Mamma Silenzio
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I MAGRI BORGHESI

C'è una casa che il tempo, con l'alterno
moto, coprì di polvere e pattume:
ma un cielo d'un azzurro quasi eterno
le fa cornice sopra il sudiciume.

I balconcini male illuminati
cercano ingraziarsi un po' di sole
con testi di malvetta e di viole,
e lo aspettano sempre spalancati.

Sgorga talvolta all'aria qualche lieve
canto, così pieno di nostalgia
che scende sulla mota della via
triste come bioccolo di neve.

Due uomini e tre donne, nelle belle
serate estive, seggono a un balcone
muti, al buio. Qualcuno, sornione,
russa stanco; altri guardano le stelle.

Che manca in quella casa? C'è il salotto
coi suoi mobili andati giù di moda,
la consolle un po' sghemba, il sofà rotto,
ma, benché storpio, il pianoforte a coda.

Il cembalo, su cui corser le dita
della nonna, maestra assai severa
della mamma, a insegnarle la preghiera
d'una vergine
, Norma e Favorita.

Mamma talvolta picchiava sui tasti
perché le rispondessero cantando
più forte al dolce suo impeto, ai casti
sogni. Ma il suono s'infrangea tremando.

Gli angoli un poco oscuri della vecchia
casa conservan sempre con le scorie
degli anni un tenue strato di memorie,
un piccolo passato che sonnecchia.

In ogni suppellettile è rimasta,
smorta, qualcosa di chi l'ha toccata:
la toilette ride perché fu adornata
da Elisa; la chiffonniére è casta

perché la cura Teresa. Ma sono
tutte anche un poco in cuore di chi l'usa.
Il pianoforte ora non dà più suono, 
la scrivania d'Emilio è sempre chiusa.

E lo specchio dell'étagère? riflesse
il nonno, i figli. Ora è più disadorno, umido e opaco, pieno di perplesse
immagini dell'altre cose attorno.

Mamma Silenzio, che vi si guardava
trent'anni or sono con la lunga e nera
chioma e se l'arricciava anche, un po' fiera,
se si pettina vede ora una blava

larva, piccina stranamente, offesa
da solchi, con un suo grigio pennecchio.
E se ne accora. Se l'ode Teresa
la rimprovera: "No, mamma, è lo specchio".

Quando Teresa vi si appressa, scorge
la sua figura un po' scialba e sfiorita.
L'ospite muta dello specchio sorge
dall'atmosfera acquosa e indefinita

chiusa nella cornice e rassomiglia
alla sorte di sua madre. All'orecchio
di costei, giunge il pianto della figlia
e le sorride: "No, Teta, è lo specchio".

 

LA GUARDAROBA

 Dal poemetto borghese MAMMA SILENZIO

(ottobre 1912 gennaio 1914).

La guardaroba, obesa, sgangherata,
di abete verniciato a pino-pece,
benché nascosta in un cantuccio, è invece
— forse — la cosa meno trascurata.

 

Voi vi trovate dentro, appesi ai vecchi
uncini, lunghi, caricaturali,
come figure viste dentro specchi
concavi, tutti della casa, quali

 

son quasi all’apparenza, in faccia al mondo:
son le guaine, e un po’ l’anima, delle
persone; ognuno lascia la sua pelle
mondana, a sera, rincasando, in fondo

 

a quel grosso trabiccolo, un po’ cassa,
un po’ bara. Dagli abiti di gala
si diffonde alcunché di triste, esala
odor di tarme, o di tempo
che passa.

 

Il vestito del babbo è ben tagliato.
E’ grigio e sulla manica non mostra
all’orlo qualche macula d’inchiostro
dell’ufficio: la mamma l’à svoltato,

 

esattamente. In una tasca ci à
accartocciato un biglietto del lotto:
un temo che non vinse: e un branca, rotto,
che doman nella pipa fumerà.

 

La veste di Teresa è un po’ dimessa.
A’uno strano colore; Elisa dice:
«Color lacrime, puah! ». Lei n’è felice.
Fu un dono di Ugo e la cucì lei stessa.

 

Elisa invece à gli abiti più belli.
Uno è in foulard: lo volle pel suo nome!
E’ beige, pieno di pizzi, fini come
spume, comprati con que’ soldarelli

 

che rubacchia, d’accordo con Artù,
alla mamma. L’à già bell’e strappato
e benché mamma l’abbia rinacciato
lei strilla che non lo metterà più!

 

Artù ostenta all’occhiello del pastrano
nocciola, spazzolato con gran cura,
la coccardina con la dicitura:
« Partito socialista italiano ».

 

In fondo, triste, pende la divisa
da tenente che Emilio aveva a Sciara-
Sciat: la divisa dolorosa e cara,
con la sua destra manica recisa

 

da quella stessa palla che lo fa
inutile, per sempre. Ancor fa odore
di sangue, ma à un nastrino tricolore.
La mamma à un abituccio d’alpagas.

 

Gramo abituccio che va sempre attorno
e che sempre rincasa impolverato
dopo aver con lo strascico spazzato
scale e vie, tutto il giorno, tutto il giorno.

 

E che à sdrucita e stinta la saccoccia

perché, tornando a sera dopo tanto

vagare, porta qualche buon cartoccio

e il fazzoletto fradicio di pianto.

 

LA RONDINE

 

Ma un altro figlio aveva avuto un giorno
mamma Silenzio; aveva avuto. Ed ora
lo rivedeva sorgere, talora,
dalla luce del suo nuovo soggiorno.

 

Si chiamava Enzo ed era il più piccino
di tutti: a quindici anni era sottile
come un virgulto; un'aria femminile
lo faceva più fragile e bambino.

 

Lo vedevano spesso malinconico
e taciturno, coi grandi occhi aperti
su chissà quali sogni. I giorni, inerti
gli passavano. Ed eran scapaccioni

 

del babbo, perché preferiva l'ozio
allo studio. Ed allora egli fuggiva
a pianger solo: e mamma si sentiva
un colpo al cuore ad ogni suo singhiozzo.

 

Ma lasciatelo fare: c'egli sia
quello che vuole, viva i suoi begli anni
libero al sole, senza quegli affanni
che noi gli diamo, senza prigionia,

 

senza aver male, lui che non fa male!
Soffrirà, piangerà, come soffriamo,
come piangiamo noi che lo battiamo
per amarlo. Va, rondine, apri l'ale,

 

godi, canta nel cielo! - Ma una notte
la mamma fu ridesta a un tratto da
un ululo, un gorgoglio sordo, ma
lungo e denso come di fauci rotte.

 

Lo chiamò, ed egli apparì muto, esangue,
gli occhi sbarrati, ma le labbra rosse
qual ferita, e tra spasimi di tosse
disse: "Mamma, ò sputato tanto sangue!"

 

Da allora invano essa si trascinò
di più, di più, cercando medicine
e alimenti pel suo Enzo: la fine
temuta e inesorabile arrivò.

 

Una mattina quel piccolo cuore
s'esalò, come ungroppo di dolore
e di sogni, in un alito. La rondine
emigrò verso i suoi più azzurri mondi.

 

LE PANTOFOLE

 

Babbo Cianciana è vecchio, ormai. Gli dànno
la pensione. "Va, dice, formica
saggia: dopo l'inutile fatica
un obolo rimane al tuo malanno".

 

Ora sta in casa, con la papalina
in capo. Nell'armadio à ritrovate
le pantofole, quelle ricamate
da Teresa alla terza, da piccina.

 

E se le guarda spesso e si rammente
che allor ci rise su. (Teneva a i piedi
ben calzati; era giovane di trenta-
cinque anni) Rise: "Già vecchio mi credi?"

 

Vecchio! che vuol dir vecchio? Eh, sì, vuol dire
adesso. Quella barba che ora spunta
più presto, e bianca... quella faccia smunta...
quel che si vede dietro a sé sparire...

 

Se tabacco non à, cerca un granello 
di brace, borbottando, nella stipa
del fornello, lo mette nella pipa,
il tartaro si fonde e fuma quello.

 

E sempre cifre in mente. "Questa luna
no, ma quell'altra..." in certi suoi quinterni
di cabale intravede la fortuna
baluginargli fra quaterne e terni.

 

 

CINEMATOGRAFO

 

Arturo con Elisa, trovata qualche lira,
- oh, trovata, buon Dio! - prendon ridendo il volo:
vanno al cinematografo piantando il babbo, solo
in casa con Teresa che rammenda e sospira.

 

Emilio, si sa, legge o medita. La mamma...
chissà dove mai gira la mamma?... il focolare
stasera è freddo e scuro. - "Dove vogliamo andare?
Quanta folla all'Excelsior! Guarda che bel programma!"

 

Nell'attesa (pigiati fra gomiti, fra schiene,
fra pellicce - risate, cicalecci, sentore
di stoffe e di sudore) voi vi dimenticate
quasi in quell'aria soffocante, all'ondeggiare lene

 

della marea di corpi, mentre un alito ardente
ed umido d'ignoto vi sfiora il collo e il ratto
vellichìo d'una ciocca e un morbido contatto
vi fanno trasalire voluttuosamente.

 

Poi sedere, fra ignoti, stretti, spalla con spalla.
Oscurità forata da un raggio brulicante
di polvere. Lo schermo si accende ed il volante
rota frullando, come metallica farfalla.

 

Ecco: in un infinito di luce, una vetrata
s'apre; vi appaion forme tra un sussultar veloce
d'ombre; forme frenetiche di gesti e senza voce
che vivono una loro esistenza sfrenata,

 

assai più intensa della nostra, inesperta e grama.
Raggio d'un altro sole, immagini di vite
diverse. Che faranno quelle larve, sparite
dallo schermo? Nel loro mondo si gode, si ama...

 

Dopo, tornare a casa in silenzio, pensosi.
Arturo à nel cervello, ancor pieno di quel
riddare d'ombre, mille fantastici propositi:
essere poliziotto, topo da grande hotel,

 

apâche conquistatore di milioni. Elisa,
a letto, scossa da brividi di lussuria.
all'amorosa furia di bei maschi si dà
col desiderio. Oh, essere lontano, anche divisa

 

dai suoi e accoglier gemme ed uomini sul seno.
Alfine s'addormenta - quando di già l'aurora
fa levare la mamma, piano - e si vede ancora
carezzata da qualche muto fantasma osceno.

 

 

LE AUTOMOBILI

 Dal poemetto borghese MAMMA SILENZIO

(ottobre 1912 gennaio 1914).

 

«I distici latini d’Orazio e d’Ovidio, e anche quelli
italiani di Giosuè Carducci

che il professore spiega, si, certamente, son belli;
ma interessano meno che andarsene con Pucci

 

alla Targa, che gli assi del volante corron domani
a Bonfornello
». Questo, nel novecentosette,

pensava Arturo. Emilio più serio, scacciava gl’insani
rimpianti, già alle prese con codici e pandette.

 

Per Teresa, ormai grande, esse erano invece una gioia
vietata per sempre. Elisa, ancor fanciulla,

«Quando l’avrò!...» diceva. Per babbo: «Che puzzo! Che noia! »
Mamma guardava, qualche volta, senza dir nulla.

 

Che senso di dominio per gli uomini, quando le guidano!
E per le signore che vi si fan condurre,

che distinzione! Le veloci macchine sfidano
le strade ignote, le lontananze azzurre,

 

realizzano i sogni difficili, fanno del mondo
un gomitolo, tutto di gite e passeggiate!

«Emilio, c’è la laurea da prendere... ». vero. Ma in fondo
che è la vita se mai non ve ne ubbriacate?

 

«Con la laurea il servizio militare puoi farlo da allievo
ufficiale
diceva il babbo non come feci

io, da soldato... Certo, fui con Abba, con Crispi, con Nievo...
a Custoza con Bixio... »
. Nel novecentodieci

 

Emilio è bersagliere. Nell’undici: «In Libia? embè? Santo
diavolo! Evviva la guerra! Non è il caso

di fargli il funerale! Finitela con questo pianto!.. ».
Ma anche lui, babbo, tirava su col naso.

 

Il funerale? Evvia! Chi può morir su una terra
infioccata di palme, sotto un azzurro enorme

così colmo di stelle le notti? Ma è questa la guerra?
Dall’oasi, buia a Sciara-Sciat, mentre il campo dorme

 

giunge come il respiro profumato degli alberi, il lento
sussurro delle fronde, la voce flautata

delle cincie... Fa come un brusio d’uomini il vento
tra le foglie.., fa come passi... Una fucilata...

 

poi dieci, cento... E’ l’alba. Chi spara? Su, su, bersaglieri
è il nemico: stavolta davvero! Baionetta

in canna! Fuoco! Siamo circondati. Ci falciano a intieri
ranghi, cadremo tutti senza vendetta

 

dei nemici invisibili! ... — Emilio, fra pochi uomini,
tirava sulle palme da cui sprizzavano fiocchi
di fuoco e fumo... Sentì come uno schianto al gomito
destro, svuotarsi il cuore... Cadde sopra i ginocchi...

 

Poi nebbia nera. Intorno pareva corressero folli
automobili ed altri veicoli, ma bui,

con clamanti sirene cupe, fasciati di molli
ragnatele e passavan tutti sopra di lui.

 

Si ridestò supino sotto un cielo sanguigno, in un letto
di cadaveri, come galleggiante sul rombo

del motore d’un autocarro in corsa. Dal parapetto
gli penzolava il braccio pesante come piombo.

 

 

LE MACCHINE

 Dal poemetto borghese MAMMA SILENZIO

(ottobre 1912 gennaio 1914).

Una macchina tutto il giorno ronza
lì presso, come, dentro un alveare
colossale, api innumeri di bronzo.

 

Qualcuno d’essi si affaccia a guardare
talvolta, per distrarsi. I colpi sono
ad onde, come palpiti d’un mare

 

di ferracci, su cui talora un tuono
scoppia, seguito da un dirugginio
di lime; e poi ripigliasi il frastuono.

 

Grandi fornaci ansan con sfavillio
altissimo; in cadenza un maglio batte.
Ma attorno a tutto corre un tremolio

 

di pareti e di volte. Le compatte
masse roventi del metallo svuota
il martello, i cilindri le fan piatte;

 

la macchina perennemente in moto
macchine foggia, mentre ai giri pulsa
dell’acciaio stellare della ruota,

 

digrigna denti oleosi, compulsa
mostruosi bicipiti, respira
fumando dagli stantuffi, convulsa,

 

tetanica, terribile per l’ira
di non potere schiovarsi dal suolo
né spezzare il volante che si stira

 

come un tendine attorno a un pernio. Solo
un gesto d’uomo fa batter l’ossesso
suo cuore involontario, scaglia a un volo

 

rotante le sue membra; quello stesso
gesto la paralizzerà più tardi.
E produce col suo moto indefesso.

 

Anche tu, mamma, un po’ crucciata, guardi.
Vedi macchine, vedi alti camini
che pel cielo scardassano infingardi

 

fumi; ascolti altri battiti vicini,
altri lontani, per tutta la terra,
che a mamme e figli approntano destini

 

più vasti e bui. E il tuo cuore si serra
considerando l’inutilità
per te, pei tuoi, di questa eterna guerra

 

di lavoro, di questa civiltà
che nulla fa pei tuoi piccoli affanni,
mentre non chiedi che semplicità

 

nativa, e affetti, come or son mill’anni.

 

 

IL GIORNALE

 Dal poemetto borghese MAMMA SILENZIO

(ottobre 1912 gennaio 1914).

Il giornale: che non manchi!
Babbo ogni sera lo vuole.
Curvo, insegue le parole
nere sopra i fogli bianchi.

Legge tutto e poi ne discute
coi figli all’ora di cena.
S’accalora, racconta con lena,
come di cose vedute.

New-York, Parigi, Pekino,
città, mondi diversi, genti
diverse: un riddare d’eventi
continui, lontano, vicino.

E pare che tutto il mondo
sia folle, convulso, agitato
da un palpito smisurato,
dolente e insieme giocondo.

Il giornale che abolisce
lo spazio, il tempo,
i clamori
della vita: migliaia di cuori
sopra i suoi fogli riunisce,

ed insensibilmente condensa
mille storie, mettendo accanto
la luce, il sangue ed il pianto,
chi uccide, chi ruba e chi pensa.

C’è pure chi à un dramma, nascosto
nell’esistenza, in un chiuso
cantuccio, con l’ombra confuso,
e soffre ignoto al suo posto.

Di gente simile a noi,
perché mai nessuno s’è accorto?
-Babbo, nel mondo (tu ài torto)
non c’è posto che per gli eroi

o pel mascalzone geniale.
Cos’è nell’umanità
una famiglia che sta
in via tale, numero tale?

Fra i palpiti enormi, sian lieti,
sian tristi, dell’universo,
è nulla un cuore sommerso
che sfondare non sa le pareti.

La patria, la guerra, il pensiero,
la civiltà, le Conquiste...
La luce è lontana, ma esiste.
Solo noi non vediamo che nero?

Leggi: Scott che s’apre nel Polo
la tomba sua cristallina;
Chavez, freccia umana e divina,
che le Alpi travalica a volo

e muore... Ma perché? Perché
ciò, se infelici restiamo?
O perché come loro non siamo?
Dove essi vanno che c’è?

Eppure deve essere grande
e bello tentare una sorte
più vasta: anche dopo la morte
qualcosa di loro si espande

nei nostri cuori e ci fa
dimenticare un minuto
il nostro povero muto
dolore che ardori non

Eppure son come noi
e vengono da un rango oscuro,
ed ànno le carni di Arturo,
il sangue di Emilio, gli eroi.

Ma per noi, oggi, che resta?
Vivere, inutilmente,
così. Noi siamo la gente
comune, superflua.., anche onesta...

I SACCHI

  Dal poemetto borghese MAMMA SILENZIO

(ottobre 1912 gennaio 1914).

Teresa à detto che non vuol lasciare
la mamma sola a faticar per tutti.
Il fidanzato la perdoni. Anzi, Ugo,
al magazzino dove passa i suoi
giorni a pesare ed a catalogare
scatole, balle, casse, botti, pingui
di merci che affluiscono dai luoghi
più lontani, Ugo presso il suo padrone
le à trovato da far sacchi, se sa.

Saprà, saprà: non vedi come taglia
il canapaccio ruvido, che sente
di stiva? Quell’odore le ricorda
vele spiegate nell’azzurro, navi
che tentan l’orizzonte, bianche e tumide
di vento, ma soavi ed esitanti

come se trattenute con aerei
fili di nostalgia dai nostri cuori.
Quanti romanzi à letto, quanti libri
d’avventure, Teresa! E cosi scorda
tra foglio e foglio tutte le sue pene.
Talora essa abbandona sul lavoro
le mani stanche, sopra il grembo, il capo
rovesciato dal peso un po’ soave,
un po’ triste dei sogni, e la sua pallida
verginità matura abbrividisce.

Oh, non troppo! Non come le eroine
che ammira un po’ sgomenta, essa domanda
spazii ed altezze. Datele una casa,
un dolce nido dove non sia freddo
né buio mai, una gaiezza mai
mentita. Amare, essere amata in pace.
E bimbi. Qualche cosa nel suo seno
inutile domanda di sbocciare,
come una gemma sotto una corteccia
vitrea. Mamma Silenzio, non dire
col tuo silenzio, con la tua stanchezza,
ch’era meglio non nascere o votarsi
a Dio; non dire che la lavandaia
del cortile che s’accompagna il battere
dei panni col suo canto, ed à la casa
umile, e mangia pan secco, e umilmente
veste, e non cerca il meglio, è più felice
di voi. Teresa cerca il meglio, piccolo
e modesto. Già da quattordici anni
ogni giorno lo aspetta sopra il viso
affaticato d’Ugo, e vede solo
passare il tempo sopra la sua fronte
che si fa sempre più squallida e vasta.
Ugo diventa come babbo, prima
che lei possa baciarlo sui capelli.

Ed essa tace. À da te, mamma, appreso
il silenzio. E imbastisce e cuce i suoi
sacchi: un po’ del suo cuore è in cima all’ago
e ad ogni punto lo trafigge. I sacchi
restano flosci pure ai suoi sospiri,
che invece gonfian nostalgiche vele
a fantastiche navi nel suo sogno.
Però domani, colmi di derrate,
essi, nati dal suo dolore, dalla
sua miseria valicheranno monti,
varcheran mari, portando benessere
ad altri, ai ricchi, anche a colei che canta
battendo
i panni. E chi vi sentirà
il sapore del suo pianto? Le lacrime
non lascian tracce: se le beve il sole.

 

MAMMA SILENZIO

  Dal poemetto borghese MAMMA SILENZIO

(ottobre 1912 gennaio 1914).

1.

Mamma Silenzio, il sole s’è levato
prima di te, stamane. Che rispondi
con la voce più flebile al richiamo
d’Elisa impaziente che ti chiede
dal letto la bevanda mattutina?
— Mamma sta male! — E allora, per la prima
volta dopo tanti anni, furon tutti
attorno a lei. Emilio stesso andò
pel dottore, per qualche medicina.

Mamma Silenzio, sommersa nel tuo
lettuccio, guarirai? Questo tuo letto
dalle spalliere tremule, d’ottone
che non luccica più, ti rassomiglia.
Qui, sono quasi quarant’anni, offristi
la tua verginità timida al bacio
dell’uomo amato, che ti sgomentò
con l’amor suo. Tu domandasti a Dio,
dopo quel giorno, se l’umile gioia
del vostro amore fosse un grave fallo
originario, da scontare in tutta
la vita. E quel lettuccio diventò
poi giaciglio di rovi, ove da te
s’affacciarono a lo stesso squallore
i figli, ove vagirono, ove tu
con le tue ninne-nanne componesti
attorno al lor piccino e inconsapevole
dolore una cortina di beate
meraviglie, con occhi arsi d’insonnia;
giaciglio ove le notti ti svegliava
l’assillo del domani, e i tuoi pensieri
vigilavano il sonno della casa.
Ora tu non vi sei più sposa, madre,
creatura d’affanno: ora vi sei
una povera cosa che finisce.

Essa delira, essa non tace più,
Mamma Silenzio. Il cuore le galleggia
su le labbra, il suo cuore è liberato
dal legame di rassegnazione
con cui la sua soave volontà
ne faceva annegare in onda amara
i palpiti. Essa svela il suo tormento
mai conosciuto, invoca quelle cose
belle, che pure erano nel suo cuore
come stelle annegate nella bruma.
Mamma Silenzio, non morire! attendi
almeno che i tuoi figli, che la vita
possan darti una gioia ultima! Mamma
Silenzio, noi vogliamo che tu muoia
conciliata almeno con la vita.
Queste tue carni, questo tuo sfasciume
miserando, ora sacro più che mai,
perché cosi carico di dolore,
vogliamo che s’adagi sopra rose
di benessere, che la bocca muta
ma disperata mai, sappia un sorriso.

2.

La mamma delirò fino al mattino.
Dopo, sulle sue labbra si posò
una luce, ma opaca. Boccheggiò
silenziosa, come un uccellino.

Vigilatela per l’ultima volta
fra i ceri, fiochi come le virtù
sue; ma la luce che le fanno è molta
se il sole non gliene accordò di più.

Dove la porteranno? Nella fossa
comune, come una povera? No:
che almeno nella morte le sue ossa
abbiano quel riposo che anelò.

— Mamma era stanca, voleva dormire.
Sia quel che sia, sacrifichiamo tutto,
ma vestiamoci gli abiti di lutto
e ch’ella possa fra corone uscire

l’ultima volta. Babbo stia digiuno,
Teresa cucia giorno e notte, fugga
da casa Elisa, Emilio invan si strugga,
Arturo truffi come può, nessuno

sia felice... D’attorno il mondo romba
sordo, egoista, impassibile; ma
al camposanto, fresca di lillà,
mamma Silenzio almeno abbia una tomba.

 
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