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"Ciao lettore. Quella che
segue è la prima parte di una compilazione parziale di miei appunti
sul teatro e immediati paraggi che ho pensato bene o male di condividere
con te. Spero tu sia un teatrante o musicante o almeno un poco
curioso o poco di quel che segue potrà forse interessarti. Si
tratta semplicemente di pensieri, spunti o abbozzi teorici, riflessioni
in qualche caso anche private di Daniele Timpano attore, autore
e se vogliamo anche regista o roba del genere. Ogni appunto o
quasi è preceduto dalla data di composizione e l'ordine di compilazione
è tutto sommato quello cronologico, in un percorso ideale che
parte dal lontano '96 per fermarsi quattro anni dopo in piena
estate '99. Spero in futuro di avere la possibilità di sistemare
gli appunti successivi in una seconda compilazione che riesca
a raggiungere il presente millennio. L'apparente pretenziosità
di questa mia pubblica presentazione dei cazzi miei che chi cazzo
sono io non è affatto una pretesa; semplicemente penso che condividere
pubblicamente quello che è un percorso evolutivo personale sia
la cosa più utile, bella e stimolante che una artista possa fare;
e non importa se il cammino mio o il tuo sia stato sinora lungo
o un po' modesto, è la voglia di percorrerlo tutto che è la più
utile, bella e stimolante delle voglie.
Buona lettura"
Daniele Timpano 12/10/02
Sul teatro. Quando voglio
mostrare a qualcuno come funziona il mio lavoro lo porto nel corridoio
che mi scorre rettilineo qui vicino e gli rovescio sui piedi i
miei sacchi ripieni di bambole rotte. Tra testoline decollate
e braccioline scardinate io perdo io il mio tempo ad attaccarle
e aggiustarle e quando tutto è di nuovo un tutto, con perizia
lo rismonto e vado via.
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25/8/96
Bombolo è più teatrale di Gassman.
Teatralmente interessanti sono il vissuto ed il temperamento,
che rendono ogni gesto e ogni parola già spettacolo di per se
stessi, si può anzi dire che lattore sia lartefatta
copia di queste doti naturali. Paradossalmente Gassman è la copia
di Bombolo e Bombolo loriginale di Gassman. Tra Bombolo
e Gassman in realtà le differenze sono esclusivamente tecniche
e culturali, l'Italia rurale e l'Italia cittadina, il topo di
campagna e il topo di città.
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Febbraio '97
Io ho bisogno di controllare
ciò che faccio, di sapere cosa, come e perché quello che faccio
è fatto, prima di non pensarci più e precipitare allo sbaraglio
una volta per sempre. In bilico tra ricerca emotiva ed autocompiacimento,
ricerco la convergenza del mio illuminismo razionale con le mie
istanze istintuali ed intanto mastico carne cruda e scondita.
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28/2/97
Larte è carne morta, lartista
un vegetale.
Non esiste larte ma ogni sedere
su una tazza ci ricorda dellartista.
La libertà è una triste miseria
che può incuriosire solo un prigioniero. Umanità in catene, se
solo sapessi quanto sei fortunata ad avere una così allettante
carota!
Tutto ciò che è mio, è del mondo.
Non voglio vita privata, tutto ciò che è mio devessere pubblico
e limpido. Lascio ad altri la nebbia e la bugia.
Non capisco e non approvo questo
amore esclusivo per i bei film i bei libri i bei quadri i bei
ragazzi le belle cose di ottimo gusto. Una cosa è bella in quanto
esiste ed ha una sua ragione, anche arbitraria. Il suo semplice
esistere è già bellezza. Bello e brutto sono concetti esteriori
da accartocciare in palletta sul fondo di un cestino. Tutto è
sempre e in ogni caso bello. Dogmaticamente. Il fatto che loggetto
in esame possa indubbiamente essere pecoreccio e deficiente ne
mette forse in dubbio la consapevolezza o lutilità ma non
di certo la sensatezza, linteresse e, di fatto, la bellezza.
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DELLARTE COME VANITA
Un artista non deve servire altri
che se stesso. Qualcosa, certo, lo sovrasta ma quella cosa
non è la somma Arte, non è Dio, non è lo stato, non è niente di
etico-civico-mistico-religioso: lartista è sovrastato -deve
squallidamente esserlo- solamente da se stesso. Un se stesso scolpito
e continuamente migliorato dalla sua propria vanità, un modello
in perpetua e necessaria evoluzione, un padrone che il nostro
artista, devoto ed opportunista al contempo, serve con fedeltà
più lungimirante della morte.
Lartista è quindi necessariamente
ortolano dei cavoli suoi, e la sua fonte denergia e dazione
non può che essere il basso individualismo, ma lartista
è anche necessariamente e prima di tutto puttana da pubblico
ed il suo non può che essere un orto coltivato in vetrina, alla
vista di tutti.
Le sue vergogne, i suoi pregi, i
suoi difetti sono meretricio da mondovisione, esibizione da commercio,
frattaglie per spettatori paganti: Arte è aprire le gambe
ma non davanti al regista, al produttore, alleditore
ma di fronte al pubblico. Arte è un dono che si fa al mondo, è
esibizione, confessione di se, é speranza e pretesa che non vi
sia più bel regalo che se stessi, anche artefatti. Ogni Artista
è un po un Gesù ed aprire le gambe al prossimo è dire "Son
bello, eh? Questo è il mio corpo, prendete e saziatevene!"
, è suo sacro dovere, la più totale forma di comunicazione ed
il supremo olocausto.
Delluomo che incrocia le gambe
e le tiene serrate non fidarti: non è un artista e quelle che
racconta sono barzellette già sentite raccontate con parole già
viste.
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Estate 1997
A traballanti figure esterne ho
sempre via via assegnato in delega i miei sogni di comprensione
materna che alla mia mamma partoriente invece dacché mi sono nato
ho sempre più negato. E la figura più esterna e più terrificante,
quella che -altro sesso a parte- forse più attira e più spaventa
é proprio lottuso cieco sordo pubblico. Lottusa cieca
sorda platea, che però ci vede sempre benissimo e trasforma ogni
sentimento in mano che elemosina un applauso e in ricompensa per
la spesa dun biglietto, dove tutto è vendita e vendita devessere.
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15/12/97
Il linguaggio è farina inutile.
Non cè possibilità di persuadere. La posizione di chi parla
non è mai neutra e realmente disponibile. Non si vuole essere
persuasi, si vuole aver ragione, ed allora non si è persuasi e
si ha ragione. Non si cerca la verità ma una vittoria consolatoria
sullinterlocutore, una conferma terapeutica della
nostra supremazia.
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30/4/98
Meglio un cane entusiasta che un
grande attore sotto tono. Limpegno patetico del primo fa
tenerezza e compassione mentre la sonnolenza del secondo desta
solo irritazione, né poca né poca, ma tanta e mortificante, crea
un distacco epico dallo spettatore fondato sulla disonestà.
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8/5/98
Per lattore ambizioso un bel
culo è meglio di un lungo pisello. (luogo comune o buco in comune?)
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30/5/98
Non si può che essere elementi di
disturbo. Una macchia nera su una pagina bianca è miserabile ma
un niente bianco su una pagina bianca è inesistente, per partecipare
di una pagina bisogna comprometterne la bellezza. In una pagina
con una macchia finisce per non esser ricordata che la macchia.
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Giugno 1998
I personaggi non hanno ragioni,
devono stare zitti, parlano sin troppo su carta. Il personaggio
è la carne cruda con la quale lattore-leone da circo
è mantenuto in mansueta obbediente ignoranza di se dal regista-domatore
di papere.
Il regista, che lotta per uccidere
la vita in favore della "comprensibilità" divertendosi
a costruire colorati e dinamici Tableau vivants di autentici cadaveri
tenuti in piedi con le corde, è il grande bonificatore che spazzando
via la palude uccide miliardi di zanzare con altrettanto diritto
alla vita di lui e di qualunque contadino. Il regista va spazzato
via dalla palude, Il leone dovrà sbranare il domatore, dovrà pur
finire il tempo degli Zar!
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29/7/98
Il mondo è un cimitero di idioti
e lunica consolazione è la speranza sospesa di poter essere
promosso nella classe dei becchini. Non cè più niente da
creare, non cè che ricoprire di terra gli obbrobri degli
altri.
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21/9/98
Se fossi una zanzara io, non mi
accontenterei di succhiare sangue. Vorrei conoscere, esplorare,
sgusciare in una bocca, in un orecchio, in un naso, visitare dallinterno
la persona o bestiaccia che saccheggio. Approfondire, approfondire,
anche una zanzara deve approfondire il prossimo, neanche una zanzara
può permettersi dessere superficiale. Figuriamoci un attore.
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28/9/98
Non sono un "attore di posa",
io sono le parole che dico. E tutto il resto è "prosa".
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1/10/98
Non Brecht, non (mai!) Stanislawski:
lattore che preferisco è il gigione-genio -a patto che sia
genio-, lo stupra umori e personaggi, la presenza scenico-carismatica
individuale dellattore "cantante di parole" e
"pittore di gesti" -a patto che abbia davvero la convinzione
fanatica di avere qualcosa da dire, di esser lì dove lo vedo per
un motivo, almeno uno.
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5/10/98
Non si può avere a priori una fiducia
costante in se,
quando recito, quando scrivo, quando vivo,
se sono bravo sono bravo, se sono cane sono cane,
sono le cose che faccio che di volta in volta mi battezzano
col nome che di volta in volta merito.
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Dicembre 1998
Le parole sono importanti e proprio
per questo andrebbero buttate via ma è sempre un peccato, in quanto
oltre che importanti sono anche -specie se si parla di grossi
autori- spesso molto buone e quindi lideale è sempre mangiarsele
da soli crude senza neppure cercare di offrirle stracondite e
stracotte allinappetente spettatore sordo cieco che potrà
comunque mangiare quel che più gli spetta appena un po più
tardi al ristorante. Se proprio ne ha fame può strapparcene un
pezzo di bocca ma è inutile condirgliele: credere che un pizzico
di sale mi faccia ingozzare di merda è una clamorosa ingenuità
e, sopratutto, uno spreco di sale.
Lattore modello è quello che
in scena si fa i fatti suoi, mangia, caga, piscia, trasforma la
scena in un pubblico e guarda la sala che fa, lascia fare alla
sala. Lo spettacolo vero, quello nuovo ogni sera, è il pubblico,
rispetto al quale quanto avviene sulla scena è un elaborato e
geniale contrappunto. Il pubblico ha, per la natura collettiva
stessa del teatro, un potere immenso sull'attore, potere che non
esercita più se non in forma inconsapevole. Paradossalmente ha
insieme il più grande dei ruoli e il più piccolo talento. Sulla
scena ed in platea, Il teatro è diventato il parcheggio degli
spiriti mosci, dei cervelli disattenti, degli applausi cortesi
e distratti . Pubblico modello, attivo e vitale, lunico
per il quale levento spettacolare esiste ed ha un peso ed
una preparazione, un superstite, il solo pubblico non individuale
e non critico, partecipe ancora di una comunanza collettiva, è
quello dello stadio: il tifoso. Testo modello è la partita di
pallone. I miei modelli sono questi. Tutto il resto è piano bar.
Sottofondo.
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Sullilluminazione. Non
c'è illuminazione dall'esterno. Il personaggio o un tizio preposto
(il tecnico luci) accende e spegne candele ove occorra. Non c'è
neanche una scena vera e propria, solo luci diegetiche: una montagna
di televisioni accese accatastate, oggetti e persone fluorescenti,
un falò riflesso in cento specchi appesi per la scena, il flash
di una macchina fotografica, una timida bajou nelle tenebre, ecc.
Più libertà possibile nell'utilizzo dello spazio scenico, introduzione
di un salutare margine di Alea. Ogni personaggio dovrebbe letteralmente
brillare di luce propria, magari dipinto di vernice fosforescente
su un fondo di buio e scorrazzare sul palco e tra la gente senza
cercarsi la luce o posizioni prefabbricate in prova, col minimo
della premeditazione ed il massimo della consapevolezza di sé.
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Gennaio 1999
I personaggi non esistono. C'è un
solo personaggio con differenti vocalità schizofrenetiche che
si alternano continuamente a seconda del ruolo/maschera che di
volta in volta si appiccica in viso. per affrontare le diverse
situazioni. Ogni battuta costituisce un mondo a parte, persino
ogni frase o parola e non va vista in rapporto ai mai troppo larghi
binari imposti da un personaggio. Ogni battuta, ogni frase, ogni
parola conducono da qualche parte indipendentemente dal calcolo
delle probabilità caratteriali. Il rischio è chiaramente la monotonia,
il livellamento a di ciascun personaggio al tipo unico del camaleonte
ciarlante, con distinzioni basate su elementi semplicemente
esteriori quali i lineamenti, la corporatura od il timbro/registro
vocale dei singoli attori. Il vantaggio è forse l'ennesimo momentaneo
tramonto del tipo psicologico.
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Nessuno se non imbecille chiederebbe
a un Burri o ad uno Schonberg di dimostrare di essere buoni pittori
o compositori dipingendo una pala d'altare o un cartellone pubblicitario
o componendo una canzoncina popolare o una fuga. Probabilmente
saprebbero farlo ma nemmeno mi interessa. Il lavoro su sé stessi
e l'evoluzione personale sono necessità irrinunciabili per ogni
"artista" ed anche per l'attore; l'ecletticità no; è
un fattore addizionale sottomesso ad energia e personalità
-autentiche condizioni sine qua non di ogni individualità
creativa. Partendo da queste due premesse si sviluppa l'evoluzione
personale, naturalmente tramite un sempre maggiore dominio tecnico.
Enrico Bai dipinge teste, probabilmente le dipingerà tutta la
vita, la tecnica cambia ma le teste rimangono.
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Ogni personaggio è una monade autosufficiente,
il che si sposa bene con l'illuminazione individuale per autofluorescenza.
Il modello spettacolare,irraggiungibile, sarebbe l'autocombustione
spontanea indolore a comando.
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Aprile 1999
Molti miei personaggi sono costruiti
sul fastidio che mi danno le persone, me compreso: i loro atteggiamenti,
le loro pose, la loro educazione, tutto ciò che le rende ostentate
e/o false, bugiarde, incomplete come le scenografie piatte coi
puntelli d'un film western. Il contrasto tra l'argenteria esposta
e le lerce posate che nasconde è l'ossatura ricorrente delle mie
marionette sceniche.
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Ogni replica ha un potere spaventoso
su di me, impossibile un atteggiamento neutro del tipo: "è
il mio lavoro". L'approccio è sempre quello stressante: "è
la mia vita". O va benissimo o va malissimo, se benissimo
sono felicissimo se malissimo distrutto. Autostima ed autoaffermazione
non sono mai solide ma determinate di volta in volta dall'andamento
del mio lavoro.
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Maggio 1999
Comunque io non so scrivere di personaggi,
i miei non sono personaggi ma persone che di volta in volta rubano
pose o parole ai personaggi senza riuscire ad avere una propria
personalità coerente. Ci sono delle forme, che non siamo noi e
che non ci appartengono, che indossiamo a seconda delle occasioni
per affrontarle meglio. Non siamo che copie più o meno convinte
di irreali modelli mediali, irragiungibili non perché al di là
delle nostre forze ma perché inesistenti.
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4/6/96 [rivisitato 4/6/99]
Sulla scena bisogna muoversi molto,
meglio se troppo, anche con fretta, se necessario anche senza
motivo perché il motivo è uno: moltiplicare sempre più gli elementi
di distrazione.
Bisogna rischiare la confusione
di un gesto anche brutto anche inutile o duna frase mangiata
piuttosto che addormentarsi nel già provato-già fatto-confezionato-
elegante. Non stare mai fermi, non stare mai zitti, perché nella
pausa, nel silenzio cè la pigrizia del pubblico che
troppo spesso si contenta della semplice comprensione cronologica
degli avvenimenti scenici, inghiottendo giù tutto senza metabolizzarsene
niente. Mai fermi né zitti, anche nella posizione più statica
sempre, che so, un dito che tamburella, una gamba che ciondola,
un volto che vive e la voce che corre e cambiare tutto ogni replica.
Sulla scena bisogna non avere niente da perdere, neanche una gamba,
neanche la vita, come il pezzente equilibrista circense spezzarsi
sul palco ogni volta, senza preoccuparsi della replica pagata
di domani ed offrire la vita in olocausto a quei pochi giù in
sala abbastanza svegli da avere appetito.
Il pubblico, una volta che è entrato
già in sala, ha tutto il diritto di divertirsi ma non di essere
imboccato. Lo spettatore medio ha più di pochi mesi di età e deve
essere in grado di mangiare da solo. Lattore, il regista
e il drammaturgo non sono la sua mamma e non gli raccontano le
favole, lo spettatore deve essere forte, attento, attivo
perché la funzione del teatro non può per cause di forza maggiore
-cioè per la sonnolenza pigra e distratta del pubblico quando
non anche per primi degli stessi teatranti- essere solo lenitiva
o al massimo didascalica. Basta concessioni umilianti, umilianti
soprattutto per le poche teste affamate nel pubblico, che hanno
diritto di divertirsi anche loro e umilianti per gli altri, anche
i meno appetenti, che non vanno viziati ma educati o distrutti.
Articolazione, dizione e soprattutto
la pausa sono il veicolo teatrale della comunicazione; la parola
deve essere comprensibile, , didascalica, inequivocabile, ci dicono,
oppure bella, esteriore e musicalmente attraente e la pausa è
il momento in cui lo sciocco può far due più due e capire che
è successo, il distratto può riprendere il filo e lattore
godersi un applauso dufficio. Che schifo. Si tratta di sperticati
ammiccamenti, avvilenti captatio benevolentiae, cortigianerie
buone per la corte dun principe rinascimentale ma oggi assolutamente
stronze e anacronistiche. L'unica pausa degna di rispetto è il
vuoto di memoria.
C'è sottinteso un grosso equivoco:che
la comunicazione teatrale debba essere chiara e diretta, comprensibile
a tutti, quasi divulgativa, come LA STORIA D'ITALIA A FUMETTI
di Biagi o il GESU' DI NAZARETH di Zeffirelli, come i romanzi
condensati del Reader's digest. Il punto di riferimento tanto
nella fase di composizione che in quella dellallestimento
non può essere il più umile ma perlomeno il medio, non è accettabile
né rispettabile ed è anzi decisamente offensiva
una civiltà teatrale il spettatore implicito sia lo scemo del
villaggio.
Guardandomi intorno, di spettacolo
in spettacolo, di replica in replica, in teatri grandi o in piccoli,
in compagnie importanti o inutili, con minuscole e parziali eccezioni
e con un germe di speranza e di dubbio, la mia impressione è che
la dialettica attore/spettatore si riduca all'avvilente sudditanza
del primo al secondo, come assistessi ogni volta al pietoso spettacolo
di un nano che lecchi i piedi a un bambino coglione chiedendogli
almeno un po delemosina.
Non sto proponendo un teatro snob,
da chiudersi in una elite di pochi illuminati ma di illuminare
in qualche o in tutti i modi lo spettatore, chiuso al buio, incatenato
alla seggiola, di stimolare positivamente le sue capacità di concentrazione,
di resucitarlo e di rimettergli in mano le redini dello spettacolo.
Basta ammiccamenti, basta carità, premure e strizzatine docchio
ad un pubblico morto, la coerenza interna del proprio lavoro,
solo questa importa, il resto è un po come le ariette sdolcinate
del melodramma per il compositore: una scorciatoia per essere
amati.
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Daniele Timpano
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