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Generazione

 

 

Frammenti di generazione

 

Il termine "generazione" deriva, com'è noto, dal verbo gènero-are, anche se la radice della radice, come sovente accade per il latino di un qualche contenuto, affonda nel terreno della cultura e della lingua greche. Così è anche per generatio, che appunto mutua il suo significato da génesis ((((((((): termine che richiama soprattutto alla mente la celebre opposizione che in sommo Aristotele poneva fra la "generazione" e la "corruzione", in quanto manifestazioni visibili dell'invisibile potenza manifesta in tutte le espressioni naturali.

C'è dunque da chiedersi se il senso della storia non sia anche in parte un attributo del forzoso legame con il passato che si instaura all'interno di ciascuna confessione. Forse l'era della dissoluzione del significato ultimo delle cose deve necessariamente coincidere con l'epoca della fine della storia.

 

E ora un piccolo salto dalla psicologia dell'età evolutiva alla sociologia: esiste infatti una nota teoria secondo a quale le idee filosofiche, artistiche, sociali, politiche ecc. seguono un andamento generazionale e in definitiva esauriscono la loro parabola durante l'arco temporale che segna l'avvicendarsi di una generazione all'altra. Idea interessante, e in parte vera, ma che ben poco dice circa l'altra faccia della medaglia, e cioè che ogni generazione, non soltanto dal punto di vista biologico, ma soprattutto sul terreno delle culture, crea sempre istituzioni e strutture cognitive il cui scopo si giustifica nel tentativo di "passare il testimone" alle generazioni future. Questo fenomeno viene definito in senso stretto "tradizione", ed è oggetto di studio tanto dello storico delle idee quanto dell'antropologico: poiché è appunto l'insieme di queste istituzioni e di queste pratiche che stabilisce lo statuto e la validità delle credenze, delle attitudini e delle conoscenze più varie denotate dallo sfumatissimo e problematicissimo termine di "cultura". Quando il processo di trasmissione o di diffusione culturale si inceppa, e soprattutto quando il salto generazionale si manifesta in forme totalmente estranee a una determinata tradizione (ed è questa una caratteristica peculiare del nostro secolo) allora l'intero sistema sociale collassa, e al suo interno si moltiplicano le manifestazioni di disagio e le espressioni di una violenza non ritualizzata, disgregante e implosiva. Scenario segnalato a chiare lettere dalle cronache.

 

In qualche misura il tema della divisione per generazioni sembra coincidere con la chiusura del secolo (e del millennio), tant'è che in Italia, lo storico dell'arte Giorgio Di Genova ha dedicato una sua monumentale opera in vari volumi alla storia dell'arte italiana di questo secolo dividendo i protagonisti per generazioni. A questa impresa editoriale segue la prossima apertura del Museo Bargellini a Piave di Cento, ove gli artisti saranno appunto divisi per classi di età. Ma a ben riflettere una parte considerevole della storiografia e della critica d'arte ha seguito più o meno volontariamente un criterio sottinteso e analogo, preferendo le strutture diacroniche alle visioni sincroniche.

 

Mi sono infatti chiesto di quale utilità potesse essere esaminare l'opera di ciascun artista dal punto di vista storico-critico, e la conclusione è stata ovvia: non c'è alcuna utilità. Ciò, infatti, è stato assolto da critici di professione, e in più casi anche da grandi personalità della critica d'arte nazionale e internazionale.

 

 

 

Ma, come sosteneva Hartung, è anche vero che gli ultimi bagliori del millennio che si chiude testimoniano la definitiva rescissione del contratto ontologico-ermeneutico stipulato in seno alla cultura occidentale. Una convenzione per altri versi obbligatoria, che ha imposto una forzata equivalenza fra ciò che è percepito dai nostri sensi e l'esperienza, del tutto derivata, della comunicazione di partizioni di vissuti in forme simboliche. Il grande arcobaleno che unisce i vari distruttori del senso oscilla in questo secolo fra gli inconsci automatismi bretoniani e gli effetti psichedelici, fra gli artifici grammatologici e gli impulsi vitalistici, fra le pulsioni caotiche e i vertiginosi vortici ricorsivi delle logiche sfumate. Ed è infine questa la condizione tipica dell'artista, del filosofo, del poeta del nostro tempo, al quale tocca definire l'indefinibile, significare l'insignificante, e in definitiva dare forma … all'informale.

 

E uso qui il temine "testuale" nell'accezione ampia e problematica che esso assume, ad esempio, in alcuni scritti di Harold Boom, laddove il "testo", se percepito sotto il dominio di ciò che Bloom definisce il campo della bruta "fattività", trasforma ogni atto poietico in un fatto inevitabile, fondamentalmente passivo perché sottomesso alla struttura categoriale di un passato inderogabile e inalterabile. Sicché il testo, e nella fattispecie ogni opera d'arte, finisce col riflettere la realtà di chi crea e si trasforma così in un'opera sovradeterminata, vincolata al passato e vincolante: nemica di ogni libertà.

sulla percezione del tempo, e anzi, si dirà a chiare lettere, sull'idea filosofica del tempo

 

L'orologio meccanico com'è noto fu probabilmente realizzato per la prima volta da Gerberto d'Aurillac nel 996 d.C., a Magdeburgo. Gerberto, più noto come Papa Silvestro II, personalità controversa e faustiana ante litteram e come si ricava dallo splendido libro di Jünger dedicato alla storia della misurazione del tempo, fu infatti matematico insigne e il primo fisico sperimentalista del suo tempo, anticipando di oltre due secoli il metodo scientifico sperimentale professato da Roberto Grossatesta, da Alberto Magno e da Ruggero Bacone.

Certo è che con l'orologio meccanico, fornito di un astratto meccanismo interno che obbedisce impone una scansione ritmica del tempo totalmente uniforme e svincolata dal mondo circostante emerge il conflitto fra lo slancio ideale e astratto del progresso e l'inquietudine legata a uno strumento capace di imbrigliare il tempo, di ridurre il tempo in schiavitù, e con esso l'uomo, travolto da quel gigantesco orologio che sarà un giorno la catena di montaggio che schiaccia il piccolo Charlot in Tempi moderni (1936

 

Siamo dunque agli antipodi della dimensione temporale della modernità.

Del resto, nel suo Libro dell'orologio a polvere Ernst Jünger ricordava che: "Per cogliere appieno il suo valore di precursore dobbiamo però tener presente che l'orologio non è solo la prima macchina prodotta dalla nostra immagine del mondo, ma anche il primo automa". Per inciso, si può aggiungere che Gerberto appartiene a buon diritto alla nutrita parentela del dottor Frankenstein. Potrei citare a questo proposito il pensiero di vari e illustri tecnocrati, ma vale per tutti quanto afferma Hans Moravec, mago dei robot spaziali intelligenti made in U.S.A. Moravec descrive l'inumana capacità dei supercomputer che presto, ben prima di quanto si creda, diventeranno di uso comune, ricorrendo all'immagine del tempo: "La vostra nuova mente ha un dispositivo di controllo, marcato speed. – scrive Moravec - È stato regolato su 1 per mantenere le simulazioni sincronizzate con il vecchio cervello, ma ora lo regolate su 10.000 e ciò vi consente di comunicare, reagire e pensare diecimila volte più velocemente. Adesso avete delle ore per far fronte a situazioni che prima vi parevano istantanee[...]". Dunque, secondo l'autorevolissimo parere scientifico di Moravec La percezione del tempo si trasformerà in una variabile arbitraria ma misurabile quando la sua computazione (e registrazione) sarà operata negli scintillanti meccanismi dei cervelli positronici di un futuro annunciato. Dunque, il tempo abbandonerà l'orologio meccanico o elettronico, né avrà alcun senso parlare di tempo soggettivo incomunicabile. Ha senso tutto ciò?

Certo, il nostro è il tempo storico che esibisce il tremendo potere tecnologico della quasi-simultaneità: sei ore di volo fra Roma e New York. Sedici fra Parigi e Pechino. Universi mentali fra loro incompatibili collassano in un solo tempo, in quasi nessun tempo o in centomila tempi differenti, ma tutti tra loro prossimi e dunque quasi identici. La perdita dell'identità, infatti, deriva dalle strane connessioni spaziali che i trasporti materiali o virtuali hanno creato nel breve volgere di mezzo secolo. Ed è appunto l'era dei non-luoghi, così come li definisce un'espressione alla moda coniata dall'antropologo Marc Augé. Eppure resta incontrovertibile che anche in un'epoca come la nostra, composta da una trama di non-luoghi reali e virtuali, il tessuto del tempo riveste strettamente il corpo sociale ed è percepito da tutti, in ogni angolo del pianeta, secondo un ordine che non viene mai minimamente posto in discussione, come si evince anche dai fatti di cronaca. E per tutti potrebbe essere citato i rischio del collasso del sistema infomatico mondiale all'alba dell'anno Duemila: effetto indesiderato del cosiddetto Millennium Bugs.

Eppure, per quanto sofisticati e basati su tecnologie digitali, gli orologi elettronici non hanno modificato il significato che ha assunto la computazione del tempo da quando è nato l'orologio meccanico. Senza l'orologio meccanico Kant non avrebbe mai definito il tempo una "intuizione pura" che si ricava dall'ordine della successione entro la quale noi tutti percepiamo i nostri stati interiori. Nella mente del grande filosofo di Koenisberg, "[…] dire che il tempo è infinito vuol dire soltanto che ogni grandezza determinata di tempo non è possibile che con la limitazione di un tempo unico che ne è la base sottostante"

Ma ora un Moravec ci dice che il tempo meccanico ha fatto il suo tempo. Echi doppiamente millenaristi ci suggeriscono che stiamo per entrare in un'era senza tempo, forse nel millennio dell'eterno presente, o degli infiniti tempi personali, dunque all'era dei non-luoghi seguirà a un dipresso l'era dei non-tempi, dell'anti-tempo, dell'ultratemporalità, perfino.

Apparentemente potrebbe soccorrerci il concetto di Durata bergosoniana, ma

Indine l'iconografia dell'orologio nelle opere d'arte vedi Kern.

Di ciò vorrei convincere anche la mia sveglia che, ottusamente, si ostina a scandire il suo tempo secondo un metro che non esiste più.

: sulla dialettica fra il proprio e lo spazio altrui culturale, cfr Lotman cercare la strada, p. 34

Florenskij: il tempo omogeneo, che scorre senza variazioni, non è in grado di rendere un ritmo

McLuhan: separazione dei sensi, dovuta alla stampa, = creazione artistica interiorizzata e introspettiva in rapporto a un mondo in progressiva esternalizzazione. creazione artistica simbolica ed esteriore. Grado zero della referenzialità. Il suo rapporto col mondo è il silenzio. il suo spettro è la follia. fusione di tutti i sensi = caduta del simbolico apertura al situazionale, all'orgiasmo casto e senza emissione diseme, senza coito, integrità delle percezioni e del corpo.

 

l'arduo e sfuggente concetto di "limite".

Si può forse aggiungere che l'argomento scelto sia del pari il suo stesso limite. E non sarebbe certo una battuta. Verrebbe anzi in mente un lato critico del concetto di limite: la sua autoreferenzialità, cioè quella stessa qualità autolimitante che già il filosofo presocratico Parmenide aveva attribuito al Cosmo. Com'è noto questo granitico pensatore, che Platone non a torto definì "il vecchio venerando e terribile", aveva proclamato l'Universo un'entità perfetta nell'assolutezza della sua stessa finitudine. Il cosmo, secondo Parmenide, era ed è per l'appunto una "ben distinta sfera" che manifesta l'unità del tutto.

A ben vedere, si può immediatamente notare una dissonanza profonda fra il pensiero greco antico e il sentire filosofico (e antropologico) contemporaneo. Infatti, agli albori della civiltà occidentale, il concetto di "limite", così come lo si riscontra in Parmenide e in altre colonne del pensiero greco, era evidentemente connotato da una carica positiva. Al contrario l'uomo greco, come sostiene il Pohlenz, avvertiva tutto ciò che non aveva limiti come una minaccia allo statuto ontologico degli enti, e scendendo per i rami come un attentato allo stesso ordinamento morale, economico, politico della società.

Se è vero che Anassimandro definiva l'illimitato (apeiron) come il principio primo, e se è altrettanto noto che Anassagora riteneva infinita l'Intelligenza che tutto governa, è anche vero che il dominio sfuggente dell'infinito preoccupò la maggior parte dei filosofi greci, tant'è che i Pitagorici, come si dirà, nel campo dei numeri attribuirono al limite la determinazione dell'illimite; e Platone , nel Filebo, ammise che la realtà fenomenica è un misto di "apeiron" e di "peras", cioè di illimitato e di limite. Da qui la sua intrinseca e inquietante permutabilità. Aristotele, come è risaputo, sostenne invece che l'infinito in atto non esiste, e così apparentemente chiuse il cerchio della vexata quaestio. Dal canto loro gli Epicurei, riprendendo le teorie di Leucippo e di Democrito, considerarono infinito il numero degli atomi, ma finiti gli atomi medesimi. Gli Stoici ritennero il mondo finito, mentre infinito restava soltanto il vuoto, cioè una non-entità.

A questa qualità negativa dell'illimitato faceva da contrappeso l'intrinseca positività del limite, circa il quale Aristotele argomentò distinguendo i suoi quattro sensi fondamentali. Per lo Stagirita, come si sa, il limite è "il termine estremo di ciascuna cosa", argomento che ritroviamo nelle premesse della prova ontologica di S. Anselmo d'Aosta. Limite è poi il fine di ciascuna cosa. E ancora limite è la forma stessa, e resta celebre a questo proposito la concezione aristotelica del "contenuto" e del "contenitore". Limite, infine, è uno dei tanti modi per appellare la sostanza o l'essenza delle cose.

In questi differenti profili del concetto di "limite" resta inalterato il problema della misura, che è un tema estetico, politico e antropologico nello stesso tempo. Per l'uomo greco "bellezza" e "misura" erano quasi sinonimi, come si sa. Per non dire del concetto di Stato, che a dispetto di tutte le differenze politiche restava per l'uomo greco un prodotto del senso compiuto. La polis era del resto un'entità politica ben delimitata, addirittura visibile nei suoi confini e tangibile nelle sue istituzioni fondamentali.

La trasversalità del senso del limite che si riscontra nell'uomo greco deriva da un preciso dato antropologico. Infatti, la civiltà greca si fondava sui concetti etici dell'autodominio (enkrateia), dell'intraducibile "eudaimonia" (il "buon demone" che dona la felicità), della virtù (areté), della moderazione di tutte le passioni in rapporto alla giusta misura (metriopatia): nozioni etiche che si incardinano sul concetto di limite. Quando il filosofo sofista Protagora di Abdera dichiarò che "l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono" (primo mattone della grande muraglia del soggettivismo moderno e contemporaneo) non fece altro che rimarcare da un punto di vista empirico un dato antropologico ben radicato nella sue stessa civiltà.

Ora, abbandonando l'affascinante mondo greco, si deve subito rilevare l'incommensurabile distanza che separa noi contemporanei da quell'antico modello umano, e la mutata connotazione del concetto di "limite" ne costituisce senza dubbio una prova lampante.

Non c'è dubbio che il senso del limite e dei limiti si è oggi incredibilmente trasformato e radicato. Intanto, al contrario della civiltà greca, l'universo antropologico occidentale sembra reggersi sulla costante sfida dei limiti umani. Per esempio, l'idea sportiva del "record" era estranea all'atleta antico che partecipava ai giochi olimpici, mentre al contrario essa è inerente, fino all'aberrazione, allo statuto del nostro "civilizzato" mondo sportivo.

L'umanità, e non solo l'umanità occidentale, grazie all'impressionante evoluzione scientifica a cui si assiste da oltre un secolo e mezzo ha dovuto costantemente ritoccare il senso dei limiti del proprio mondo, dei propri confini, delle proprie certezze. E questo è senza dubbio un dato antropologico complessivo che merita una approfondita riflessione.

Il mondo è diventato piccolo - si dice e non a torto - anche a causa dei sempre più avanzati mezzi di comunicazione. Questa "piccolezza", questa raggiunta marginalità del limite che separa individui, religioni, caste, culture e lingue differenti, se non antitetiche fra loro, contrasta enormemente con l'immensa espansione del senso dei limiti dello spazio e del tempo. Anche in questo caso l'evoluzione tecnologica è la vera responsabile di una percezione tanto mutata quanto radicata e diffusa. L'idea che al giorno d'oggi l'astronauta John H. Glenn, il primo statunitense che varcò i confini della stratosfera, alla veneranda età di ottanta anni possa ancora volare nel cosmo a bordo dello Space Shuttle dimostra che il limite dello spazio interplanetario non è più un limite. Si può anzi affermare che fra la Terra e la Luna si stenda un territorio un po' fuori mano, ma all'interno dei nostri confini, tant'è che esso può essere tranquillamente visitato da un arzillo pensionato dello spazio.

E' anche vero che accanto a questi esaltanti risultati del potenziale umano si affiancano le tremende ingiustizie sociali ed epocali della fame nel mondo, dell'oppressione di interi popoli, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta; ecco che i moderni mezzi di comunicazione, capaci di rendere "prossimo" ciò che è distante, ci consentono di prendere coscienza dell'altro lato della medaglia dell'evoluzione culturale in corso. Tocchiamo così con mano i limiti inferiori e anzi infimi in cui è costretta un'enorme fetta dell'umanità. Ma questo è un argomento che per la sua tragica vastità purtroppo esula dal contenuto di questa tesi, circa la quale va detto che non è non può certo essere un lavoro esaustivo. In essa ho piuttosto inteso tracciare alcune ipotesi di lavoro, tra di loro intimamente connesse, ma anche rispettivamente autonome.

La massa d'urto della creatività collettiva inconscia è probabilmente abissale, ed è veramente prossima al limite della storia.

Questa forza sottopone il mondo circostante a una pressione interna tendenzialmente esplosiva. La moltiplicazione dissipativa dei referenti è allora il prodotto di una sistema che controlla i flussi di relazioni fra soggetti che si moltiplicano senza sosta. Dal punto di vista estetico la meta-forma dà luogo a innumerate visioni del mondo, tutte mutualmente incompatibili, ciascuna distaccata dall'altra, ma tutte intimamente connesse.

In un siffatto mondo di identità moltiplicate l'Arte cessa di incarnare le sia pur residuali idealità normative che aveva finora conservato. Non potendo incarnare un'idea plastica qualsiasi l'arte cessa anche di essere una pratica devozionale, sia pur profana, e torna al suo originale significato di  "Symbol". Perciò il suo stesso statuto ontologico unitario si trova ad affrontare una crisi senza precedenti. Ma in quanto categoria merceologica l'arte trova una perfetta corrispondenza nelle raffinatezze del consumerismo. Ed ecco il moltiplicarsi senza fine degli artisti, degli stili, dei prodotti, delle tendenze, dei 'discorsi intorno a'. Quando un prodotto satura il mercato allora per tenere alta la tensione fra la domanda e l'offerta si ricorre anche alla apparente diversificazione del prodotto. Questa strategia, applicata al mondo dell'arte, dà luogo al trionfo dell'Eclettismo.

 

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