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Nei giorni passati ha goduto di
una certa risonanza all'interno dei media la presentazione di
un "Manifesto per la Cultura" prodotto da due nomi "forti"
dell'apparato politico di Forza Italia, Marcello Dell'Utri (responsabile
Dipartimento Cultura di Forza Italia) e Sandro Bondi (responsabile
Dipartimenti di Forza Italia).
Non è il caso di entrare troppo nel merito del manifesto
forzista; chiunque ne sia interessato può visionarlo nel
sito di F.I. e constatare direttamente la pochezza che ne caratterizza
tanto i momenti dell'analisi storica, quanto quelli programmatici:
ambedue si modellano a partire dall'enunciazione di una dicotomia
strutturale storicamente definitasi, che contrapporrebbe un insieme
culturale definito dalle componenti laica-cristiana-umanistica-liberale-riformista
- insieme culturale di cui F.I. rivendica l'eredità -,
ad un "progetto politico generato dalla visione comunista
e marxista". Il primo dei due poli si qualificherebbe nel
concetto di indipendenza dell'intellettuale/artista dalla politica;
viceversa, gli intellettuali e artisti marxisti sarebbero i prodotti
del progetto comunista che li vorrebbe al pieno servizio della
propaganda ideologica. Conseguenza storica di tale progetto, infine,
la sistematica occupazione delle istituzioni culturali ("terra
di conquista per diffondere una visione univoca al servizio della
politica") che avrebbe prodotto "la mitologia - ancora
oggi così diffusa - secondo la quale la cultura non può
non essere di sinistra".
E' su quest'ultima frase che, secondo me, occorre soffermarsi.
Il punto fondamentale risiede nel fatto che Forza Italia decida
che è ora di fare sentire la propria voce nell'ambito della
cultura, e ciò in quanto riconosce essere questo un terreno
su cui la destra è assente da decenni.
Che la cultura non possa che essere di sinistra è una affermazione
che, già a livello intuitivo, stride ai fondamenti della
logica. Che dal dopoguerra in poi si sia prodotto in Italia un
primato della sinistra in ambito artistico e intellettuale è,
invece, un dato di fatto da cui occorre partire. Certo, la risposta
del manifesto di F.I. è tanto chiara quanto semplicistica:
tale primato sarebbe il risultato dell'occupazione sistematica
delle "truppe" marxiste all'interno delle grandi istituzioni,
fabbriche del prodotto intellettuale (università, accademie,
editoria, TV, produzione cinematografica, teatri stabili); la
riflessione umanistica nelle sue produzioni artistiche e/o intellettuali
avrebbe assunto tinte "sinistre" per il semplice fatto
che intellettuali ed artisti di destra, i veri liberi pensatori,
sarebbero stati ostracizzati dall'apparato dominante.
Ma qualcosa non convince. La storia ci insegna che l'esigenza
artistica non è totalmente ammaestrabile anche in presenza
di regimi autoritari; laddove esiste arte e cultura di regime,
chiusa e atrofizzata, nasce potente e libera una cultura popolare
antagonista. Ora, dov'è la produzione culturale del popolo
di destra? In quali campi, in questi cinquanta anni di supposto
regime comunista in Italia, l'intelligenza di destra ha saputo
produrre una controcultura? In quali forme si è concretizzata
la riflessione umanistica della destra italiana? Ma poi, c'è
stata una riflessione umanistica da destra? O già il fatto
stesso di porre in essere una riflessione, ossia ricercare eventuali
nuove verità e dubitare di ciò che appare assodato,
si scontra con una visione - appunto di destra - che non disdegna
di autodefinirsi conservatrice, che ama richiamarsi al rispetto
di tradizioni consolidate, che guarda con sospetto l'idea di progresso
e le novità che questo propone?
Analoghe riflessioni mi si sono
poste durante un dibattito sorto, in questi ultimi mesi, tra i
lettori de Il Mucchio Selvaggio , rivista settimanale
che ama frequentare i territori delle avanguardie artistiche -
musicali soprattutto, ma anche letterarie, teatrali, figurative
ecc. -, e che, contemporaneamente, non nasconde posizioni politiche
di esplicito disprezzo verso la destra italiana e i suoi capi.
Ora, molti lettori non capivano perché un giornale di critica
musicale quale è Il Mucchio dovesse trattare anche
di politica, assumendo, tra l'altro, posizioni esplicitamente
antiberlusconiane. I problemi posti erano, quindi, di due ordini:
in primo luogo i giovani lettori del settimanale contestavano
la necessità di una relazione tra arte e politica; in secondo
luogo, se la relazione aveva luogo, per quale motivo veniva conclusa
con una chiara opzione per posizioni di sinistra (opzione che
nel Mucchio , a dire il vero, non si traduce mai nell'identificazione
con alcun movimento o partito)?
Le reazioni di questi lettori mi hanno stupito non poco: ho sempre
ritenuto pienamente "naturale" l'atteggiamento del Mucchio .
Innaturale e miope mi sarebbe sembrata, semmai, una scelta di
segno opposto, ossia trattare di avanguardie artistiche ignorando
gli inestricabili legami che queste hanno con la vita sociale,
ignorando cioè che l'espressione artistica (compresa quella
musicale) è sempre espressione di un preciso modo di intendere,
pensare e vivere, la società e i rapporti sociali.
Voglio dire, allora, che esiste una musica di destra e una di
sinistra? O un'arte di destra e un'arte di sinistra? O che addirittura
il fatto stesso di occuparsi di arte e di cultura sia una cosa
solo di sinistra?
Ma di che arte parlo e di che sinistra parlo? Iniziamo con le
distinzioni.
Per quanto riguarda il concetto di sinistra, lungi da me l'idea
di identificare questa vaga cosa con una appartenenza partitica.
La sinistra che ho in mente io, quella in cui mi riconosco e che
è sempre più assente in parlamento, poggia la propria
esistenza sul libero esercizio della critica intellettuale piuttosto
che sull'appartenenza o sulla militanza. E' una sinistra che non
si riconosce nell'arroganza dei potenti di turno, che sogna una
società ove le relazioni non siano riconducibili sempre
e solo al profitto economico, una sinistra che rifugge dalle ovvietà
spiattellate dai mass-media, che non crede alle guerre giuste ,
alle lotte del bene contro il male , alle verità
popolari per cui gli arabi sono tutti terroristi e i meridionali
tutti mafiosi e gli albanesi tutti ladri e gli americani tutti
guerrafondai. Insomma, una sinistra che crede al valore della
comunicazione, dell'integrazione, della solidarietà; una
sinistra che abbatte i muri eretti da ogni fondamentalismo religioso
o laico.
Questa sinistra - che almeno fino agli anni '70 era reale e non
solo ideale - crede nella comunicazione tra uomini e popoli, e
proprio al fine di edificare una comunicazione sempre più
ampia e pregnante si affida ai prodotti artistici ed intellettuali
come a cavalli di legno che penetrino nella Troia dell'ignoranza
e dell'intolleranza. Questa sinistra utilizza il dubbio intellettuale
e l'arte; ricerca l'arte e si nutre di essa perché l'arte
è strumento di comunicazione ben più universale,
diretto e pionieristico, del linguaggio corrente.
Ma di quale arte parlo? Per quanto mi riguarda, l'arte è
inscindibile dall'idea di continua ricerca, novità, contaminazione.
Ma nulla di ciò deve essere fine a se stesso: la ricerca
di nuovi linguaggi serve per rendere più diretti ed efficaci
i contenuti della comunicazione. Anche questo meccanicismo tra
forma e contenuto, comunque, è riduttivo: in realtà
il processo creativo è qualcosa che agisce contemporaneamente
nelle due dimensioni, le quali a loro volta si annullano l'una
nell'altra. Fondamentale è che alla base ci sia sempre
una visione critica, un prendere posizione, un potente anelito
ad urlare i propri sentimenti, le proprie idee, la propria rabbia,
frustrazione, indignazione. Se tutto questo viene a mancare il
processo creativo non scatta e ciò che si produce è
pura vacuità, noiosa reiterazione di concetti e forme già
viste e sentite. Qui, credo, passa la linea di confine che separa
l'arte che graffia, denuncia, ricerca e fa ragionare, dall'arte
che conserva, rassicura e intrattiene. Un esempio ci viene da
A. Artaud, uno dei più grandi artisti del secolo passato:
"
il dovere dello scrittore, del poeta, non è
di rinchiudersi vilmente in un testo, in un libro, in una rivista
da cui non uscirà mai più, ma, al contrario, di
uscire fuori per scuotere, per attaccare lo spirito pubblico;
se no a che cosa serve?". Non a caso Artaud non si limitava
ad esprimere le sue denuncie sociali con linguaggi correnti, altrimenti
avrebbe fatto il politico; il suo linguaggio era pura sperimentazione
artistica, dirompente e scioccante, giocato su una compenetrazione
tra il contenuto e le sonorità vocali con cui questo era
espresso. Artaud voleva parlare del disagio di vivere, e effettivamente
chiunque assistette alle sue performance ne uscì con la
consapevolezza di avere sperimentato sulla propria pelle il disagio
esistenziale.
Torniamo allora alla domanda precedente: una determinata scelta
nell'ambito della creazione (o fruizione) intellettuale e artistica
equivale ad una precisa e non casuale scelta di campo politico?
Ovvero: c'è relazione (almeno in Italia) tra l'essere di
sinistra e il privilegiare una determinata musica, una determinata
letteratura, determinati filoni cinematografici e teatrali, ecc.?
Da quanto detto sopra, direi sicuramente che frequentare i territori
sperimentali dell'arte e la riflessione umanistica che ne sta
alla base equivale - a volte anche senza averne piena consapevolezza
- ad assumere posizioni anomale e liminari in un ambito che è
sempre e comunque sociopolitico. Ecco che la preferenza artistica
diviene, in qualche modo, scelta di significato politico.
Quindi tutto questo si traduce automaticamente in una opzione
di campo di sinistra e solo di sinistra? Automaticamente no, ma
sicuramente la sinistra italiana ha (aveva?) un patrimonio storico
di idee che si rifanno all'uso del dubbio, al coraggio di andare
oltre la superficie, al non fermarsi all'ovvio, a denunciare le
iniquità sociali, ad amare le diversità. Laddove
nella destra ha sempre prevalso la ricerca della sicurezza nella
conservazione , nonché l'esaltazione orgogliosa
della propria irriducibile diversità di fronte al resto
del mondo (in poche parole: la negazione dell'evoluzione storica
come prodotto di contaminazioni e sincretismi). A mio parere,
allora, l'assenza della destra nei campi della ricerca artistica
ed intellettuale si spiega proprio con gli inestricabili, direi
"ontologici", legami che tale ricerca ha con l'inquietudine
sociale ed esistenziale e con un conseguente approccio critico
allo status quo sociopolitico (uno status quo che è espressione
di componenti ideologiche di destra); viceversa, quell'area di
sinistra che tale status quo non riesce a digerirlo, può
trovare nella produzione intellettuale ed artistica quegli strumenti
di ricerca ed espressione che vivificano il sogno della "possibilità
di un altro mondo". Ecco perché, credo, la grande
maggioranza delle persone che amano la ricerca nelle arti, la
contaminazione multidisciplinare e multirazziale, finisce col
riconoscersi nel variegato universo della sinistra italiana: la
militanza nell'area della sinistra è forte nella musica,
nella letteratura, nelle arti figurative, nel cinema; è
schiacciante nel teatro. Semmai lo scollamento avviene al momento
del voto: per chi ha certi ideali è dura riconoscersi nella
sinistra dei partiti; più invitante è l'astensione.
Quindi, se scegliere l'amore per certa arte non equivale certo
a votare DS o Rifondazione, sicuramente equivale a prendere posizione,
a non uniformarsi alla massa. Ed oggi che la massa è sempre
più dominata dall'uomo-logo Berlusconi e dal suo anti-pensiero
unico, esaltazione delle misere ovvietà cattoliche e borghesi
e capitalistiche, la relazione tra determinate tendenze artistiche
e critica sociale "da sinistra" appare quasi deterministica.
Fabio Massimo Franceschelli
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