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Amy Cohen
Varela
La difficile
semplicità del pensiero di Francisco Varela1
Una sola
idea. Francisco diceva sempre che in un dibattito pubblico si può
sperare di comunicare una sola idea. Per farsi capire in un gruppo bisogna
sviluppare un solo punto, bisogna dire soltanto una cosa. Così,
quando pensavo a che cosa avrei potuto dirvi oggi, riandavo con la mente
a tutte le conferenze che gli ho sentito fare, qui in Italia e in giro
per il mondo, e mi chiedevo se lui stesso avesse mai applicato questo
enunciato. Ha mai detto una sola cosa? Ritengo che la risposta a questa
domanda sia doppia o paradossale: come per tutti i pensatori appassionati
e creativi, le idee chiave e le scoperte che gli comparivano sembrano,
retroattivamente, del tutto chiare e anche semplici. Ma, allo stesso tempo,
questa semplicità è duramente conquistata. La parte dura
consiste nello sviluppare la mobilità e la flessibilità
di prospettive affinché le idee non vengano solamente capite ma
anche esaurientemente integrate. È forse in ragione di questa difficile
semplicità che esse acquistano la capacità di unespansione
infinita, non necessariamente nel senso che esse possono essere applicate
a diversi domini, in particolare al campo che specificamente interessa,
ma nel senso che esse possono trasformare pensieri e visioni degli interlocutori
su se stessi e sul mondo. Una delle cose che si possono dire di Francisco
è che egli sapeva che una cosa è lafferrare intellettualmente
un concetto come fosse un oggetto, altra cosa è entrare ad abitare
le idee dellAltro e lasciarsi simultaneamente abitare da esse. Abbiamo
discusso intorno alle sue fondamentali intuizioni, la più nota
delle quali è quella dellautopoiesi cellulare, il paradigma
per la nozione di identità concepita come un insieme di processi
regolati da dinamiche emergenti. Questa visione del carattere emergenziale
dellidentità o della soggettività, a partire dalle
radici biologiche, è ciò che Francisco chiamerebbe una metafora
forte, nel senso che questa destabilizza e può anche trasfigurare
il significato proprio di metafora. Le metafore sono figure che conservano
la separazione tra domini concepiti come eterogenei o separati, mentre,
allo stesso tempo, li congiungono per una forma di giustapposizione. La
metafora di unidentità non fissa, proteiforme, può
essere seguita nel lavoro di Francisco come un filo continuo che parte
dallautopoiesi per raggiungere il programma di neurofenomenologia.
Si tratta di una riformulazione epistemologica che consente incontri tra
diversi campi del sapere. Questi incontri generano, a loro volta, nuovi
spazi epistemologici, consentendo che significati diversi possano entrare
in un rapporto di scambio con tutto il potenziale trasformativo e di ampliamento
degli orizzonti dei campi che da questo scambio vengono toccati.
La capacità di Francisco di sviluppare le sue idee dallinterno,
incorporandole in metafore capaci di far breccia nella sua esperienza
piuttosto che lasciarle a un livello puramente concettuale e disincarnato,
ha fatto di lui quello scienziato idiosincratico che molti di voi conoscono:
pur se ha sempre insistito sulla necessità di mantenere una rigorosa
metodologia sperimentale, non ha mai esitato a esporre lorigine
soggettiva o interpretativa delle problematiche che doveva delucidare
e a servirsi della sua personale esperienza per stimolare il suo pensiero.
Ora, questa mescolanza di oggettività e di soggettività
avviene comunque e sempre nel lavoro scientifico, anche se per lo più
essa viene disconosciuta o negata: non vi è mai un modello puramente
soggettivo o puramente oggettivo, ma, come abbiamo ricordato
in un lavoro sulla relazione, o meglio sulla non-relazione, tra psicoanalisi
e neuroscienze, vi è sempre una mescolanza di queste due dimensioni
a cui un radicato dualismo vorrebbe opporre una definitiva preclusione.
Bruno Latour, con cui Francisco ha sentito una crescente affinità
intellettuale negli ultimi dieci anni della sua vita, tematizza questa
nozione di un oggetto promiscuo, che egli chiama un quasi-oggetto:
esso non appartiene in modo esclusivo né alla categoria degli oggetti
naturali né a quella degli oggetti soggettivi o sociali; in mancanza
di alcun nucleo o determinazione primaria, esso presuppone una codeterminazione
tra le sue fonti naturali e le sue fonti soggettive o sociali. È
facile vedere perché Francisco è rimasto così colpito
da questa immagine di un quasi-oggetto: egli è stato sempre profondamente
consapevole della dicotomia tra il lavoro sperimentale sui processi neurali
soggiacenti alla coscienza e la sua esperienza quotidiana di se stesso
al di fuori del suo laboratorio. Il quasi-oggetto gli fornì una
delle nozioni ponte o passaggi necessari per trattare ciò
che egli chiamava la tridimensionalità dei fenomeni
che egli studiava.
Così, per tornare alla raccomandazione di Francisco di esporre
una sola idea alla volta, ho pensato di provare a evocare una delle nozioni
matrice che è presentificata lungo tutto il suo lavoro, nei modi
di variazioni su un tema di fondo. Questa idea centrale, onnicomprensiva,
è contenuta nella parola sanscrita sunyata, più o meno appropriatamente
tradotta in inglese come emptiness [lessere vuoto], e tematizzata
da Francisco e dai suoi coautori in The Embodied Mind [La mente incarnata]
nei termini di groundlessness [mancanza di fondamento]. Per afferrare
qualcosa di questa una sola idea che caratterizzò e
stimolò limmaginazione scientifica di Francisco, sembrava
giusto trovare una via per incarnarla (to embody) o, per dirla con Francisco,
per farla accadere (to enact)2
e così ho pensato a questa poesia di Nagarjuna, un monaco
buddista del ii secolo, che Francisco amava particolarmente. Nagarjuna
è considerato una delle più importanti figure del buddismo,
una figura centrale nella tradizione Madhyamika, che è anche denominata
la filosofia centrista o della via di mezzo. Questa
poesia è tratta da unopera intitolata Versi dal Centro, un
insieme di poesie che il suo traduttore inglese, Stephen Batchelor, chiama
a meditation on emptiness [una meditazione sul vuoto].
Sé
Fossero me lo spirito e la materia,
Verrei e passerei come loro,
Se fossi qualcosa daltro,
Essi non direbbero niente di me.
Cosa è mio,
Quando non cè il me?
Se legocentrismo fosse più tenue,
Non penserei al me, né al mio,
Non ci sarebbe nessuno,
Per pensarli.
Ciò che è interiore sono io,
Ciò che è esteriore è mio
Quando questi pensieri finiscono,
Sarresta la costrizione,
Sannienta la ripetizione,
Albeggia la liberazione.
Le fissazioni moltiplicano i pensieri
Che provocano le costrizioni,
Lessere vuoto arresta le fissazioni.
I budda parlano del sé
E insegnano pure il non-sé
E pure affermano non cè nulla
Che sia sé o non sé.
Quando le cose si dissolvono,
Non resta più niente da dire.
Il non nato e lincessante
Sono già liberi.
Budda diceva: ciò è reale,
E cio è irreale,
E entrambi sono reale e irreale
E non sono né luno né laltro.
E tutto è tranquillo
Non fissabile dalle fissazioni,
Incomunicabile,
Inconcepibile,
Indivisibile.
Non sei uguale, né diverso
Dalle condizioni da cui dipendi;
Non sei né separato,
Né per sempre legato a esse
Questo è linsegnamento eterno
Dei budda che vegliano sul mondo.
Quando i budda non si mostrano
E i loro discepoli se ne sono andati,
La sapienza del risveglio
Sorge da sola.
Batchelor dice,
nel suo saggio su questa serie di poesie, che il riconoscere i processi
mentali e fisici come vuoti di sé era per il
Budda il modo per spazzare via la confusione che sta allorigine
dellangoscia, perché questa confusione configura un senso
del Sé come fosse cosa fissa e opaca, disconnessa dal processo
dinamico, contingente e fluido della vita. Il vuoto non si pone come negazione
di questi processi vitali. Esso sfida linsistente fissazione sul
sé che, oscurando tali processi, rende piatta la vita, frustrante,
ripetitiva. Il vuoto è il punto zero della libertà
(pp. 8-9).
Fossero me lo spirito e la materia
Verrei e passerei come loro.
Se fossi qualcosa daltro,
Essi non direbbero niente di me.
Questo paradosso zen è un modo di disvelare la non localizzabilità
del sé che non è mente e materia ma che non è
neppure non mente e materia , sta a indicare che il vuoto o la mancanza
di fondamento del sé, nel pensiero buddista, non è una cosa,
un oggetto su cui poter riflettere, o un traguardo da raggiungere, ma
è un sentiero o un metodo per essere nel mondo. Questi mezzi espressivi,
necessariamente paradossali, possono anche ricordarvi la descrizione del
sé come ente virtuale che Francisco sviluppò qui in Italia
nella sua conferenza sulletica. Egli dice:
Penso che la novità radicale della nostra comprensione, acquisita
recentemente e ancora frammentaria, di proprietà emergenti in processi
a rete risiede precisamente nel fatto che esse sono metafore forti per
ciò che è un sé privo di sé: un tutto coerente
che non si sa dove trovare e che può tuttavia fornire unoccasione
per le attività coordinate degli insiemi neurali. Sottolineo la
forza di queste metafore perché, senza i numerosi esempi elaborati
recentemente, questo apparente paradosso di una non-localizzazione che
può essere designata come una totalità diviene una contraddizione,
e a meno che questo apparente paradosso non sia impiegato su un metalivello
costruttivo, scivoliamo rapidamente nel dibattito tradizionale sullesistenza
versus la non esistenza del sé e dellindividuo. Lapparente
paradosso risiede in un movimento a doppio senso tra livelli: quello ascendente
con lemergenza delle proprietà a partire dagli elementi costitutivi,
e quello discendente con i vincoli imposti dalla coerenza
globale su interazioni locali.
Il risultato, egli continua (e la risoluzione del paradosso) consiste
in un non-sostanziale sé che agisce come se fosse presente, come
uninterfaccia virtuale. Questa nozione del sé non-sostanziale
o virtuale che si comporta come se fosse presente colloca
il pensiero di Francisco esattamente nellaporia o nel paradosso
della poesia:
I budda parlano del sé
E insegnano pure il non-sé
E pure affermano non cè nulla
Che sia sé o non sé.
Ciò che colpisce è il modo in cui vi si pongono, come nel
primo verso della poesia, i termini del pensiero dualistico, allo stesso
tempo affermandoli e togliendo loro ogni base, in modo da non permettere
che ci si possa afferrare ad alcuna verità consolidata, costringendoci
in una sorta di aporia.
La risoluzione del paradosso di Nagarjuna non consiste in un non esserci
niente: non è un né/né e neppure un e/e; al contrario,
ciò che è importante per confrontarsi con la mancanza di
fondamento è il modo in cui colloca i termini, sì da lasciare
del tutto intatta la tensione tra loro.
Nel corso di tutta lultima parte della sua produzione, e in particolare
sviluppando il programma della neurofenomenologia da lui definito un rimedio
metodologico per larduo problema della coscienza, Francisco
ha incessantemente insistito sulla necessità di mantenere insieme
i due poli, quello neurale e somatico e quello dellesperienza,
senza mai perdere di vista né luno né laltro.
La sua creatività sorgeva dalla sua capacità di tollerare
e mantenere viva quella profonda tensione che evita il riduzionismo, quando
si cade sulluno o sullaltro piatto della bilancia. Ancora
una volta la mancanza di fondamento non significa che vi è il nulla;
il sé privo di sé [the selfless self] non è
una mente vuota. Al contrario, se posso usare lesperienza psicoanalitica
per fare un parallelismo, si può dire che la mente non è
mai vuota, ma che il fare esperienza della mancanza di fondamento, se
posso permettermi di usare questa parola in un contesto psicoanalitico,
presuppone lo smantellamento della costellazione immaginaria di identificazioni
e fantasie con le fissazioni che esse comportano che costituisce
ciò che Lacan chiamava larmatura dellIo.
Diversi anni fa Francisco e io abbiamo scritto in un lavoro: La
nostra ipotesi è che noi abitiamo dentro un corpo che è
la ricostituzione continua delle sue identità emergenti. Ma il
movimento che definisce questa condizione è sempre animato dalla
mancanza di qualcosa: lidentità non risiede da nessuna parte,
eccetto che nel suo autonomo costituirsi, nei suoi propri processi circolari
che la auto-affermano.3
Questo mondo autonomo è inevitabilmente sempre prossimo a un crollo.
Se la vita consiste sempre in unattività in relazione a ciò
che è mancante, [questa mancanza] è anche ciò che
la promuove, il suo desiderio di perpetuarsi. La mancanza di fondamento,
come può essere vista attraverso una lente analitica, è
quindi il movimento di elaborazione delle resistenze, che rivela il costrutto
immaginario del sé o dellIo, costantemente parassitati dallinconscio.
La necessità di creare nuove possibilità, il desiderio
di perpetuarsi, è così inscritto insieme con la morte
o la minaccia della non-esistenza (un altro paradosso!) nella stessa origine
della vita. Lesperienza psicoanalitica rende quotidiana testimonianza
di questo bisogno di nuovi bisogni. Come analisti, siamo testimoni,
nel nostro lavoro clinico, della sofferenza della ripetizione, che è
in realtà lorigine o lostacolo di questa necessaria
attività di proliferazione.
Ma per tornare alla questione della mancanza di fondamento come per lo
meno una delle essenziali origini o matrici dellopera di Francisco,
voglio riprendere la citazione dalle conferenze sulletica, e sottolineare,
come lo stesso Francisco fa, che egli si riferisce alla teoria dei sistemi
dinamici o dei processi emergenti come metafore per il sé privo
di sé: Penso che la novità radicale della nostra comprensione,
acquisita recentemente e ancora frammentaria, di proprietà emergenti
in processi distribuiti a rete risiede precisamente nel fatto che esse
sono metafore forti per ciò che è un sé privo di
sé. Trovo di grande rilevanza il fatto che egli usa il termine
metafora per descrivere lo strumento scientifico che ha utilizzato per
sviluppare una visione enattiva (talvolta egli ha chiamato la enaction
una immaginazione forzata [constrained imagination], unattività
che produce senso [a meaning-making activity]); questa prospettiva gli
consentì allora di specificare la nozione di causalità reciproca
nel programma neurofenomenologico. Si potrebbe dire che la svolta epistemologica
che egli compì nel suo lavoro iniziale con Maturana passando da
un modello di controllo o oggettivo a un modello autopoietico o di informazione
naturale viene ripetuta nel momento in cui egli si sbarazza del modello
sintattico informatico, computeristico, in favore di uno dinamico. Ma
più importante per il punto che voglio qui evidenziare è
il fatto che la sua percezione del reale o della realtà è
guidata da queste metafore che incarnano la prospettiva a lui molto cara
del senza fondamento, spesso solo implicita ma fondamentalmente onnipresente.
Ciò che egli intuì e sperimentò dellessere
senza fondamento, certamente affinato dal senso di contingenza che accompagna
gravi malattie a rischio di vita, gli fornì una esemplare metodologia
per risolvere (paradossalmente) i paradossi mantenendo i loro termini
contraddittori in costante tensione.
Non sei uguale, né diverso
Dalle condizioni da cui dipendi;
Non sei né separato,
Né per sempre legato a esse
Contingenza
è un correlato di essere senza fondamento: attraverso il riconoscimento
della variabile transitorietà sia del sé sia del mondo,
nasce e si stabilizza il senso del vuoto di entrambi.
Ciascun capitolo dei Versi dal Centro di Nagarjuna, dice Batchelor
nel suo saggio introduttivo, è unaudace escursione
nel sublime paesaggio della contingenza lungo le tracce del vuoto.
Vi rimando al capitolo intitolato The Middle Way in The Embodied
Mind, per una dettagliata discussione sulla relazione tra sunyata, o il
vuoto, e la logica di Nagarjuna che rifiuta lesistenza indipendente
del sé, del mondo e della loro relazione. Gli autori dicono che
mente e mondo stabiliscono una continuità interdipendente, non
vi è nulla, al di fuori di questa sia della mente che del mondo,
da conoscere o da essere ulteriormente conosciuto (p. 225).
Possiamo trovare molto precocemente nel lavoro di Francisco, nellultima
sezione di Principles of Biological Autonomy, un suo adombrare il processo
dellessere senza fondamento di cui aveva cominciato a prendere atto
con la sua affermazione sulla codipendenza di esperienza e conoscenza.
Una prima distinzione o taglio, come egli la definiva, deve essere fatta
tra lindividuo come soggetto di esperienza da un lato e lesperienza
in sé dallaltro lato. Ma, egli dice, questo
taglio non può in alcun caso essere un taglio tra lindividuo
e un mondo di oggetti oggettivi che esiste indipendentemente. La nostra
conoscenza
deve cominciare con lesperienza, e
con tagli allinterno della nostra esperienza quale, per esempio,
il taglio che noi facciamo tra quella parte della nostra esperienza che
chiamiamo noi stessi e tutto il resto della nostra esperienza
che noi poi chiamiamo il nostro mondo. Perciò questo
mondo nostro, a prescindere da come lo strutturiamo e da come lo maneggiamo
per conservarlo stabile con oggetti permanenti e interazioni ricorrenti,
è per definizione un mondo codipendente con la nostra esperienza,
e non la realtà ontologica di cui hanno sognato allo stesso modo
filosofi e scienziati. Tutto questo si riduce, in effetti, a farci realizzare
che sebbene il mondo appaia consolidato e regolare, quando veniamo a esaminarlo
non vi è alcun punto fermo di riferimento a cui possiamo inchiodarlo.
Linsieme dellesperienza rivela la qualità codipendente
e relativa della nostra conoscenza, un vero e proprio riflesso delle nostre
azioni individuali e collettive (Principles, p. 275). Questa nozione
di una nascita o origine codipendente di se stessi e del mondo fu la base
per una radicale riformulazione dello spazio problematico lungo linee
non dualistiche, il che consentì a Francisco di lavorare coerentemente
sullorlo, sul filo della rottura delle classiche opposizioni filosofiche
quali soggetto-oggetto, mente-corpo, interno-esterno, prima
e terza persona. Lestremo opposto al dualismo,
egli afferma in una sua discussione sullaccoppiamento strutturale
in The Embodied Mind, è un monismo. Non stiamo proponendo
un monismo: lenazione è specificamente designata a essere
una via di mezzo tra dualismo e monismo (Varela, Thompson e Rosch,
1991, p. 202). Questa stessa idea è posta in modo diverso in una
citazione, che a lui piaceva molto, tratta dal lavoro di un filosofo della
scienza, Hans Jonas: La vita non sopporta distillazioni; essa è
approssimativamente tra gli aspetti depurati [del pensiero dualistico]
nella loro concretezza
Lantitesi dualistica non conduce a
una maggiore chiarezza delle caratteristiche della vita concentrandole
su uno dei due lati, ma piuttosto a un indebolimento di entrambi i lati
attraverso la loro separazione che li allontana dalla vitale via di mezzo
(Jonas, 1966, p. 22).
A partire da questa vitale via di mezzo, a cui lessere
senza fondamento consente laccesso, Francisco riuscì a estendere
la prospettiva enattivista nel campo dellintersoggettività
nellambito del programma di neurofenomenologia.
La naturalizzazione della fenomenologia non vuole ridurre le descrizioni
fenomenologiche o i resoconti soggettivi ai loro correlati biologici,
ma vuole vedere come questi dati si correlano con i dati sul cervello
e sul corpo, creando una circolarità tra queste due dimensioni,
al fine di produrre ciò che egli chiama una visione tri-dimensionale
della mente e dellesperienza prese insieme, nellambizione
di inglobare la comprensione soggettiva e la spiegazione oggettiva al
di là dei limiti di entrambe (Nat of Phenomenology, p. 360). Il
movimento espansivo, a partire dalla vitale via di mezzo si
sviluppa nellultimo lavoro di Francisco, scritto con Evan Thompson,
nel quale essi non ammettono la nozione di correlati neurali della
coscienza, che considera la coscienza un evento legato al
cervello, come essi dicono. Al suo posto essi propongono un approccio
alla neuroscienza della coscienza che essi definiscono approccio
di radicale incorpamento [radical embodiment approach]. Vi rimando
a questo lavoro per tutti i suoi passaggi, che sarebbe troppo lungo prendere
in esame qui.
Ma quel che voglio sottolineare ora è la ricollocazione della coscienza,
attraverso la concezione del cervello, del corpo e dellambiente
come sistemi strettamente embricati tra loro, in un vero e proprio processo
di circolarità. Questa prospettiva sarà illustrata in un
libro di prossima pubblicazione intitolato Why the Mind Isnt in
the Head [Perché la mente non è nella testa], il cui materiale
è stato concepito e preparato da Evan Thompson e da Francisco negli
ultimi anni della sua vita. Mi sembra del tutto congruente per Francisco
concludere con una concezione della mente in quanto mente radicalmente
aperta, fondata su processi, secondo la loro definizione,
che estendono o tagliano trasversalmente le divisioni cervello/corpo/mondo.
Francisco potrebbe aver detto che questa mente aperta dellapproccio
radicalmente incorporato è per sunyata una metafora forte.
Per fare un altro giro metaforico, e per concludere: la mente aperta
è anche una mente non dogmatica, che rifugge da ogni ortodossia.
Quando i budda non si mostrano
E i loro discepoli se ne sono andati,
La sapienza del risveglio
Sorge da sola.
Batchelor interpreta
questi versi come un modo di esprimersi di Nagarjuna sullincompatibilità
verso ogni ortodossia della strada buddista del vuoto. Seguendo questa
idea, io li intendo come un appello allapertura o alla natura provvisoria
di ogni cornice teoretica. Come sanno quelli di voi che lo hanno conosciuto,
Francisco si mantenne sempre fermo su una posizione antiriduzionista:
egli scelse di manifestarla accompagnando la complessità malgrado,
o forse a causa, della precarietà che essa presuppone, dato che
la precarietà generativa è una proprietà fondamentale
della vita. La via che egli ha tracciato fino in fondo è costruita
su unesigenza fondamentale, che la teorizzazione non finisca mai
di coniugarsi con lesperienza personale: il modo in cui ha sviluppato
il suo pensiero realizza le sue stesse idee, attraverso la mobilitazione
e la progressiva espansione del campo del sé. È questo movimento
espansivo che ho cercato di evocare qui: come egli accogliesse ciò
che sgorga da solo, come egli godesse dellimprevisto, e come
lesperienza del cambiamento, scaturito da queste sorprese, non fosse
per lui una minaccia, bensì motivo di meraviglia.
Amy Cohen Varela
1
Traduzione di Diego Napolitani e Giovanna Jung.
2
Il verbo inglese to enact ha diversi significati: mettere
in scena, mettere in atto, promulgare una legge.
Questultimo significato sembra il più pertinente al filo
rosso che lega due concetti chiave nel percorso di Varela, quello di auto-poiesi
e quello di auto-nomia, come momenti emergenziali dei processi a rete
che si muovono tra la dimensione neuronale e quella esperienziale (N.d.T.).
3
Cfr. nota a p. 89 (N.d.T.).
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