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Non Luoghi

 

Quando si parla o si scrive dei cosiddetti non-luoghi si tocca un oggi un nervo scoperto, e si entra in un territorio che riflette disparati stati d'animo. Si può anzi affermare che larga parte della notorietà tributata ai teorici dei non-luoghi sia in realtà il risultato delle ansie e delle aspettative più riposte di un'umanità potentemente investita dalla ristrutturazione psicodinamica del proprio territorio. Da qui la fortuna di autori per altri versi assai deboli. Penso ad esempio a Paul Virilio, o all'antropologo Marc Augé.
Nell'era della "surmodernità", così come la definisce Marc Augé, non esiste altro luogo concepibile se non all'interno di situazioni predefinite da norme, come ad esempio quelle che regolano gli spazi e il tempo dei passeggeri. In definitiva se "... un luogo può definirsi identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo".1 Secondo Augé il mondo attuale è saturo di nonluoghi antropologici, schizofrenicamente separati dai luoghi dell'antichità e della storia, anche recente. D'accordo. E allora? E' la scoperta dell'acqua fresca, tant'è che lo scenario che tanto preoccupa Augé e affini fu per la verità preconizzato infinite volte nei decenni passati. Per esnempio quarant'anni fa da Lewis Mumford affermò che:

La forma della metropoli è dunque la sua uniformità, come la sua meta è un'espansione senza meta. Chi opera entro i limiti ideologici di questo regime ha una concezione del progresso puramente quantitativa: cerca di far più alti i suoi edifici, più larghe le sue strade, più ampi i suoi parcheggi; moltiplica i ponti, le autostrade e i tunnel, rendendo sempre più facile l'entrare e l'uscire dalla città ma limitando lo spazio urbano disponibile per funzioni che non siano quelle del trasporto [...] Una città del genere finirebbe per comprendere mezzo ettaro di costruzioni ogni miglio quadrato di autostrade e parcheggi. 2

Mumford sembra quasi avere disegnato punto per punto la scenografia degli esterni di Crash di Cronenber (1996). Ma le suggestioni dell'eccellente regista derivano da Ballard, scrittore che, com'è noto, ha affrontato il tema delle inquietanti pieghe "nascoste" fra i paesaggi megapolitani in vari romanzi (penso ad esempio a "Condominium" o a "L'isola di cemento", e allo stesso "Crash". Ballard descrive ben più efficacemente delle moraleggianti doglianze di Augé quel senso della perenne deriva, della transitorietà di ogni evento e dell'effimero in cui trascolora la vicenda di tanta parte dell'umanità occidentale contemporanea. Crash esibisce la realtà delle superautostrade e dei caselli, dei motel e dei garage di scambio. L'effetto irreale che anche il film promana in ogni sua inquadratura dipende forse dal fatto che non siamo abituati a riflettere sul panorama urbano ovunque diffuso. Eppure il regista non fa altro che puntare la cinepresa sulla realtà, producendo uno spettacolo a suo modo "realista".
Ma anche Ballard, Mumford e altri hanno in realtà avuto degli antecedenti. Basti pensare all'architetto futurista Antonio Sant'Elia, che nel suo Manifesto sull'architettura futurista affermò a chiare lettere che l'umanità del futuro avrebbe costruito e distrutto senza soste le sue stesse città. Ogni generazione avrebbe costruito le sue città. Non è forse un manifesto ante litteram sui non-luoghi? In letteratura il fenomeno fu notato e interpretato da grandi e grandissimi autori. Potrei citarne diversi ma mi limito in questa sede a trascrivere un passo de L'uomo senza qualità:

Il messaggio di Musil è chiaro: il sentimento della modernità è funzione di una velocità che non lascia scampo e che destruttura in prima istanza i luoghi identitari. Dalla letteratura alla massmediologia. E così, senza scomodare l'abusato McLuhan, che pure a lungo trattò di non luoghi (che altro è il cosidetto "villaggio globale" se non il non luogo per eccellenza?) mi limiterò a citare il celebre massmediologo Joshua Meyrowitz che al concetto di "assenza di luogo" (ovvero di "non-luogo") dedicò un lungo e straordinario capitolo del suo monumentale Oltre il senso del luogo, libro - si badi - pubblicato nel'85, nel quale trattò oltretutto dei "cacciatori-raccoglitori informatici" e di altre strategie comportamentali nomadiche del nostro tempo. E ora alcuni epigoni dell'ultima ora vogliono spacciare per moneta buona del banale oro di princisbecco e ricamandoci sopra (senza citare le peraltro evidenti fonti) costruiscono perfino degli eventi espositivi prossimi venturi. Ma tant'è.
E ora il mio pensiero in proposito. Come afferma Piero Zanini, la fine delle frontiere, la caduta delle ripartizioni e dei confini cui si assiste non è il riflesso di uno stato d'equilibrio cinetico, simile alla dinamica che tiene in piedi la trottola, ma che produce la costituzione di confini "portatili". 3 A ben vedere la stessa dissoluzione dei luoghi e delle frontiere non può che preludere alla formazione di una nuova e gigantesca frontiera. Quella dello spazio esterno. A questo evento ci preparano i sistemi di comunicazione le le forme estetiche del nostro presente.
La visione virtuale di altri mondi, l'apprezzamento estetico del nostro pianeta visto da altre prospettive che possono anche essere irreali, ma che ciò nondimeno colpiscono la fantasia, ha certamente reso meno interessante il panorama consueto al quale siamo abituati. Le fotografie astronomiche rendono banale il panorama della volta celeste visto a occhio nudo. E la Luna non ispira più gli amanti, visto che da un trentennio è stata fisicamente raggiunta e visto che possiamo facilmente apprezzare scenari virtuali di sistemi planetari abitati da fantasmagorici satelliti inanellati, da comete, da asteroidi di ogni ordine e grado e da astronavi che sfrecciano nel silenzioso profondissimo cosmo.
I paesaggi virtuali impoveriscono gli scenari reali, i quali a stento reggono il paragone. Non apprezziamo più la visione e la temporalità del nostro mondo perché i mondi virtuali ci abituano ad altre e più ricche temporalità e a nuovi e più interessanti punti di vista. La nostra infelicità sta tutta semmai nell'impossibilità a rendere immediatamente reale e fungibile ciò che è irreale e per il momento intangibile. La terra non è più la nostra casa, ma non siamo ancora giunti al punto di poter salpare da Itaca. E ciò è forse il vero fulcro della coscienza infelice di questi nostro tempo fatto di attese e di rinunce. Non esiste il problema dei non-luoghi. Esiste soltanto la percezione dei nuovi confini.

 

1 Marc Augé, Non-lieux, Paris 1992, Non luoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1996, p. 94.

2 Lewis Mumford, The City in History, 1961, La città nella storia, trad. it. A cura di Ettore Capriolo, Bompiani, Milano 1997, p. 674.

3 Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 49 e ss. Circa la nuova definizione dei confini individuali e vitali cfr. Paul Virilio, La vitesse de libération, Galilée, Paris, 1995, p. 95 e ss.

 

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