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Pochi secondi di immagini iniziali
per capire che ciò a cui sto assistendo non segue le tradizionali
strutture spazio-temporali della narrazione cinematografica; allora
via la logica lineare e sequenziale, e facciamoci contenitore
aperto e vuoto, atto ad ospitare il lacerante bombardamento di
bocche urlanti ed occhi espansi che mi aspetta. Credo che anche
il Cublai Khan debba aver scelto questa via nell'ascoltare Marco
Polo. L'immagine di un babbuino in gabbia è sineddoche
del film, ma ancora non lo so.
L'invisibile di Michelangelo Ricci non sta in ciò che si
cela ai nostri occhi borghesemente strutturati; l'invisibile non
sta in quello che ogni giorno facciamo finta di non vedere, in
quello che accade nel vicolo buio dietro l'angolo, o sotto il
ponte che attraversiamo ogni mattina, o dietro quella porta perennemente
chiusa: il paradosso del film è che l'invisibile metropolitano
ottiene la sua epifania nell'eccesso di visibilità. E'
una visibilità, quella dipinta da Ricci, che bombarda senza
sosta il soggetto percepente: luci, suoni e rumori, odori, e anche
tatto, eccesso di tatto, orgia di tatto, a conferma che il connotato
esistenziale dell'individuo metropolitano non è nella piatta,
urlante e monotona solitudine, ma nel caos, nel vortice di iperstimolazioni
che tendono a confondersi, a farsi magma, a trasfigurarsi in una
sorta di silente radiazione di fondo che tuttavia, a differenza
di quella scoperta da Penzias e Wilson, sembra precedere il Big
Bang piuttosto che seguirlo. Ed effettivamente non manca
nel lungometraggio una sorta di atmosfera pre-apocalittica: la
si ritrova nei corpi e nei visi sempre più deformati, urlanti,
animaleschi, che avrebbero fatto felice Bosch; l'annuncia il cane,
che traina a passeggio la cieca e ammonente veggenza di Tiresia;
la segnala la scacchiera, la cui immagine apre il film, ne scandisce
l'incedere (partita a scacchi contro la morte) e lo chiude (la
serranda che si arrotola non è altro che una scacchiera
che si contrae in se stessa). E poi amplessi di rumori e grida
e luci che trasfigurano ogni contorno quadridimensionale verso
un cosmo in disfacimento, rotolante progressivamente nel caos
bianco, accecante, incandescente; un caos onnivoro che ingloba
come un buco nero ma che, al contrario di questo, rilascia luce
bianca, come bianca fu la luce che precedette l'esplosione di
Little Boy ad Hiroshima.
La città è invisibile perché ci ha sommerso,
è consustanziale a noi e noi lo siamo ad essa. Non la identifichiamo
nei suoi precisi contorni perché per farlo ne dovremmo
essere distaccati ma non lo siamo, però la percepiamo,
la intuiamo, la facciamo nostra come nostra si può fare
un'astrazione, l'idea di Dio, di esistenza, di sostanza. Frammenti
di sensazioni, random play di suggestioni, ordalie di
intenzioni e finalità e delusioni: la città tentacolare
che Marco Polo Ricci icasticamente ci narra è una città
che si può solo ingoiare, digerire e defecare, altrimenti
ci strangola.
Cinquanta minuti di distorsioni e lacerazioni dell'anima, poi
la fine: il babbuino resta in gabbia e il viaggio si chiude (con
una coda - quella del film, non quella del babbuino - inutilmente
lunga).
Fabio Massimo Franceschelli
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