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  L'arte come scelta politica
di F.M. Franceschelli
RACCE AMNESTICHE
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LINÀMI
Logica e inganno dell'opera di massa
L'Arte come scelta politica


IVACE INQUISIZIONE
11 09 01
Le città invisibili
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Pensieri e spensieri

 

Nei giorni passati ha goduto di una certa risonanza all'interno dei media la presentazione di un "Manifesto per la Cultura" prodotto da due nomi "forti" dell'apparato politico di Forza Italia, Marcello Dell'Utri (responsabile Dipartimento Cultura di Forza Italia) e Sandro Bondi (responsabile Dipartimenti di Forza Italia).
Non è il caso di entrare troppo nel merito del manifesto forzista; chiunque ne sia interessato può visionarlo nel sito di F.I. e constatare direttamente la pochezza che ne caratterizza tanto i momenti dell'analisi storica, quanto quelli programmatici: ambedue si modellano a partire dall'enunciazione di una dicotomia strutturale storicamente definitasi, che contrapporrebbe un insieme culturale definito dalle componenti laica-cristiana-umanistica-liberale-riformista - insieme culturale di cui F.I. rivendica l'eredità -, ad un "progetto politico generato dalla visione comunista e marxista". Il primo dei due poli si qualificherebbe nel concetto di indipendenza dell'intellettuale/artista dalla politica; viceversa, gli intellettuali e artisti marxisti sarebbero i prodotti del progetto comunista che li vorrebbe al pieno servizio della propaganda ideologica. Conseguenza storica di tale progetto, infine, la sistematica occupazione delle istituzioni culturali ("terra di conquista per diffondere una visione univoca al servizio della politica") che avrebbe prodotto "la mitologia - ancora oggi così diffusa - secondo la quale la cultura non può non essere di sinistra".
E' su quest'ultima frase che, secondo me, occorre soffermarsi. Il punto fondamentale risiede nel fatto che Forza Italia decida che è ora di fare sentire la propria voce nell'ambito della cultura, e ciò in quanto riconosce essere questo un terreno su cui la destra è assente da decenni.
Che la cultura non possa che essere di sinistra è una affermazione che, già a livello intuitivo, stride ai fondamenti della logica. Che dal dopoguerra in poi si sia prodotto in Italia un primato della sinistra in ambito artistico e intellettuale è, invece, un dato di fatto da cui occorre partire. Certo, la risposta del manifesto di F.I. è tanto chiara quanto semplicistica: tale primato sarebbe il risultato dell'occupazione sistematica delle "truppe" marxiste all'interno delle grandi istituzioni, fabbriche del prodotto intellettuale (università, accademie, editoria, TV, produzione cinematografica, teatri stabili); la riflessione umanistica nelle sue produzioni artistiche e/o intellettuali avrebbe assunto tinte "sinistre" per il semplice fatto che intellettuali ed artisti di destra, i veri liberi pensatori, sarebbero stati ostracizzati dall'apparato dominante.
Ma qualcosa non convince. La storia ci insegna che l'esigenza artistica non è totalmente ammaestrabile anche in presenza di regimi autoritari; laddove esiste arte e cultura di regime, chiusa e atrofizzata, nasce potente e libera una cultura popolare antagonista. Ora, dov'è la produzione culturale del popolo di destra? In quali campi, in questi cinquanta anni di supposto regime comunista in Italia, l'intelligenza di destra ha saputo produrre una controcultura? In quali forme si è concretizzata la riflessione umanistica della destra italiana? Ma poi, c'è stata una riflessione umanistica da destra? O già il fatto stesso di porre in essere una riflessione, ossia ricercare eventuali nuove verità e dubitare di ciò che appare assodato, si scontra con una visione - appunto di destra - che non disdegna di autodefinirsi conservatrice, che ama richiamarsi al rispetto di tradizioni consolidate, che guarda con sospetto l'idea di progresso e le novità che questo propone?

Analoghe riflessioni mi si sono poste durante un dibattito sorto, in questi ultimi mesi, tra i lettori de Il Mucchio Selvaggio , rivista settimanale che ama frequentare i territori delle avanguardie artistiche - musicali soprattutto, ma anche letterarie, teatrali, figurative ecc. -, e che, contemporaneamente, non nasconde posizioni politiche di esplicito disprezzo verso la destra italiana e i suoi capi. Ora, molti lettori non capivano perché un giornale di critica musicale quale è Il Mucchio dovesse trattare anche di politica, assumendo, tra l'altro, posizioni esplicitamente antiberlusconiane. I problemi posti erano, quindi, di due ordini: in primo luogo i giovani lettori del settimanale contestavano la necessità di una relazione tra arte e politica; in secondo luogo, se la relazione aveva luogo, per quale motivo veniva conclusa con una chiara opzione per posizioni di sinistra (opzione che nel Mucchio , a dire il vero, non si traduce mai nell'identificazione con alcun movimento o partito)?
Le reazioni di questi lettori mi hanno stupito non poco: ho sempre ritenuto pienamente "naturale" l'atteggiamento del Mucchio . Innaturale e miope mi sarebbe sembrata, semmai, una scelta di segno opposto, ossia trattare di avanguardie artistiche ignorando gli inestricabili legami che queste hanno con la vita sociale, ignorando cioè che l'espressione artistica (compresa quella musicale) è sempre espressione di un preciso modo di intendere, pensare e vivere, la società e i rapporti sociali.
Voglio dire, allora, che esiste una musica di destra e una di sinistra? O un'arte di destra e un'arte di sinistra? O che addirittura il fatto stesso di occuparsi di arte e di cultura sia una cosa solo di sinistra?
Ma di che arte parlo e di che sinistra parlo? Iniziamo con le distinzioni.
Per quanto riguarda il concetto di sinistra, lungi da me l'idea di identificare questa vaga cosa con una appartenenza partitica. La sinistra che ho in mente io, quella in cui mi riconosco e che è sempre più assente in parlamento, poggia la propria esistenza sul libero esercizio della critica intellettuale piuttosto che sull'appartenenza o sulla militanza. E' una sinistra che non si riconosce nell'arroganza dei potenti di turno, che sogna una società ove le relazioni non siano riconducibili sempre e solo al profitto economico, una sinistra che rifugge dalle ovvietà spiattellate dai mass-media, che non crede alle guerre giuste , alle lotte del bene contro il male , alle verità popolari per cui gli arabi sono tutti terroristi e i meridionali tutti mafiosi e gli albanesi tutti ladri e gli americani tutti guerrafondai. Insomma, una sinistra che crede al valore della comunicazione, dell'integrazione, della solidarietà; una sinistra che abbatte i muri eretti da ogni fondamentalismo religioso o laico.
Questa sinistra - che almeno fino agli anni '70 era reale e non solo ideale - crede nella comunicazione tra uomini e popoli, e proprio al fine di edificare una comunicazione sempre più ampia e pregnante si affida ai prodotti artistici ed intellettuali come a cavalli di legno che penetrino nella Troia dell'ignoranza e dell'intolleranza. Questa sinistra utilizza il dubbio intellettuale e l'arte; ricerca l'arte e si nutre di essa perché l'arte è strumento di comunicazione ben più universale, diretto e pionieristico, del linguaggio corrente.
Ma di quale arte parlo? Per quanto mi riguarda, l'arte è inscindibile dall'idea di continua ricerca, novità, contaminazione. Ma nulla di ciò deve essere fine a se stesso: la ricerca di nuovi linguaggi serve per rendere più diretti ed efficaci i contenuti della comunicazione. Anche questo meccanicismo tra forma e contenuto, comunque, è riduttivo: in realtà il processo creativo è qualcosa che agisce contemporaneamente nelle due dimensioni, le quali a loro volta si annullano l'una nell'altra. Fondamentale è che alla base ci sia sempre una visione critica, un prendere posizione, un potente anelito ad urlare i propri sentimenti, le proprie idee, la propria rabbia, frustrazione, indignazione. Se tutto questo viene a mancare il processo creativo non scatta e ciò che si produce è pura vacuità, noiosa reiterazione di concetti e forme già viste e sentite. Qui, credo, passa la linea di confine che separa l'arte che graffia, denuncia, ricerca e fa ragionare, dall'arte che conserva, rassicura e intrattiene. Un esempio ci viene da A. Artaud, uno dei più grandi artisti del secolo passato: "…il dovere dello scrittore, del poeta, non è di rinchiudersi vilmente in un testo, in un libro, in una rivista da cui non uscirà mai più, ma, al contrario, di uscire fuori per scuotere, per attaccare lo spirito pubblico; se no a che cosa serve?". Non a caso Artaud non si limitava ad esprimere le sue denuncie sociali con linguaggi correnti, altrimenti avrebbe fatto il politico; il suo linguaggio era pura sperimentazione artistica, dirompente e scioccante, giocato su una compenetrazione tra il contenuto e le sonorità vocali con cui questo era espresso. Artaud voleva parlare del disagio di vivere, e effettivamente chiunque assistette alle sue performance ne uscì con la consapevolezza di avere sperimentato sulla propria pelle il disagio esistenziale.
Torniamo allora alla domanda precedente: una determinata scelta nell'ambito della creazione (o fruizione) intellettuale e artistica equivale ad una precisa e non casuale scelta di campo politico? Ovvero: c'è relazione (almeno in Italia) tra l'essere di sinistra e il privilegiare una determinata musica, una determinata letteratura, determinati filoni cinematografici e teatrali, ecc.? Da quanto detto sopra, direi sicuramente che frequentare i territori sperimentali dell'arte e la riflessione umanistica che ne sta alla base equivale - a volte anche senza averne piena consapevolezza - ad assumere posizioni anomale e liminari in un ambito che è sempre e comunque sociopolitico. Ecco che la preferenza artistica diviene, in qualche modo, scelta di significato politico.
Quindi tutto questo si traduce automaticamente in una opzione di campo di sinistra e solo di sinistra? Automaticamente no, ma sicuramente la sinistra italiana ha (aveva?) un patrimonio storico di idee che si rifanno all'uso del dubbio, al coraggio di andare oltre la superficie, al non fermarsi all'ovvio, a denunciare le iniquità sociali, ad amare le diversità. Laddove nella destra ha sempre prevalso la ricerca della sicurezza nella conservazione , nonché l'esaltazione orgogliosa della propria irriducibile diversità di fronte al resto del mondo (in poche parole: la negazione dell'evoluzione storica come prodotto di contaminazioni e sincretismi). A mio parere, allora, l'assenza della destra nei campi della ricerca artistica ed intellettuale si spiega proprio con gli inestricabili, direi "ontologici", legami che tale ricerca ha con l'inquietudine sociale ed esistenziale e con un conseguente approccio critico allo status quo sociopolitico (uno status quo che è espressione di componenti ideologiche di destra); viceversa, quell'area di sinistra che tale status quo non riesce a digerirlo, può trovare nella produzione intellettuale ed artistica quegli strumenti di ricerca ed espressione che vivificano il sogno della "possibilità di un altro mondo". Ecco perché, credo, la grande maggioranza delle persone che amano la ricerca nelle arti, la contaminazione multidisciplinare e multirazziale, finisce col riconoscersi nel variegato universo della sinistra italiana: la militanza nell'area della sinistra è forte nella musica, nella letteratura, nelle arti figurative, nel cinema; è schiacciante nel teatro. Semmai lo scollamento avviene al momento del voto: per chi ha certi ideali è dura riconoscersi nella sinistra dei partiti; più invitante è l'astensione.
Quindi, se scegliere l'amore per certa arte non equivale certo a votare DS o Rifondazione, sicuramente equivale a prendere posizione, a non uniformarsi alla massa. Ed oggi che la massa è sempre più dominata dall'uomo-logo Berlusconi e dal suo anti-pensiero unico, esaltazione delle misere ovvietà cattoliche e borghesi e capitalistiche, la relazione tra determinate tendenze artistiche e critica sociale "da sinistra" appare quasi deterministica.

Fabio Massimo Franceschelli

 


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