Header anno ii #4 - Inquisizione Inviate gli articoli a questo individuo il lettore ideale... Home


  Le città invisibili - Michelangelo Ricci
di F.M. Franceschelli
RACCE AMNESTICHE
I Diavoli
Professione reporter


LINÀMI
Logica e inganno dell'opera di massa
L'Arte come scelta politica


IVACE INQUISIZIONE
11 09 01
Le città invisibili
Contro recensione


O EHIUOI
Area Filtro (CIR)
Vocabolario dell'inutile (A-F)
Pensieri e spensieri

 

Pochi secondi di immagini iniziali per capire che ciò a cui sto assistendo non segue le tradizionali strutture spazio-temporali della narrazione cinematografica; allora via la logica lineare e sequenziale, e facciamoci contenitore aperto e vuoto, atto ad ospitare il lacerante bombardamento di bocche urlanti ed occhi espansi che mi aspetta. Credo che anche il Cublai Khan debba aver scelto questa via nell'ascoltare Marco Polo. L'immagine di un babbuino in gabbia è sineddoche del film, ma ancora non lo so.
L'invisibile di Michelangelo Ricci non sta in ciò che si cela ai nostri occhi borghesemente strutturati; l'invisibile non sta in quello che ogni giorno facciamo finta di non vedere, in quello che accade nel vicolo buio dietro l'angolo, o sotto il ponte che attraversiamo ogni mattina, o dietro quella porta perennemente chiusa: il paradosso del film è che l'invisibile metropolitano ottiene la sua epifania nell'eccesso di visibilità. E' una visibilità, quella dipinta da Ricci, che bombarda senza sosta il soggetto percepente: luci, suoni e rumori, odori, e anche tatto, eccesso di tatto, orgia di tatto, a conferma che il connotato esistenziale dell'individuo metropolitano non è nella piatta, urlante e monotona solitudine, ma nel caos, nel vortice di iperstimolazioni che tendono a confondersi, a farsi magma, a trasfigurarsi in una sorta di silente radiazione di fondo che tuttavia, a differenza di quella scoperta da Penzias e Wilson, sembra precedere il Big Bang piuttosto che seguirlo. Ed effettivamente non manca nel lungometraggio una sorta di atmosfera pre-apocalittica: la si ritrova nei corpi e nei visi sempre più deformati, urlanti, animaleschi, che avrebbero fatto felice Bosch; l'annuncia il cane, che traina a passeggio la cieca e ammonente veggenza di Tiresia; la segnala la scacchiera, la cui immagine apre il film, ne scandisce l'incedere (partita a scacchi contro la morte) e lo chiude (la serranda che si arrotola non è altro che una scacchiera che si contrae in se stessa). E poi amplessi di rumori e grida e luci che trasfigurano ogni contorno quadridimensionale verso un cosmo in disfacimento, rotolante progressivamente nel caos bianco, accecante, incandescente; un caos onnivoro che ingloba come un buco nero ma che, al contrario di questo, rilascia luce bianca, come bianca fu la luce che precedette l'esplosione di Little Boy ad Hiroshima.
La città è invisibile perché ci ha sommerso, è consustanziale a noi e noi lo siamo ad essa. Non la identifichiamo nei suoi precisi contorni perché per farlo ne dovremmo essere distaccati ma non lo siamo, però la percepiamo, la intuiamo, la facciamo nostra come nostra si può fare un'astrazione, l'idea di Dio, di esistenza, di sostanza. Frammenti di sensazioni, random play di suggestioni, ordalie di intenzioni e finalità e delusioni: la città tentacolare che Marco Polo Ricci icasticamente ci narra è una città che si può solo ingoiare, digerire e defecare, altrimenti ci strangola.
Cinquanta minuti di distorsioni e lacerazioni dell'anima, poi la fine: il babbuino resta in gabbia e il viaggio si chiude (con una coda - quella del film, non quella del babbuino - inutilmente lunga).

Fabio Massimo Franceschelli

 


torna alla rivista