, scienza assoluta.

- Assoluta? - bofonchiò il matematico, che aveva invece una voce da contrabasso - io non conosco            che            la            matematica       di            assoluta: a+b è stata eguale a c da quando si accese il sole e lo sarà fino a quando si spegnerà l’ultimo astro. La vostra medicina si esprimeva in un dato modo con gli egizi, in un altro con i caldei, in un altro ancora con gli arabi, e sempre in modo diverso oggi e domani.

- Mutano gli uomini che sono esseri concreti, muta la scienza che si applica agli uomini: è l'asso­luto nei rapporti col relativo.

- La suprema saggezza - ruggì il domenicano - è nella parola della Chiesa: tenetelo presente, signori.

- Perché deviare le questioni? - osservò il sagace vescovo - si parlava del conte Tenorio e degli argomenti che egli sa meglio trattare.

- Sì, parliamo del conte, - propose e impose graziosamente la padrona di casa.

- II signor conte - s'affrettò allora a dire l’otre dalla voce di gatto - appartiene a un genere particolare della specie umana: egli non è 1' homo sapiens ma l'homo amans.

Contenuta indignazione del domenicano e mal frenata rivolta dell' arciprete; sorriso ambiguo del vescovo.

- Ogni individuo - corresse il contrabbasso - del genere a cui Ella allude, dottore, andrebbe chia­mato invece Homo numericus, perché ha molti numeri al suo attivo. Numero è la leggiadria delle forme, la quale, come san tutti, risponde a date proporzioni geometriche; numero è la giovinezza o, quando questa più non si possiede, la perdurante vigoria giovanile...

- Benissimo! - approvò donn'Anna.

- Numero è l’influenza astrale che agisce rifran­gendosi in lui, su persone circostanti, anche a di­stanza...

- Ma questa, maestro mio, - protestò indignato il protomedico, è roba trascendentale, che nulla ha da fare con la vera scienza. Non c'è che la medicina, la più concreta delle discipline, dico io, a potere spiegare simili problemi biozoologici. L'homo amans è tale per cause naturali o per cause occasionali: c'è l'homo amans a vita e l'homo amans periodico. È periodico l’uomo comune, è a vita colui che nasce, cresce e muore per essere sempre tale. Cioè: chi va soggetto di tanto intanto e più o meno al morbo amatorio e chi lo detiene, come una qualsiasi malat­tia cronica. II morbo amatorio è un'autointossicazione provocata dai germi sessuali, che travasano nel cir­colo sanguigno e attaccano le meningi, infiammandole e provocando, secondo i casi, pazzia o idiozia: idiozia quando il soggetto rimane succube del sog­getto di sesso diverso, che è il caso più frequente; pazzia, quando lo domina. Appena l’ammalato del tipo periodico può espellere per via naturale l'eccesso dei germi, guarisce e ritorna normale; mentre l’am­malato del tipo cronico è come una macchina a ca­rica perenne che sostituisce di volta in volta i germi espulsi, mantenendone sempre saturo il circolo san­guigno. Soggetti pericolosi, dunque, questi ultimi, per la pubblica quiete . . .

- Cattivi soggetti! - tuonò il domenicano non riuscendo più a contenersi, e fissando in modo pro­vocante prima don Filippo e poi don Giovanni, mentre l’arciprete si faceva precipitosamente l’uno dopo l’altro sei o sette segni di croce.

Donn'Anna si affrettò a battere con una mazzuola su un timbro d'argento che aveva a portata di mano, e tosto una portiera si spalancò e sul limitare di essa apparvero due delle magnificentissime livree che contenevano individui di razza umana.

- Servite i rinfreschi, - ordinò loro la padrona. I rinfreschi di casa de Acuña - trovò oppor­tunamente da dire il vescovo - sono famosi in tutta l’Andalusia.

- Spero che anche don Giovanni - disse donna Anna - li troverà di suo gusto.

I rinfreschi cominciarono ad affluire da tre porte contemporaneamente spalancate, in ampi vassoi d'ar­gento sorretti e portati in giro da schiere di livree a contenuto umano; gli occhi di monsignor Perello si ammansirono, quelli di don Pablo Martinez diven nero liquescenti; la rupe nasale del matematico aprì due caverne, 1'epa del protomedico fe' udire un gorgoglio quasi melodico. Lo spirituale vescovo ebbe un sorriso di compiacimento. Soltanto don Giovanni rimase indifferente, distratto com'era a domandarsi dove avesse incontrato prima di quel giorno donna Anna de Acuña.

Apparvero torreggianti pasticci grondanti lave di zabaione, e torte panciute da cui traboccavano le viscere di crema alla cioccolata; bianchi – mangiare e gelatine di frutta, i più sensitivi dei dolci, perché appena scossi tremano dal terrore di essere mangiati; pire di pasticcini e bocconcini di dama decorate con fiori di zucchero d'orzo e fili d'argento attorcigliati, arcobaleni di cremolate e sorbetti dai colori più gai; battaglioni di bicchieri, in ranghi serrati, quali nella bruna tenuta del Madera, quali nella dorata del Manzanilla.

Nell'ambiente reso più caldo e cordiale dalla vista e dai profumi delle vivande e delle bevande, i convenuti cominciarono ad animarsi di maggiore mutua tolleranza e simpatia: la padrona di casa aveva saputo agire a tempo per trovare un terreno d'intesa. Tutti mangiavano e bevevano, ognuno a suo modo e misura, scambiando brevi dialoghi mu­golati; soltanto don Giovanni si limitò a degustare una cialda alla crema e un sorbetto d'arancio, mal­grado le premurose insistenze di donn'Anna.

- Grazie, non mangio altro, signora. No, non  bevo mai vino. Io penso che il vino porti a galla il fondo d'ella nostra anima, e ciò è buono per chi l'ha gaio. Il mio, temo che sia amaro; e a chi può ser­vire che galleggi?

- Ben detto, conte! - approvò don Diego Mon­tino forbendosi la boscaglia dei baffi, dopo aver trangugiato una capace coppa d'umore di Lieo - È lo spirito del liquore che entra a contatto col no­stro e lo spinge a manifestarsi nella sua genuinità. Voi sapete che la natura umana è una trina, come la Suprema Perfezione, e a differenza di tutte le altre creature inferiori: il nostro corpo, fatto di materia visibile, accoglie il corpo astrale, di solito invisibile ma che può in condizioni particolari assumere forma e perfino consistenza, e l’anima, mai soggetta a materializzazione, ma pure parte essenziale della no­stra entità. L'anima è la sede dell'io pensante, non solo, ma anche la parte più sincera di noi, che nella vita comune non può esprimersi con libertà per gli impedimenti che gli vengono dal corpo astrale e sopratutto dal corpo terreno, per via delle conven­zioni e convenienze sociali, della educazione, delle ipocrisie che falsano o mascherano l'essenza reale dell' individuo...

- Se vi sentisse monsignor Perello, - insinuò don Filippo Ugarte interrompendo il lavoro delle sue mandibole attorno a una gran fetta di torta – vi denuncerebbe al Santo Uffizio, per propaganda di eresia e stregoneria, caro maestro. Buon per voi che egli è alle prese coi pasticci e col Manzanilla. Ma in fin dei conti, che cosa intende concludere la vostra magia bianca nei riguardi dell'illustrissimo signor conte?

- Intende concludere - rispose, piccato, l'astro­nomo - che sarebbe interessante, dopo le vostre pretese definizioni, sentire quella dell'io pensante di don Giovanni su se stesso. Sono sicuro che darebbe ragione alle mie teorie.

- Mi proverò - disse don Giovanni - a espri­mere ugualmente il mio pensiero senza ricorrere al vino per far parlare il mio spirito, come ella vorrebbe, maestro Montino. Non parlerò di me stesso, ma delle due categorie umane, quali le ha classificate il sapiente protomedico. L'uomo che passa di amore in amore non ubbidisce sempre a un istinto mate­riale. C'è quando pei suoi occhi o pel suo cuore ogni donna ha un vezzo nuovo, un incanto diverso, che non di rado svaniscono quando egli si appressa per coglierli. Se egli potesse, invece, riunire in una soltanto tutti i vezzi e gl'incanti del mondo, le gioie fuggitive raccolte fra tutte le donne incontrate nella scorribanda affannosa da bocca a bocca, da cuore a cuore, che non è stato in fondo piacere, ma pena, amarezza continua! Eppure esiste quella, l’unica, che basterebbe a colmare la sua vita: esiste vicina o lontana, ignota, non trovata e forse non trovabile, che si appagherebbe anche lei di lui solo e gli por­terebbe tutti i doni che lui chiede inconsapevolmente alla vita: la purità, la bontà, la bellezza!...

Mentre così parlava, accendendosi a poco a poco, ascoltatissimo anche dai tre prelati, egli teneva gli occhi fissi dinanzi a sé, un po' al disopra del capo di donn'Anna, seduta con le spalle a una delle porte rimaste aperte. Donn'Anna, in estasi, ritenendo per sé, quello sguardo, lo ricambiava acuminando sempre più i succhielli dei suoi occhi.

Quand'ecco, dal vano della porta, egli vide nella sala attigua passare di sfuggita una giovane donna che, all’udire la sua voce esaltata, si volse un attimo a guardare verso di lui. Egli ammutolì di colpo, rimase senza, fiato, e i presenti lo videro tra­salire e sbiancare in faccia, come per un improv­viso malore.

Ma non era malore, no! In quella giovane egli aveva riconosciuto, o creduto riconoscere, l'amatis­sima invano fin'allora cercata, la bella incognita incontrata in un albergo durante il suo viaggio da Salamanca a Siviglia!

La giovane donna sparì. Egli stava per corrergli dietro quando donn'Anna lo fece rinsavire escla­mando irresistibilmente:

- Oh caro! - e poi, rivolta ai presenti che erano rimasti interdetti, aggiunse: - Non trovano anche lor signorie che il signor conte parla assai bene?

 

 

Cap. XVIII

In cui il sogno sta per diventare realtà.

 

Appena uscito dal palazzo de Acuña, don Gio­vanni si volse al maggiordomo che aveva fatto avan­zare la portantina e lo invitava col gesto a montarvi:

- No, no, rimandala via. A piedi! a piedi! voglio camminare... ho bisogno di respirare aria pura, d'imbevermi d'aria!

- Oh! oh! - fece il Maggiordomo tra i denti, strizzandogli un occhio. E si affrettò ad obbedirlo, incaricando i lacchè di portare alla signora Estrella di Siviglia y Vaccarilla gli omaggi del conte Tenorio. Appena solo col suo socio gli chiese:

- Ebbene? Avete fatto colpo?

- L'ho trovata! - esclamò, anzi gridò vane esultante.

- Davvero? Chi?

- La mia incognita dell'albergo, quella di cui t’ho parlato quando ci siamo conosciuti.

- Davvero alla seconda potenza? E chi è, donn'Anna ?

- Non dire sciocchezze: Donn' Anna, che sulle prime non ho riconosciuto bene, è la dama matura che l’accompagnava, e che avevo scambiato per una governante. Ma ora capisco che deve essere sua madre.

- Di lei. Non capisci niente, oggi.

- Donn'Anna non ha figlie femine, per lo meno legittime. Vi si può concedere, dunque, che sia una nipote o una bastarda.

- Perché giusto bastarda? - osservò don Gio­vanni accigliandosi a questa parola - Sarà una ni­pote, allora.

- Vada per una nipote. E quali sono adesso i vostri propositi?

- Rivederla. Sentire dalla sua bocca se le è gradito il mio amore, ottenerla... sposarla...

Il Maggiordomo fece una smorfia, come se be­vesse aceto.

- Liquidare Don Giovanni, insomma. Tutta codesta roba sentimentale e casta è troppo bor­ghese... A ogni modo, facciamo pure, purché la dote sia all'altezza della nostra situazione.

- La dote principale è la felicità.

- Borgheseria anche questa. E quando e dove pensate di rivederla?

- Donn'Anna, al momento di andarmene, mi ha offerto di rivederci presto, promettendomi di farmi invitare al primo ballo di carnevale che il governa­tore offrirà fra qualche sera all'Alkazar.

Prima dell'invito del governatore, giunse però una visita non desiderata : Estrella. Chiese brusca­mente di don Giovanni. Don Giovanni non c'era. Nessuno le disse però che era andato a passeggiare sotto i balconi del palazzo d'Acuña. Essa volle parlare col maggiordomo.­

- Oh, - le disse costui strisciandole dinanzi una riverenza - che accade, mia molto signora? Nell'uscir di casa vi avete lasciato la faccia di donna Estrella di Siviglia?

- Sono imbruttita, forse? - domandò a sua volta Estrella, punta.

- Imbruttita, mai. Diversa. Avete, direi, una maschera da prologo di melodramma. Vi sta meglio quella, tra gaia e un po' insolente, che indossate più spesso.

- Bada bene - minacciò la giovane donna - che il melodramma non lo cominci da te, misuran­doti un paio di schiaffi!

- In nome di Dio, vi abbiamo irritata a que­sto punto? Ma se la mia faccia può bastare a far rientrare nella normalità il vostro sistema nervoso, servitevi: e se dovesse darvi sollievo anche il tirar­mi qualche calcio, metto a vostra disposizione un'altra parte della mia persona.

Estrella spianò la fronte corrugata; per poco si mise a ridere.

- Sei un abile buffone. - gli disse - Ma ciò non toglie...

- Che cosa? Parlate. E prima di tutto, perché da tanti giorni non ci avete fatto l’onore di venirci a visitare? Noi ne siamo afflittissimi.

- E me lo chiedi, masnadiero? Perché, piut­tosto, non è venuto più a trovarmi il tuo padrone? Perché, più di una volta, sono venuta io e lui non s'è fatto trovare in casa? I1 principale responsabile sei tu, che m'hai carpito per la vostra azienda d'a­more buona parte di quel che io possedevo, ladro!

- Io ?                      Volli                      fare più bella la casa dove voi stessa, pensavo, sareste venuta ad abitare, anzi a coabitare, sia pure periodicamente: fare più bella la cornice per mettere in valore il quadro. Quanto a me, giuro di non avere usufruito che di qualche dinaro impiegato in vini. Sì, è un debole, non lo nego. Ma se fa felice qualcuno, il denaro speso è benedetto e l’oblatore s'ingrazia il cielo.

- Alle corte! quel tuo avventuriero, truffatore della tua risma . . .

- Ah no: egli è innocente, lo giuro! Ed è un uomo retto. Solo, è un po' bleso al cervello.

- …io lo volevo soltanto per me.

- Male, molto signora mia, male! Voi vi la­sciate far velo dall'amor proprio. L'uomo monogamo è gretto di spirito o di scarsella. E poi, non avete pensato che don Giovanni deve di necessità essere don Giovanni?

- Va là, imbroglione. Tu non sai che cosa gli chiedevo, la cosa che speravo da lui, assai diversa da quell'altra maniera d'intender l’amore delle vostre signore oneste... Io non volevo essere quella che sono stata sempre per gli altri: volevo che egli mi cercasse nel cuore... Ma basta! a che parlo di queste cose che un abbrutito beone non può intendere?...

- V'ingannate, mia signora: abbrutito è chi sta al disotto delle verità comuni, non chi ne monta assai al disopra.

- Insomma, egli mi trascura... s'annoia in mia compagnia... e mi ha l'aria di pensare a un'al­tra. Se non la smette, mi vendico: vi denuncio per truffa e non credere di avermela data a bere, per sostituzione di persona!

- Fulmini e saette, donna Estrella, il vostro amore è antropofago. Io vi voglio contenta, invece; e vi prometto di ricondurvi il mio padrone, dolce e platonico, quale lo desiderate, fra qualche giorno. Ma non ci negate una dilazione.

- Se acconsento, tu mi dirai chi è la bella dei suoi sospiri ?

- Bisogna prima che la conosca lui stesso.

- Come sarebbe a dire ?

- La sua bella finora ha per nome un punto interrogativo.

- E le donne di cui lo circondi?

- Nebbia rosea, desideri biondi o bruni, iste­rismi virginei o maturi, che sfiorano appena il suo cuore come ali di falene, e tra cui s'arrabatta a cer­care l’ideale.

- L'ideale! - esclamò Estrella con amarezza - Nella tua bocca questa parola sa di sputo. Eppure deve essere una stella... Nel mio cuore io la sento rodermi come un verme; ma per altre è farfalla sul fiore della vita!...

- Che avviene, donna Estrella? Ci sono dei voli nuovi nel vostro linguaggio...

- Senti, ruffiano: se non vuoi che io ti mandi in malora, egli non deve trovarla, quella sua qua­lunque beghina! Non voglio nemmeno che la cer­chi... Dove va a cercarla ?

- Ma… non so... Credo che abbia qualche vaga speranza di rintracciarla al prossimo ballo in maschera che terrà il governatore.

Non volle sentire né chiedere altro, Estrella, e se ne tornò via. Ma se si fosse spinta fino al palazzo de Acuña, sotto i balconi vi avrebbe trovato il suo oblioso amante, che passeggiava avanti e indietro, con gli occhi rivolti all'insù.

E venne la sera della festa da ballo del gover­natore, nella magnifica sede dell'Alkazar. Don Gio­vanni vi arrivò a tarda ora, mentre non si sperava più nel suo intervento e tutti, le signore special­mente, ne erano desolatissimi. Lo scortavano il Mag­giordomo, raffinato artefice di quell'appassionante ritardo, e due staffieri: Alfonso e Biagio.

Quando la voce del suo arrivo si sparse per le sale, un rimescolio di curiosità agitò la folla degli invitati. Tutti accorsero verso il salone degli Ambasciatori, ove egli, ossequiati i padroni di casa, faceva ora un giro tenendo al suo braccio la governatoressa, che lo presentava ai più cospicui dei personaggi che tacevano ressa intorno a loro.

- Vede, signor di Marana, - veniva dicendo­gli con grazia l’abbondantemente quarantenne mar­chesa de Guimera - si riprendono le danze, sospese un momento per accogliere Lei. Le piacerebbe que­sta seguedilla ? O preferisce attendere il prossimo zapadeado?

- Oh, per me è lo stesso. - rispose lui evasi­vamente, guardandosi attorno con l’aria di cercare qualcuno.

- Troveremo altre dame nelle sale appresso - insisté la marchesa un po' punta - finché ne sce­glierà una che sia degna di danzare con lei, dato che io non posso meritare tale fortuna.

- No, marchesa, prego... Lei per me è uguale alle altre... voglio dire alle più piene di pregi. Ed io devotamente l'ammiro. Ma la danza non è un piacere fatto per me. Anzi le dirò che considero i balli in genere atti perversi, mediante i quali un uomo e una donna possono tenersi sconveniente­mente abbracciati in faccia a chicchessia, con pose e atti d'amore, senza consumare l’amore...

- Oh, sconvenientemente… - ripeté donna Isabella de Guimera, reputando opportuno arrossire; e mutò: - Non è contento d'essere venuto ?

- Oh si, contentissimo! - rispose egli con vi­vacità: in quel momento aveva scorto donn'Anna de Acuña e accanto a lei una figurina graziosa, con la maschera in volto, ma vestita con estrema sem­plicità, che gli sembrò di riconoscere.

- Mi pare di capire - insinuò la marchesa - che la folla l’annoi. Vuole che andiamo di là, nel giardino d'inverno? Non ci sarà gente.

- E che si penserebbe di noi? - protestò il bel cavaliere - No, signora, non permetto: ella è la moglie di Cesare.

Donna Isabella lasciò il suo braccio, indispettita. - Che cavalleria impeccabile! La lascio a suo agio, mio signore; non voglio apparire importuna. - e rivolgendosi alle signore che li attorniavano: - Orsù, mie dame, andiamo. Don Giovanni stasera non ama compagnia femminile.

E fattagli un'esagerata riverenza, si volse condu­cendo con sé le altre signore, che però brontolarono. Don Giovanni si trovò quasi solo e ne approfittò per cercare l’intravveduta figurina in maschera, spa­rita con donn'Anna. Ma ecco che gli si parò di fronte il Maggiordomo.

- Ho visto, da lontano, - gli disse costui, co­sternato - La vostra misoginia finirà col portarvi sventura.

- Taci! - gli rispose egli, eccitato - ho trovato colei che cerco. Voglio parlarle a ogni costo.

- Ma non vi pare cosa scema occuparsi di una sola, mentre vi si offrono in cento? Correre per ac­chiappare il fumo, quando si à nel piatto l’arrosto?

- Lasciami: io so quel che voglio.

E don Giovanni s'allontanò in fretta verso le altre sale.

- Se continua così, lo dimetto, - pensò l'uomo di lettere e filosofia.

Anche lui si mosse, per seguirlo alla lontana e sorvegliarlo, quando s'imbatté in un servo con un vassoio carico di bicchieri.

- Alicante? - gli chiese - Dal profumo non si sbaglia. Grazie, mi contento.

Bevve un primo, poi un secondo bicchiere. II servo fece per ritirarsi, ma egli lo trattenne per dar piglio al terzo e, per propiziarsi il dispensiere della liquida grazia di Dio, lo interpellò confidenzialmente:

- Dammi un consiglio, amico: quando hai un gonzo per padrone, che fai?

- Mi congedo, - rispose il servo austeramente.

- Io invece né assumo uno nuovo.

Un'altra bevuta e via: il Maggiordomo prosegui e attraversò il patio, dove scorse Alfonso, l'aitante servitore venuto con lui e con Biagio in iscorta del padrone, fra un crocchio di giovani cameriere.

- Per San Bacco; - si disse - Ha fatto colpo anche Alfonso. Ma egli non si mostra schizzinoso come il nostro signore.

E rimase un momento pensoso a guardarlo.

Ecco, però, attraverso l’arcata in faccia a lui, passare don Giovanni, inseguito da una dama in costume da Diana.

- Che fortuna sprecata! - pensò il saggio - Servire da selvaggina alle cacciatrici ed essere stu­pidamente invulnerabile. E che cacciatrici, poi! che tirano dall' arco dardi d'oro.

Aveva riconosciuto in Diana donna Teresa Lima de Montserrat, la moglie di uno dei più ricchi ban­chieri della Catalogna, da pochi anni domiciliata a Siviglia.

Essa raggiunse don Giovanni e lo fermò briosa­mente.

- Ho scommesso con alcune signore che Ella avrebbe ballato con me il primo bolero.

Egli non seppe frenare una mossa di contrarietà. Scommettere perché, a rischio di perdere? Quelle signore certo sapevano già che io ho dichiarato poc'anzi di non amare il ballo.

- Ebbene, - insistette donna Teresa, senza darsi per vinta - pagherò la scommessa, se impie­gheremo almeno la durata del ballo a conversare fra noi conte. Restiamo qui, però; non vorrei che ci sor prendesse mio marito che é l’uomo più geloso tutte le Spagne.

- E lei gode a farlo soffrire? - domandò quasi risentito l’insensibile conquistatore - Forse anche a fargli dei torti?...

- Oh, non ho osato perché,... Ma sa Lei che a momenti potrei essergli figlia? Mio Dio, mi vorrei divertire... senza far male, si capisce.

- Spesso la civetteria è un male che offende un cuore innamorato, quanto un tradimento.

Essa si mise a ridere e lo guardò di sotto in sù, con occhi tra ingenui e furbeschi. Non era bella, ma quegli occhi promettevano delle sorprese.

- E allora Lei crede che sia preferibile l'amore vero? Almeno i fastidi della gelosia sarebbero giu­stificati…

- Ma che         pensa mai, signora? -               esclamò, quasi indignato, don Giovanni, che non vedeva l'ora d'andarsene - Quando si è data una fede a un'anima che vive di noi, nulla di più basso che ricambiarla d'inganni, si chiamino essi civetteria o amore.

Il Maggiordomo che, poco discosto, dietro una colonna, ascoltava, si diede una strappata alla barba.

- È inutile! - mormorò - Chi nasce tondo non può morire quadrato. Studiò per farsi confessore; come cavarne un don Giovanni?

- Allora - disse donna Teresa mortificata - Lei non saprebbe essere gentile con una donna mari­tata?... Lei non ama che le ragazze?

- Le ragazze si sposano, - rispose egli, cate­gorico, movendosi richiamato dal vero motivo della sua presenza in quel posto.

- Lei celia. - esclamò essa tornando a sorri­dere - Come marito non so concepirlo. Ma dunque: mogli no, ragazze neppure... Quali sono le donne che secondo lei meritano amore? Ah, ho capito!... però è ingiusto. Già, l’ho sempre detto che quelle certe creature sono in fondo le più fortunate!...

In quel momento un uomo mastodontico, ven­truto, paffuto e nasuto, in costume da Giove tonante, coi suoi bravi fulmini di cartone dorato in pugno, apparve da un lato, mentre dall'altro don Giovanni vedeva apparire e andare verso il patio la cercata figurina dal viso coperto da una maschera.

- Ah ! - egli fece; e con un rapido inchino si separò da donna Teresa, per correre dietro alla ritrovata. Donna Teresa non ebbe il tempo di risentirsi, perché la vista di Giove che moveva difilato verso di lei la paralizzò.

- Don Manuel... - poté appena balbettare. - Che ne fate voi del mio onore? tuonò il tonante.

- Io... l’onoro... - rispose essa.

- Con chi? con l’uomo che è fuggito al mio apparire? Dov'è quel vigliacco? voglio dargli quel che si merita...

II Maggiordomo si frappose, scivolando in un inchino:

- Signore, se permette...

- Che c' è - urlò don Manuel guatandolo dall'alto delle sue polpe maestose.

- Chiarisco, signore, chiarisco. Colui che Ella ha chiamato un uomo, è invece il mio padrone, don Giovanni Tenorio dei conti di Marana. Ed egli non fuggiva al suo apparire, ma si allontanava per andare a raggiungere la dama con cui ha l'impegno della prossima danza... Vede?... sono laggiù. Egli si era intrattenuto con la nobil signora che suppongo consorte di vostra signoria, sul soggetto di un ballo...

- D'un ballo? - muggì don Manuel volgendosi alla moglie - Voi, ballo? Non sapete che si balla con me soltanto?

- Oh, un balletto… -                        Spiegò con un filo di voce la povera Diana.

- Non sapete - incalzò il consorte - che il vostro solo ballerino per tutta la vita sono io?

- Oh, un ballino - attenuò il Maggiordomo - fuori programma, può anzi giovare col fugace giro illusorio a dimostrarci che la danza nuova non vale il ballissimo d'ogni giorno.

Don Manuel indugiò un momento a decidere dentro di sé, se quelle parole sonassero o no com­plimento a lui. Preferì attenersi al sì. Gonfiò il collo, sfumò un sorriso e disse alla moglie, porgendogli mano:

- Venite, dunque: andiamo a ballare.

- Scusate, rispose essa, sempre tremante, av­viandosi con lui - ma in pubblico no, nemmeno se m'ammazzate. Avete troppa pancia.

 
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