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 JUNIO  VALERIO  BORGHESE    

di Giuseppe Rossi

 
"Se un tedesco avesse tentato di disarmare il mio reparto, io avrei dovuto difendermi; in questa circostanza se fossi stato ucciso, cosa probabile, oggi sarei considerato un eroe della resistenza."

Junio Valerio Borghese

 

Prefazione
Dalle origini al 7 settembre 1943
L'armistizio dell'8 settembre
Dal 9 settembre '43 al 26 aprile '45
Il processo

 
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Dal 9 settembre '43 al 26 aprile '45

La flotta era salpata nella notte. Le due divisioni che dovevano difendere il porto di La Spezia e le installazioni marittime si erano sfasciate in poche ore, i comandi si erano dissolti. La Decima rimaneva in armi, “…eravamo ormai un'isola in un mare di desolazione e di vergogna”.
La bandiera italiana sventolava sempre sul pennone; il tricolore portò ancora per qualche giorno lo stemma sabaudo, poi questo venne tolto e sul bianco restò un buco. Passarono così due giorni, e l'11 settembre, di fronte al problema dei viveri che cominciavano a scarseggiare, il Comandante indisse un'assemblea e dichiarò che egli sarebbe rimasto a difendere la Flottiglia con quelli tra gli uomini che avessero voluto rimanere; chi, invece, avesse avuto buone ragioni per rientrare in famiglia avrebbe potuto farlo liberamente, sarebbe stato posto in licenza illimitata con un anticipo di £ 2.000 sulla paga e un regolare foglio di viaggio, salvo il richiamo che poteva essere fatto appena le circostanze l'avessero permesso; solo un centinaio di uomini chiesero di essere posti in licenza.
E con questa scelta iniziò la seconda parte della storia della Decima Flottiglia Mas: Borghese, come un antico capitano di ventura, si mise direttamente in contatto con i tedeschi, su loro richiesta, il 12 settembre. I colloqui tra Borghese e il tenente di vascello Berninghaus furono più d'uno e il Comandante della Decima mise bene in chiaro alcuni punti fondamentali: la Decima non accettava l'armistizio e il cambiamento di fronte attuato dal governo italiano, ma nemmeno accettava di cedere le armi e gli impianti ai tedeschi; intendeva continuare a combattere a fianco degli alleati germanici senza rinunciare ad essere una forza armata italiana.
L'unica soluzione parve quella di un accordo sottoscritto dalle due parti, con il quale la Decima conservava la propria autonomia. Il 14 settembre venne sottoscritto un patto con i tedeschi, sancito in un documento che portava le firme del T.V. Berninghaus, in rappresentanza del generale SS Karl Wolff, plenipotenziario tedesco per l'Italia del Nord e dello stesso Borghese.
Il singolare documento attestava:
   1. La Decima Flottiglia è un'unità complessa appartenente alla Marina Militare Italiana, con piena autonomia in campo logistico, amministrativo, organizzativo, della giustizia e disciplinare.
   2. E' alleata alle FF.AA. germaniche con parità di diritti e di doveri.
   3. Batte bandiera da guerra italiana.
   4. E' riconosciuto a chi ne fa parte il diritto all'uso di ogni arma.
   5. E' autorizzata a recuperare ed armare, con bandiere ed equipaggi italiani, le unità italiane che si trovano nei porti italiani; il loro impiego operativo dipende dal comando della Marina da guerra germanica.
   6. Il Comandante Borghese ne è il capo riconosciuto, con i diritti e doveri inerenti a tale incarico

L'accordo entrò subito in vigore, al di fuori di ogni interferenza con le nuove gerarchie fasciste che ancora non esistevano e che si formarono poi nella struttura della Repubblica Sociale Italiana. Di lì a poco avvenne quello che nessuno s'aspettava: in un primo momento affluirono alla Decima degli sbandati che, vedendo il tricolore sempre alto sul pennone, cercavano asilo e assistenza.
Ma nel volgere di pochi giorni cominciarono a presentarsi dei volontari che, venuti a sapere della posizione assunta dalla Decima sia verso i tedeschi, sia verso gli angloamericani, chiedevano solo di poter continuare a combattere indossando la divisa italiana e all'ombra del tricolore. Presto divennero centinaia: era necessario ormai provvedere al loro inquadramento e alla loro sistemazione; tra loro vi erano militari di tutte le specialità: marinai, fanti, artiglieri, genieri, aviatori, veterani delle campagne d'Africa, di Grecia e di Russia.
Il 14 novembre '43 si inaugurò a Verona il congresso del Partito Fascista Repubblicano da dove nacque la Repubblica Sociale Italiana; essa rispondeva a un'esigenza morale e politica ben precisa; era logico che riconoscesse in Mussolini il supremo rappresentante di quell'Italia risorta dalle ceneri dell'armistizio, un'Italia per la quale si era pronti ancora una volta ad impugnare le armi.
La R.S.I. era in stato di guerra, ma era anche priva di FF.AA.; e mentre il governo cominciava a studiare e a discutere un organigramma per ricostruirle, la Decima era in avanzata fase di ristrutturazione: dopo aver creato una sezione recuperi per il reperimento e l'acquisizione di armi, munizioni, attrezzature e materiali abbandonati, si riallacciarono i rapporti con i fornitori, si faceva propaganda e venivano creati nuovi uffici di reclutamento.
Il Comandante Borghese, soddisfatto dei risultati che stava ottenendo, ritenne comunque opportuno impostare la vita comunitaria su principi e norme forse rivoluzionari, ma certamente più adeguati alla fase storica che si stava vivendo. Tali norme furono affisse in bando interno:
   1. Rancio unico per ufficiali, sottufficiali e marinai.
   2. Panno della divisa uguale per tutti.
   3. Sospensione d'ogni promozione sino alla fine della guerra, fatta eccezione per le promozioni per merito di guerra sul campo.
   4. Reclutamento esclusivamente volontario.
   5. Pena di morte per i militari della Decima che vengano riconosciuti colpevoli, da regolari tribunali, di furto o saccheggio, diserzione, codardia di fronte al nemico.

“I miei uomini erano animati da un forte spirito di rinnovamento, convinti che occorresse cambiar metodi e stile. La disciplina militare non doveva essere un'imposizione coercitiva dei superiori nei confronti degli inferiori ma, senza eccezioni e privilegi, un reciproco rapporto di diritti e doveri.”
Il Comandante era sempre stato molto autonomo della gerarchia militare e la sua abilità di comandante ed il suo indubbio carisma lo portarono ad essere l'unico punto di riferimento di quell'esercito che si era ricostituito; con uomini che in lui avevano piena fiducia, al punto tale di venire più volte in contrasto con i gerarchi della neonata R.S.I., gelosi del suo potere fatto di prestigio.
Ferrini, Ricci, Pavolini, che da tempo stavano “bombardando” Mussolini con i rapporti più disperati (sabotaggio delle direttive governative; ordine ai marò di non prestare giuramento alla R.S.I.; capo reazionario di un progettato colpo di stato; avere Borghese un proprio Ufficio politico ed un proprio Ufficio informazioni che obbedivano esclusivamente ai suoi ordini; rifiuto di prendere ordini dal centro; costituzione del ' Club delle Medaglie d'Oro' che avrebbe teso ad assumere il comando supremo della Marina Repubblicana; l'avere approntato molte unità per “azioni non specificate”), fecero pressioni sul Duce in modo deciso; e questi inviò un telegramma, convocando Borghese a Gargnano.
Il 13 gennaio '44 il Comandante si mise in macchina con i capitani Riccio e Paladini, il ten. Bordogna e l'autista Cardia con destinazione Gargnano. Consegnata la pistola fu arrestato, insieme ai due capitani, e condotto presso il carcere di Brescia.
Si creò un'immediata e pericolosa reazione, e al comando di Muggiano cominciarono ad arrivare sempre più richieste da parte di Reparti che intendevano intraprendere un'azione d'attacco al carcere per liberare il Comandante.
Borghese era molto preoccupato per la reazione che i suoi uomini avrebbero avuto alla notizia del suo arresto, e così indirizzò loro le seguenti parole:” Alla Decima Flottiglia Mas – Al lavoro, ragazzi, con animo e fede – perché la Decima sia – come sempre – all'avanguardia delle FF.AA. della nuova Italia! Le nostre piccole difficoltà saranno tutte superate – purchè teniamo sempre a posto i nostri nervi e ci ricordiamo che a noi soldati – per il nostro ordine e la nostra disciplina – è affidato il compito della ricostruzione – A presto.
A favore dell'immediata liberazione di Borghese si mossero in molti.
Il primo fu il capo della provincia di La Spezia, prefetto Franz Turchi, che in seguito dichiarò: “ sentii il dovere di riferire a Mussolini quanto fosse sproporzionato il provvedimento e quali pericoli dovesse presentare, proprio quei pericoli che si credeva di fronteggiare accantonando il Comandante Borghese.”
Tra gli interventi più risolutivi ci fu quello del Comandante Enzo Grossi che da Bordeaux si recò prima a La Spezia e poi a Gargnano per conferire con Mussolini; questi gli domandò se si sentiva tanto sicuro della lealtà di Borghese da risponderne con la propria testa. Grossi rispose affermativamente e, a garanzia della sua certezza, lo dichiarò per iscritto seduta stante.
Pur col parere negativo dei gerarchi, interessati a mettere fuorigioco Borghese, Mussolini, dopo essersi consultato con il Maresciallo Graziani, ordinò la scarcerazione, che avvenne il 25 gennaio.
Comunque il Duce non perse la sua sfiducia e ordinò due inchieste su Borghese. La prima, affidata al generale Magri, che nella sua relazione, con una serenità di giudizio che gli fece onore, demolì, uno per uno, tutti i 34 punti dell'informativa: una piena, assoluta e trionfalistica assoluzione di Borghese e della Decima però, avrebbe, senza dubbio, fatto perdere la faccia a troppi gerarchi. E così la relazione, con la consueta formula prudenziale, ammise che, forse, la “ Decima Flottiglia Mas” non era immune da difetti, talvolta anche gravi, e che sarebbe stato il caso di esercitare un'azione vigile, ma cauta e prudente, aliena da prevenzioni e irrigidimenti.
La seconda, effettuata dall'ufficio investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana si soffermò, in mancanza di meglio, su pettegolezzi da portineria, raggiungendo vertici di ridicolo, con l'affermazione che Borghese era ormai incapace di esercitare un comando perché debilitato dai suoi eccessi sessuali.
Qualche tempo dopo, a seguito delle dimissioni di Ferrini, il Comandante Borghese fu nominato sottocapo di Stato Maggiore della Marina. La fiducia era comunque vigilante e i tedeschi piazzarono alle costole di Borghese due ufficiali di collegamento. E mentre il generale Graziani a fatica rastrellava uomini per ricostruire l'esercito, la Decima cresceva a dismisura, sotto la spinta di giovani affascinati dal reparto guidato da un uomo che non aveva ammainato la bandiera, che non imponeva il giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale, che aveva formulato un nuovo regolamento che prevedeva, tra l'altro, rancio unificato per ufficiali e truppa.
Ma la grande crescita rappresentò anche la fine della Decima Flottiglia Mas, che ormai conservava solo un nome marinaresco, e che invece si sviluppava sui reparti di terra che venivano via via costituiti in luoghi dove, in accordo con i tedeschi, appariva più opportuna la loro dislocazione. Tra il settembre '43 e il febbraio '45 si costituirono così 15 battaglioni ( di cui uno alpino ), tre distaccamenti, tre compagnie autonome, un reggimento di artiglieria, due batterie contraeree, una scuola sommozzatori e una flottiglia mas.
Il primo battaglione a scendere in campo contro gli anglo-americani, per la difesa di Roma, fu il "Barbarigo", che il 26 febbraio '44, in pieno assetto di guerra, lasciò La Spezia per il fronte del Sud fra la commovente, spontanea e cameratesca solidarietà della popolazione, per ricevere il 10 marzo il battesimo del fuoco. Nonostante la giovane età della maggior parte dei volontari, i marò si comportarono come veterani.
Il battaglione subì a Nettuno, in soli tre mesi, perdite durissime: oltre 200 morti, più di 100 dispersi, quasi 200 feriti su un totale di 1180 uomini. In concomitanza con le operazioni di terra, la Decima Flottiglia aveva approntato una base a Fiumicino dove mezzi d'assalto di superficie e subacquei eseguirono numerose missioni contro i convogli nemici che alimentavano la testa di ponte di Nettuno.
L'esperienza fatta con il "Barbarigo", il desiderio di altri reparti di combattere il nemico, l'opportunità di ordine politico e militare, e la necessità contingente di riunire, coordinare e inquadrare tutte le rinascenti forze volontaristiche italiane, forze che non dovevano andare disperse ne sbriciolarsi in piccoli reparti di scarsa efficienza, portarono il Comandante alla decisione di riunire tutti i battaglioni in un'unica divisione che prese il nome di "Divisione Decima" (I° maggio '44).
A seguito dello sbarco alleato nella Francia meridionale (15 agosto) fu necessario procastinare l'invio dei reparti della Decima a difesa della Venezia Giulia e dislocarli invece in Piemonte, con il compito di tenere sgombre le vie di comunicazione a ridosso del fronte alpino.
Purtroppo, a causa del fanatismo della guerriglia partigiana, che nel frattempo si era venuta a formare, gli stessi diedero vita a scontri con i reparti della Decima, che divennero sempre più frequenti, e che videro nell'imboscata di Ozegna, uno dei gesti più orribili, e dove morirono il maggiore Bardelli, primo comandante del “Barbarigo” e nove dei suoi uomini, uccisi durante un vile agguato e ritrovati spogliati degli indumenti e dei valori personali, strappati gli anelli dalle dita e i denti d'oro e con le bocche piene di terra e di erba in segno di sfregio.
Questo episodio di ferocia balcanica, ingiustificabile delitto, fu compiuto da un “patriota” noto criminale e delinquente comune chiamato Urati Piero. Dopo quest'episodio ci fu una serie di incontri atti a riportare buonsenso e concordia tra le parti. Ma i buoni propositi della Decima Mas dovevano urtare contro una realtà insopprimibile: il paese si trovava praticamente in stato di guerra civile; con il passare del tempo peggiorava la situazione che di fatto ritardava la preparazione bellica della Divisione.
“ L'essere stati costretti alla guerra civile ci addolora oggi, come ci dispiacque e ci addolorò allora, ma chi combatteva contro l'Italia e contro l'Europa era nostro nemico”.
Gli attentati e gli atti di terroristici contro gli uomini della Decima continuarono.
Non passò giorno che non pervenisse notizia di qualche caduto, e non passava giorno che la Decima non fosse calunniosamente accusata di fatti nefandi. Tutto ciò era opera della propaganda straniera e, purtroppo, anche di quella italiana.
Il Comandante deplorava vivissimamente il fatto che tante vite umane fossero state perdute in una sterile lotta fraticida, così lontana dagli scopi della Decima, quando invece la situazione generale del paese avrebbe richiesto una più stretta cooperazione di tutti gli italiani per la tutela degli interessi nazionali contro tutti gli invasori.
L'8 settembre '44 il generale Wolff, plenipoteniario delle FF.AA. germaniche in Italia conferì al Comandante Borghese, a nome del Fuhrer, la Croce di Ferro di I classe.
[…] “costituisce riconoscimento e attestazione dell'opera svolta dalla Decima Flottiglia Mas per la rinascita delle FF.AA. italiane a fianco dell'alleato germanico, e vuole premiare la fede, la lealtà e l'ardimento guerresco di tutti gli uomini della Decima che combattono per l'Onore d'Italia”.
Il fronte si era stabilizzato.
Sotto gli ordini del fedmaresciallo Kesselring, i tedeschi si erano schierati lungo la linea Gotica.
Le divisioni “San Marco”, “Monterosa”, “Littorio” e “Italia” erano state incorporate nell'armata italo-tedesca “Liguria” al comando del maresciallo Graziani, che riceveva ordini da Kesselring, cui spettavano le decisioni sull'andamento strategico della guerra.
La divisione “Decima” conservava integralmente la propria compattezza e relativa autonomia e continuava a battersi sulla linea Gotica e sul mare con basi sulla costa tirrenica e su quella adriatica, e su questa, in varie zone dell'Istria. La pressione bellica degli anglo-americani andava gradatamente aumentando e di pari passo diminuivano le possibilità di riorganizzazione militare e la capacità di resistenza alla pressione politica dei tedeschi.
La politica remissiva del governo di fronte alla loro prepotenza, e l'impossibilità di attuare alcune delle riforme progettate, fecero si che il comando della Decima prese la decisione di stringere le fila mantenendo un ferreo e geloso controllo, anche e soprattutto a difesa d'ingerenze di carattere politico.
E fu nel settembre del '44 che, a seguito di una richiesta di un'importante dirigente della FIAT (allo scopo di impedire atti di sabotaggio da parte dei tedeschi in caso di ritirata), si creò un distaccamento Decima a Torino, della forza di 150 uomini. E questo non risultò essere l'unico caso in cui Reparti della Decima si resero utili alla causa nazionale, impedendo, di fatto, cospicue distruzioni ai fabbricati, macchinari e automezzi.
Gli eventi incalzavano: l'ottobre del '44 fu un mese denso di avvenimenti.
La linea Gotica non avrebbe resistito ancora a lungo alla pressione delle armate anglo-americane, mentre si aggravava la situazione in Venezia Giulia. Allo scopo di discutere la sorte dei reparti della Decima, in previsione dell'inevitabile crollo del fronte, il 12 ottobre si svolse a Milano un consiglio di guerra con tutti i comandanti; seguì una lunga discussione che portò ad alcune conclusioni tra le quali:
   •  l'ideale della Decima, di difendere l'onore delle armi italiane, deve sopravvivere quale insegnamento al popolo italiano: la Patria non si discute né si rinnega, per essa si combatte e si muore;
   •  considerando che la zona d'Italia più minacciata era quella del fronte Est, poiché le truppe di Tito nella loro avanzata avrebbero compiuto ancora scempi contro gli italiani colpevoli d'essere italiani, la Divisione Decima sarebbe stata inviata in Venezia Giulia, dove si sarebbe tenuta pronta a difendere quelle popolazioni e quelle terre italiane contro gli slavi di Tito;
pur salvando il principio della lealtà verso l'alleato, la Decima si sarebbe svincolata dalle azioni dei tedeschi ogni qualvolta gli interessi italiani (gli unici per i quali i volontari della Decima si battevano) fossero stati in contrasto con quelli germanici.
Il Comandante Borghese, consapevole della gravità del problema e fedele di salvaguardia dei supremi interessi nazionali, iniziò una lenta infiltrazione dei Reparti in Venezia Giulia.
Gli uomini avevano una vita molto difficile: malvisti dalla Marina germanica, erano osteggiati dai politici austriacanti che vedevano in loro un pericoloso centro di italianità; gli italiani di quelle zone, che si sentivano finalmente rispettati e protetti, li accolsero sempre benissimo.
Il tutto si svolse con la supervisione e l'approvazione del Duce:” Borghese: è indispensabile che voi attuiate la tattica della 'macchia d'olio'; dovete cioè penetrare nella Venezia Giulia con un'azione lenta, non clamorosa.
Schierate i vostri reparti a presidio delle città, dei capisaldi, dei paesi, senza che i tedeschi si rendano conto esattamente della consistenza delle forze chiamate in causa”.
I tedeschi com'era facile prevedere, subirono con scarso entusiasmo l'arrivo della Decima: la loro presenza avrebbe, quantomeno, disturbato i loro piani, e non tentarono neppure di nascondere il loro atteggiamento anti-italiano.
Fu sintomatico l'episodio che vide protagonista il comandante della Decima che aveva stabilito a Gorizia il comando all'interno di una scuola, innalzando la bandiera italiana.
Due ufficiali tedeschi, al comando di una compagnia, a seguito di un'ordinanza che vietava l'esposizione del tricolore a Gorizia e in tutta la regione veneto-giuliana, comunicarono al Colonnello Carallo e al suo stato maggiore di considerarsi agli arresti.
Il Comandante Carallo reagì e pochi istanti dopo, alcuni marò del battaglione “Barbarigo” circondarono e disarmarono i tedeschi. Le scuse dal comando germanico non tardarono ad arrivare, e la popolazione goriziana approvò con entusiasmo il fermo atteggiamento di fierezza nazionale.
Gli ultimi mesi del '44 il Comandante Borghese li passò ad ispezionare i Reparti della Decima che operavano sul fronte giuliano, in Alto Adige e sul fronte del fiume Senio a ridosso della linea Gotica. Con un discorso lungo e circostanziato pronunciato il 16 dicembre presso il Teatro Lirico di Milano, Mussolini riceveva l'ultimo bagno di folla, che preoccupò moltissimo i capi del fronte antifascista che si resero conto di come il Duce esercitava ancora un grande fascino sugli italiani e compresero che la sua permanenza nel capoluogo lombardo aveva notevolmente rafforzato il prestigio della RSI.
Fu così che i capi partigiani impartirono le necessarie disposizioni per gettare nel clima della guerra civile la grande città del Nord: il 30 dicembre, nel bar centrale di piazzale Fiume, avvenne un grave attentato dove persero la vita un sottufficiale tedesco e cinque marò della Decima, e vi furono sei i feriti tra cui una donna. Si chiudeva così il 1944, con le bombe dei GAP comunisti e con quelle degli aerei nemici; nel corso dell'anno, sul territorio della Repubblica Sociale Italiana ci furono: 4.541 incursioni, 2.252 mitragliamenti, 7.872 abitazioni rase al suolo, 17.409 abitazioni rese inabitabili, 22.506 morti civili, 35.651 feriti civili, 1.209 morti militari, 1.304 feriti militari.
Con questi numeri era fin troppo facile annichilire ogni residuo di resistenza nei civili; assai più difficile fiaccare la volontà di difendersi e di contrattaccare dei militari al fronte. Durante il gennaio del '45, mentre gli anglo-americani contrattaccavano nelle Ardenne, i Russi attaccavano sul fonte Est della Wehrmacht; la situazione del Terzo Reich era molto difficile e questo influiva negativamente nel rapporto con le autorità italiane.
L'alleato tedesco non poteva più essere d'aiuto alle FF.AA. italiane, e continuava a trasferire mezzi ed armamenti dalla linea Gotica verso i fronti più minacciati.
In quelle giornate il Comandante Borghese fu presente con assiduità nelle città giuliane, e lavorò allo scopo di convogliare tutte le forze partigiane che manifestavano sentimenti patriottici e che combattevano, o che dicevano di combattere, per arginare l'invadenza slava e la prepotenza tedesca.
In quest'ottica si collocarono i contatti con la brigata “Ossopo” (formata in gran parte di ex alpini della “Julia” e da elementi di vari partiti politici), che rappresentava il cardine della resistenza antitedesca e antislava in Carnia.
Ma, ogni tentativo di creare un fronte unico con le forze partigiane anticomuniste fallì, sia per l'intervento del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, sia “per colpa degli inglesi – ebbe ad osservare Borghese – che, da parte loro paventavano collusioni di carattere patriottico tra italiani, dato che era molto più facile mettere in ginocchio un'Italia divisa che un'Italia unita”.
I successi militari della Decima creavano intralcio alle mire politico-strategiche tedesche; quindi verso la fine del gennaio '45, il gauleiter Reiner chiese ufficialmente al plenipotenziario germanico in Italia il ritiro degli uomini della Decima dalla Venezia Giulia e il suo trasferimento, oltre il Piave.
Il trasferimento avvenne il 9 febbraio; restarono nell'Istria: il battaglione bersaglieri “Mussolini”, gli alpini della “Tagliamento” e, in più, cinque legioni di Camice Nere, oltre i battaglioni costieri e i relativi gruppi di artiglieria, nonché i piccoli presidi della Decima dislocati a Trieste, Fiume, Lussino, Cherso e nelle basi di Brioni e di Pola; un pugno di italiani a difesa del lungo confine montagnoso e delle frastagliate coste e isole dell'Alto Adriatico e in Dalmazia.
E mentre il resto della divisione si riorganizzava nella zona a Nord di Vicenza, in modo da poter affluire in Venezia Giulia in caso di necessità, il 1° gruppo di combattimento raggiungeva in Romagna il fronte del Senio sulla linea Gotica.
L'artiglieria nemica manteneva la massima pressione sul fronte del Senio, mentre nelle retrovie agiva l'aviazione contrattaccata soltanto da quella della RSI che contava ormai soltanto su un centinaio di aerei, troppo esigua a confronto di quella nemica che ne contava circa 4.000.
Nelle incursioni aeree morivano soprattutto civili, ma quel ch'è assai più vergognoso è il fatto, ormai ampiamente documentato, che alcuni di quei bombardamenti furono sollecitati da precise segnalazioni dei capi responsabili del CLN e del CVL.
L'11 marzo, al Teatro Odeon di Milano, si svolse una manifestazione popolare in onore della Decima Flottiglia Mas; ecco uno stralcio del discorso di Borghese: “nel momento più tragico del nostro Paese, in mezzo al caos, il popolo italiano ha espresso nel suo seno i suoi figli più puri che, stretti attorno al Tricolore […] hanno giurato di prestare la loro opera al servizio della Patria con ogni energia, con ogni mezzo, con la certezza che l'Italia dovrà sopravvivere […] una Patria minacciata, oppressa, non si abbandona, la si salva o si muore per essa […] questa è la nostra Decima, da molti amata, da molti temuta, da tutti rispettata.
Ormai la sensazione del prossimo crollo generale era avvertita in ogni settore della vita politica e militare della RSI. Il 9 aprile scattò la potente macchina bellica degli alleati per l'attacco finale, allo scopo di sfondare la linea Gotica.
Nei giorni a seguire ci fu una lunga e accesa discussione circa le immediate misure da prendere, e tra gli altri argomenti si parlò del progetto Pavolini che prevedeva di concentrare tutte le forze politiche e le unità militari nel “ridotto” della Valtellina.
Il Comandante non accettò l'idea e comunicò prima al generale Graziani e poi al Duce stesso il suo programma che avrebbe previsto la concentrazione di reparti e battaglioni della Decima nel Veneto, e successivamente il trasferimento del suo Stato Maggiore a Milano: “avevamo ormai un unico compito, quello di salvaguardare la vita dei reparti alle nostre dipendenze, tutelare i cittadini e attendere, in previsione della ritirata tedesca, l'arrivo degli anglo-americani ai quali avremmo consegnato, da militari, le città e le terre da noi presidiate”.
Il 23 aprile, con le avanguardie inglesi ormai alle porte di Vicenza, il Comandante Borghese propose la sua alternativa al progetto Pavolini: il governo della RSI, pur non rinunciando all'alleanza con i tedeschi avrebbe dovuto cedere tutti i poteri alle FF.AA.; queste avrebbero trattato una resa sul campo, secondo la legge internazionale e le norme di guerra.
Mussolini e i politici, non protetti da nessuna legge, sarebbero stati posti in salvo. Per il Duce, la cui presenza fisica era determinante al tavolo della pace, era pronto un aereo che lo avrebbe condotto in Spagna.
Ma Mussolini era fermamente deciso a non abbandonare il suo posto, convinto che questo fosse il suo ultimo dovere: della sua persona, non si preoccupava affatto.
Due cose gli stavano a cuore: l'incolumità degli italiani che lo avevano fedelmente seguito nell'ultima trincea e la salvezza dei documenti che avrebbero fornito l'esatta versione dei motivi che lo avevano spinto a entrare in guerra. Si giunse così al mattino del 25 aprile.
Alla prefettura di Milano, sede provvisoria del governo, l'atmosfera era incandescente: le autorità politiche e militari si alternavano in attesa di disposizioni.
Mentre alle 20.00 Mussolini usciva dal suo ufficio per intraprendere il suo ultimo viaggio, il Comandante Borghese teneva a rapporto il suo stato maggiore: “ …decisi di seguire il mio programma, stabilito per la Decima Mas, lo stesso dell'8 settembre 1943: restare sul posto in difesa dei miei uomini e, con essi, seguendo la loro sorte, cercare di rendermi ancora utile al popolo”.
Il giorno 26, Milano presentava un aspetto desolante, abbandonata dalle autorità civili e militari; tale situazione indusse Borghese a tentare, ancora una volta, un incontro con il CLN per ottenere il consenso di presidiare la città. Ma l'offerta della disponibilità dei reparti della Decima venne respinta.
E così, di comune accordo, si convenne che: le armi sarebbero state depositate nell'armeria della sede della Decima; ogni uomo, completo del suo corredo, sarebbe stato libero di raggiungere la propria casa.
Il Comandante, dopo aver fatto consegnare al generale Cadorna alcuni kg di oro e gioielli che la Decima aveva salvato dalle razzie delle SS di Milano, riunì tutto il personale e diede notizia delle tristi decisioni che l'avversa sorte del Paese, ormai definitivamente battuto e totalmente invaso, lo avevano costretto a prendere. Salutò i suoi marò e disse loro: ”vi lascio liberi di continuare a servire la Patria così come la vostra coscienza, e i principi che in 20 mesi la Decima vi ha istillato, vi detti. La Decima non si arrende ma smobilita.
Tornate alle vostre case e collaborate per la rinascita dell'Italia, ricordandovi che un popolo non finisce per una sconfitta, ma quando dimentica di essere un popolo.
Tenete presente che la sorte del nostro confine orientale non è ancora definita; quando l'Italia dovesse lanciare un appello per la salvezza della Venezia Giulia, nessuno di voi manchi”.

E con il […] grido di Viva Trieste!, vide sciogliersi la Decima Mas.
Ordinò l'ammainabandiera.
“Tre squilli di tromba e la bandiera repubblicana da combattimento viene ammainata. L'aquila nera stilizzata sui tre colori chiude le ali nelle pieghe del drappo che scende lentamente”.
Erano le ore 17.00 del 26 aprile 1945.