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  Pensieri e spensieri su teatro e dintorni
di Daniele Timpano
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Logica e inganno dell'opera di massa
L'Arte come scelta politica


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11 09 01
Le città invisibili
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Pensieri e spensieri

 

"Ciao lettore. Quella che segue è la prima parte di una compilazione parziale di miei appunti sul teatro e immediati paraggi che ho pensato bene o male di condividere con te. Spero tu sia un teatrante o musicante o almeno un poco curioso o poco di quel che segue potrà forse interessarti. Si tratta semplicemente di pensieri, spunti o abbozzi teorici, riflessioni in qualche caso anche private di Daniele Timpano attore, autore e se vogliamo anche regista o roba del genere. Ogni appunto o quasi è preceduto dalla data di composizione e l'ordine di compilazione è tutto sommato quello cronologico, in un percorso ideale che parte dal lontano '96 per fermarsi quattro anni dopo in piena estate '99. Spero in futuro di avere la possibilità di sistemare gli appunti successivi in una seconda compilazione che riesca a raggiungere il presente millennio. L'apparente pretenziosità di questa mia pubblica presentazione dei cazzi miei che chi cazzo sono io non è affatto una pretesa; semplicemente penso che condividere pubblicamente quello che è un percorso evolutivo personale sia la cosa più utile, bella e stimolante che una artista possa fare; e non importa se il cammino mio o il tuo sia stato sinora lungo o un po' modesto, è la voglia di percorrerlo tutto che è la più utile, bella e stimolante delle voglie.
Buona lettura"


Daniele Timpano 12/10/02

Sul teatro. Quando voglio mostrare a qualcuno come funziona il mio lavoro lo porto nel corridoio che mi scorre rettilineo qui vicino e gli rovescio sui piedi i miei sacchi ripieni di bambole rotte. Tra testoline decollate e braccioline scardinate io perdo io il mio tempo ad attaccarle e aggiustarle e quando tutto è di nuovo un tutto, con perizia lo rismonto e vado via.
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25/8/96

Bombolo è più teatrale di Gassman. Teatralmente interessanti sono il vissuto ed il temperamento, che rendono ogni gesto e ogni parola già spettacolo di per se stessi, si può anzi dire che l’attore sia l’artefatta copia di queste doti naturali. Paradossalmente Gassman è la copia di Bombolo e Bombolo l’originale di Gassman. Tra Bombolo e Gassman in realtà le differenze sono esclusivamente tecniche e culturali, l'Italia rurale e l'Italia cittadina, il topo di campagna e il topo di città.
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Febbraio '97

Io ho bisogno di controllare ciò che faccio, di sapere cosa, come e perché quello che faccio è fatto, prima di non pensarci più e precipitare allo sbaraglio una volta per sempre. In bilico tra ricerca emotiva ed autocompiacimento, ricerco la convergenza del mio illuminismo razionale con le mie istanze istintuali ed intanto mastico carne cruda e scondita.
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28/2/97

L’arte è carne morta, l’artista un vegetale.

Non esiste l’arte ma ogni sedere su una tazza ci ricorda dell’artista.

La libertà è una triste miseria che può incuriosire solo un prigioniero. Umanità in catene, se solo sapessi quanto sei fortunata ad avere una così allettante carota!

Tutto ciò che è mio, è del mondo. Non voglio vita privata, tutto ciò che è mio dev’essere pubblico e limpido. Lascio ad altri la nebbia e la bugia.

Non capisco e non approvo questo amore esclusivo per i bei film i bei libri i bei quadri i bei ragazzi le belle cose di ottimo gusto. Una cosa è bella in quanto esiste ed ha una sua ragione, anche arbitraria. Il suo semplice esistere è già bellezza. Bello e brutto sono concetti esteriori da accartocciare in palletta sul fondo di un cestino. Tutto è sempre e in ogni caso bello. Dogmaticamente. Il fatto che l’oggetto in esame possa indubbiamente essere pecoreccio e deficiente ne mette forse in dubbio la consapevolezza o l’utilità ma non di certo la sensatezza, l’interesse e, di fatto, la bellezza.
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DELL’ARTE COME VANITA’

Un artista non deve servire altri che se stesso. Qualcosa, certo, lo sovrasta ma quella cosa non è la somma Arte, non è Dio, non è lo stato, non è niente di etico-civico-mistico-religioso: l’artista è sovrastato -deve squallidamente esserlo- solamente da se stesso. Un se stesso scolpito e continuamente migliorato dalla sua propria vanità, un modello in perpetua e necessaria evoluzione, un padrone che il nostro artista, devoto ed opportunista al contempo, serve con fedeltà più lungimirante della morte.

L’artista è quindi necessariamente ortolano dei cavoli suoi, e la sua fonte d’energia e d’azione non può che essere il basso individualismo, ma l’artista è anche necessariamente e prima di tutto puttana da pubblico ed il suo non può che essere un orto coltivato in vetrina, alla vista di tutti.

Le sue vergogne, i suoi pregi, i suoi difetti sono meretricio da mondovisione, esibizione da commercio, frattaglie per spettatori paganti: Arte è aprire le gambe ma non davanti al regista, al produttore, all’editore ma di fronte al pubblico. Arte è un dono che si fa al mondo, è esibizione, confessione di se, é speranza e pretesa che non vi sia più bel regalo che se stessi, anche artefatti. Ogni Artista è un po’ un Gesù ed aprire le gambe al prossimo è dire "Son bello, eh? Questo è il mio corpo, prendete e saziatevene!" , è suo sacro dovere, la più totale forma di comunicazione ed il supremo olocausto.

Dell’uomo che incrocia le gambe e le tiene serrate non fidarti: non è un artista e quelle che racconta sono barzellette già sentite raccontate con parole già viste.
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Estate 1997

A traballanti figure esterne ho sempre via via assegnato in delega i miei sogni di comprensione materna che alla mia mamma partoriente invece dacché mi sono nato ho sempre più negato. E la figura più esterna e più terrificante, quella che -altro sesso a parte- forse più attira e più spaventa é proprio l’ottuso cieco sordo pubblico. L’ottusa cieca sorda platea, che però ci vede sempre benissimo e trasforma ogni sentimento in mano che elemosina un applauso e in ricompensa per la spesa d’un biglietto, dove tutto è vendita e vendita dev’essere.
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15/12/97

Il linguaggio è farina inutile. Non c’è possibilità di persuadere. La posizione di chi parla non è mai neutra e realmente disponibile. Non si vuole essere persuasi, si vuole aver ragione, ed allora non si è persuasi e si ha ragione. Non si cerca la verità ma una vittoria consolatoria sull’interlocutore, una conferma terapeutica della nostra supremazia.
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30/4/98

Meglio un cane entusiasta che un grande attore sotto tono. L’impegno patetico del primo fa tenerezza e compassione mentre la sonnolenza del secondo desta solo irritazione, né poca né poca, ma tanta e mortificante, crea un distacco epico dallo spettatore fondato sulla disonestà.
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8/5/98

Per l’attore ambizioso un bel culo è meglio di un lungo pisello. (luogo comune o buco in comune?)
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30/5/98

Non si può che essere elementi di disturbo. Una macchia nera su una pagina bianca è miserabile ma un niente bianco su una pagina bianca è inesistente, per partecipare di una pagina bisogna comprometterne la bellezza. In una pagina con una macchia finisce per non esser ricordata che la macchia.
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Giugno 1998

I personaggi non hanno ragioni, devono stare zitti, parlano sin troppo su carta. Il personaggio è la carne cruda con la quale l’attore-leone da circo è mantenuto in mansueta obbediente ignoranza di se dal regista-domatore di papere.

Il regista, che lotta per uccidere la vita in favore della "comprensibilità" divertendosi a costruire colorati e dinamici Tableau vivants di autentici cadaveri tenuti in piedi con le corde, è il grande bonificatore che spazzando via la palude uccide miliardi di zanzare con altrettanto diritto alla vita di lui e di qualunque contadino. Il regista va spazzato via dalla palude, Il leone dovrà sbranare il domatore, dovrà pur finire il tempo degli Zar!
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29/7/98

Il mondo è un cimitero di idioti e l’unica consolazione è la speranza sospesa di poter essere promosso nella classe dei becchini. Non c’è più niente da creare, non c’è che ricoprire di terra gli obbrobri degli altri.
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21/9/98

Se fossi una zanzara io, non mi accontenterei di succhiare sangue. Vorrei conoscere, esplorare, sgusciare in una bocca, in un orecchio, in un naso, visitare dall’interno la persona o bestiaccia che saccheggio. Approfondire, approfondire, anche una zanzara deve approfondire il prossimo, neanche una zanzara può permettersi d’essere superficiale. Figuriamoci un attore.
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28/9/98

Non sono un "attore di posa", io sono le parole che dico. E tutto il resto è "prosa".
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1/10/98

Non Brecht, non (mai!) Stanislawski: l’attore che preferisco è il gigione-genio -a patto che sia genio-, lo stupra umori e personaggi, la presenza scenico-carismatica individuale dell’attore "cantante di parole" e "pittore di gesti" -a patto che abbia davvero la convinzione fanatica di avere qualcosa da dire, di esser lì dove lo vedo per un motivo, almeno uno.
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5/10/98

Non si può avere a priori una fiducia costante in se,
quando recito, quando scrivo, quando vivo,
se sono bravo sono bravo, se sono cane sono cane,
sono le cose che faccio che di volta in volta mi battezzano
col nome che di volta in volta merito.
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Dicembre 1998

Le parole sono importanti e proprio per questo andrebbero buttate via ma è sempre un peccato, in quanto oltre che importanti sono anche -specie se si parla di grossi autori- spesso molto buone e quindi l’ideale è sempre mangiarsele da soli crude senza neppure cercare di offrirle stracondite e stracotte all’inappetente spettatore sordo cieco che potrà comunque mangiare quel che più gli spetta appena un po’ più tardi al ristorante. Se proprio ne ha fame può strapparcene un pezzo di bocca ma è inutile condirgliele: credere che un pizzico di sale mi faccia ingozzare di merda è una clamorosa ingenuità e, sopratutto, uno spreco di sale.

L’attore modello è quello che in scena si fa i fatti suoi, mangia, caga, piscia, trasforma la scena in un pubblico e guarda la sala che fa, lascia fare alla sala. Lo spettacolo vero, quello nuovo ogni sera, è il pubblico, rispetto al quale quanto avviene sulla scena è un elaborato e geniale contrappunto. Il pubblico ha, per la natura collettiva stessa del teatro, un potere immenso sull'attore, potere che non esercita più se non in forma inconsapevole. Paradossalmente ha insieme il più grande dei ruoli e il più piccolo talento. Sulla scena ed in platea, Il teatro è diventato il parcheggio degli spiriti mosci, dei cervelli disattenti, degli applausi cortesi e distratti . Pubblico modello, attivo e vitale, l’unico per il quale l’evento spettacolare esiste ed ha un peso ed una preparazione, un superstite, il solo pubblico non individuale e non critico, partecipe ancora di una comunanza collettiva, è quello dello stadio: il tifoso. Testo modello è la partita di pallone. I miei modelli sono questi. Tutto il resto è piano bar. Sottofondo.
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Sull’illuminazione. Non c'è illuminazione dall'esterno. Il personaggio o un tizio preposto (il tecnico luci) accende e spegne candele ove occorra. Non c'è neanche una scena vera e propria, solo luci diegetiche: una montagna di televisioni accese accatastate, oggetti e persone fluorescenti, un falò riflesso in cento specchi appesi per la scena, il flash di una macchina fotografica, una timida bajou nelle tenebre, ecc. Più libertà possibile nell'utilizzo dello spazio scenico, introduzione di un salutare margine di Alea. Ogni personaggio dovrebbe letteralmente brillare di luce propria, magari dipinto di vernice fosforescente su un fondo di buio e scorrazzare sul palco e tra la gente senza cercarsi la luce o posizioni prefabbricate in prova, col minimo della premeditazione ed il massimo della consapevolezza di sé.
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Gennaio 1999

I personaggi non esistono. C'è un solo personaggio con differenti vocalità schizofrenetiche che si alternano continuamente a seconda del ruolo/maschera che di volta in volta si appiccica in viso. per affrontare le diverse situazioni. Ogni battuta costituisce un mondo a parte, persino ogni frase o parola e non va vista in rapporto ai mai troppo larghi binari imposti da un personaggio. Ogni battuta, ogni frase, ogni parola conducono da qualche parte indipendentemente dal calcolo delle probabilità caratteriali. Il rischio è chiaramente la monotonia, il livellamento a di ciascun personaggio al tipo unico del camaleonte ciarlante, con distinzioni basate su elementi semplicemente esteriori quali i lineamenti, la corporatura od il timbro/registro vocale dei singoli attori. Il vantaggio è forse l'ennesimo momentaneo tramonto del tipo psicologico.
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Nessuno se non imbecille chiederebbe a un Burri o ad uno Schonberg di dimostrare di essere buoni pittori o compositori dipingendo una pala d'altare o un cartellone pubblicitario o componendo una canzoncina popolare o una fuga. Probabilmente saprebbero farlo ma nemmeno mi interessa. Il lavoro su sé stessi e l'evoluzione personale sono necessità irrinunciabili per ogni "artista" ed anche per l'attore; l'ecletticità no; è un fattore addizionale sottomesso ad energia e personalità -autentiche condizioni sine qua non di ogni individualità creativa. Partendo da queste due premesse si sviluppa l'evoluzione personale, naturalmente tramite un sempre maggiore dominio tecnico. Enrico Bai dipinge teste, probabilmente le dipingerà tutta la vita, la tecnica cambia ma le teste rimangono.
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Ogni personaggio è una monade autosufficiente, il che si sposa bene con l'illuminazione individuale per autofluorescenza. Il modello spettacolare,irraggiungibile, sarebbe l'autocombustione spontanea indolore a comando.
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Aprile 1999

Molti miei personaggi sono costruiti sul fastidio che mi danno le persone, me compreso: i loro atteggiamenti, le loro pose, la loro educazione, tutto ciò che le rende ostentate e/o false, bugiarde, incomplete come le scenografie piatte coi puntelli d'un film western. Il contrasto tra l'argenteria esposta e le lerce posate che nasconde è l'ossatura ricorrente delle mie marionette sceniche.
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Ogni replica ha un potere spaventoso su di me, impossibile un atteggiamento neutro del tipo: "è il mio lavoro". L'approccio è sempre quello stressante: "è la mia vita". O va benissimo o va malissimo, se benissimo sono felicissimo se malissimo distrutto. Autostima ed autoaffermazione non sono mai solide ma determinate di volta in volta dall'andamento del mio lavoro.
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Maggio 1999

Comunque io non so scrivere di personaggi, i miei non sono personaggi ma persone che di volta in volta rubano pose o parole ai personaggi senza riuscire ad avere una propria personalità coerente. Ci sono delle forme, che non siamo noi e che non ci appartengono, che indossiamo a seconda delle occasioni per affrontarle meglio. Non siamo che copie più o meno convinte di irreali modelli mediali, irragiungibili non perché al di là delle nostre forze ma perché inesistenti.
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4/6/96 [rivisitato 4/6/99]

Sulla scena bisogna muoversi molto, meglio se troppo, anche con fretta, se necessario anche senza motivo perché il motivo è uno: moltiplicare sempre più gli elementi di distrazione.

Bisogna rischiare la confusione di un gesto anche brutto anche inutile o d’una frase mangiata piuttosto che addormentarsi nel già provato-già fatto-confezionato- elegante. Non stare mai fermi, non stare mai zitti, perché nella pausa, nel silenzio c’è la pigrizia del pubblico che troppo spesso si contenta della semplice comprensione cronologica degli avvenimenti scenici, inghiottendo giù tutto senza metabolizzarsene niente. Mai fermi né zitti, anche nella posizione più statica sempre, che so, un dito che tamburella, una gamba che ciondola, un volto che vive e la voce che corre e cambiare tutto ogni replica. Sulla scena bisogna non avere niente da perdere, neanche una gamba, neanche la vita, come il pezzente equilibrista circense spezzarsi sul palco ogni volta, senza preoccuparsi della replica pagata di domani ed offrire la vita in olocausto a quei pochi giù in sala abbastanza svegli da avere appetito.

Il pubblico, una volta che è entrato già in sala, ha tutto il diritto di divertirsi ma non di essere imboccato. Lo spettatore medio ha più di pochi mesi di età e deve essere in grado di mangiare da solo. L’attore, il regista e il drammaturgo non sono la sua mamma e non gli raccontano le favole, lo spettatore deve essere forte, attento, attivo perché la funzione del teatro non può per cause di forza maggiore -cioè per la sonnolenza pigra e distratta del pubblico quando non anche per primi degli stessi teatranti- essere solo lenitiva o al massimo didascalica. Basta concessioni umilianti, umilianti soprattutto per le poche teste affamate nel pubblico, che hanno diritto di divertirsi anche loro e umilianti per gli altri, anche i meno appetenti, che non vanno viziati ma educati o distrutti.

Articolazione, dizione e soprattutto la pausa sono il veicolo teatrale della comunicazione; la parola deve essere comprensibile, , didascalica, inequivocabile, ci dicono, oppure bella, esteriore e musicalmente attraente e la pausa è il momento in cui lo sciocco può far due più due e capire che è successo, il distratto può riprendere il filo e l’attore godersi un applauso d’ufficio. Che schifo. Si tratta di sperticati ammiccamenti, avvilenti captatio benevolentiae, cortigianerie buone per la corte d’un principe rinascimentale ma oggi assolutamente stronze e anacronistiche. L'unica pausa degna di rispetto è il vuoto di memoria.

C'è sottinteso un grosso equivoco:che la comunicazione teatrale debba essere chiara e diretta, comprensibile a tutti, quasi divulgativa, come LA STORIA D'ITALIA A FUMETTI di Biagi o il GESU' DI NAZARETH di Zeffirelli, come i romanzi condensati del Reader's digest. Il punto di riferimento tanto nella fase di composizione che in quella dell’allestimento non può essere il più umile ma perlomeno il medio, non è accettabile né rispettabile ed è anzi decisamente offensiva una civiltà teatrale il spettatore implicito sia lo scemo del villaggio.

Guardandomi intorno, di spettacolo in spettacolo, di replica in replica, in teatri grandi o in piccoli, in compagnie importanti o inutili, con minuscole e parziali eccezioni e con un germe di speranza e di dubbio, la mia impressione è che la dialettica attore/spettatore si riduca all'avvilente sudditanza del primo al secondo, come assistessi ogni volta al pietoso spettacolo di un nano che lecchi i piedi a un bambino coglione chiedendogli almeno un po’ d’elemosina.

Non sto proponendo un teatro snob, da chiudersi in una elite di pochi illuminati ma di illuminare in qualche o in tutti i modi lo spettatore, chiuso al buio, incatenato alla seggiola, di stimolare positivamente le sue capacità di concentrazione, di resucitarlo e di rimettergli in mano le redini dello spettacolo. Basta ammiccamenti, basta carità, premure e strizzatine d’occhio ad un pubblico morto, la coerenza interna del proprio lavoro, solo questa importa, il resto è un po’ come le ariette sdolcinate del melodramma per il compositore: una scorciatoia per essere amati.
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Daniele Timpano

 


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