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Villa Gates

 

La nuova casa dell'Imperatore


Immaginiamo di visitare la villa di Bill Gates. Il celebre complesso residenziale del magnate della Microsoft sorge a Medina, presso Seattle, e si affaccia sulle rive del lago Washington. Per realizzare questa intrapresa, che si è ammantata del fascino dell'utopia tecnologica, pare che Gates abbia speso oltre cinquanta milioni di dollari, circa novanta miliardi di lire. Secondo i resoconti dei giornalisti, in quegli ambienti distribuiti su milleottocento metri quadrati immersi nel verde quasi non esiste ombra di sfarzo. Apparentemente la villa di Gates non si distingue da una qualsiasi altra dimora dell'alta borghesia statunitense; ma basta un cenno della mano del visitatore, o un semplice comando vocale per mettere in moto e lasciare emergere i 'veri' ambienti. Le sofisticate e in qualche caso avveniristiche apparecchiature elettroniche, rigorosamente nascoste alla vista, obbediscono docilmente ai desideri espressi dal visitatore. Occhi e orecchie elettroniche 'vedono' e 'ascoltano' i residenti, accendono e spengono luci, animano impianti stereo e video, regolano la temperatura dell'acqua e dell'aria, 'ricordano' i gusti e le preferenze degli ospiti. L'occulta rete di computer, collegata alle banche dati del mondo intero, può anche trasformare lo stile degli ambienti selezionando a richiesta le immagini virtuali delle opere d'arte più celebri del mondo.
La residenza di Gates è insomma un gigantesco 'demo' che illustra la vita quotidiana dell'umanità del terzo millennio. Questa strana magione incarna l'antitesi dell'American stile of life. La villa di Gates è tra l'altro un luogo totalmente privo di privacy, proprio come doveva essere la Reggia di Versailles all'epoca del Re Sole. Con la cospicua differenza che al posto delle spie umane Gates utilizza lo spioncino elettronico, molto più affidabile delle prime e assolutamente a prova di tradimento.
L'analogia con la Reggia di Versailles si estende anche al fatto che la "casa" di Gates è in realtà una vera Reggia elettronica, nel senso che essa è al centro dell'informazione in rete. Acquistando i diritti di riproduzione dei maggiori capolavori contenuti nei grandi musei del mondo Gates ha dimostrato che il possesso materiale di un bene è oggi subordinato al processo d'elaborazione elettronica dei dati. Gates quasi senza parole ha dimostrato che a questa regola soggiacciono perfino quei beni che nella società eidomatica sembrano assumere un valore simbolico assoluto: gli irripetibili capolavori del genio artistico. 1
Dove cercare la ragione di una simile rivoluzione? Tempo fa avanzai l'ipotesi che l'abilità mimetica che per millenni è stata il vanto di ogni pittore, freschista e scultore, una peculiare capacità del "genio", non è che una facoltà comune alla specie: una sorta di camaleontico manto mentale che si è dimostrato utilissimo per superare le varie crisi ambientali affrontate dall'umanità. 2 Aggiunsi che una siffatta capacità mimetica non può sopravvivere all'attuale ristrutturazione psicosensoriale cui sono esposti i contemporanei. Noi tutti siamo immersi in un brodo di immagini elettroniche altamente saturato, a un perenne brainstorm di impulsi contrastanti e sempre più complessi.
La fine della mimesi dipende dal fatto che il sogno di una lunga teoria di artisti è oggi quasi realtà. La statuaria greca creò il simulacro perfetto, ma immobile. La forma umana ideale era divina, nondimeno essa restava senza vita. Il robot realizza e dà vita al sogno del simulacro perfetto. Non esiste scultura mimetica più bella e più ardita di un manufatto dotato di sensi artificiali, di una rete neurale sempre più complessa e di una autonomia decisionale sempre maggiore. Un siffatto prodotto dell'ingegno umano può per ora assomigliare ad una locusta, o a un bidone della spazzatura montato su ruote. Ma resta pur sempre una "vivente" esemplificazione dell'umana unità psicosensoriale che si riflette nell'artificiale. Il robot è un esempio assoluto di mimesi.
Quantunque il mondo dei robot sia ancora e soltanto uno scenario dell'immaginario, esso tuttavia non ci appare così. Si tratta dunque di una percezione diffusa, largamente interiorizzata da masse di individui eterogenee fra loro, per cultura estrazione sociale o politica e collocazione geografica. Siamo perciò al cospetto di un dato generale che investe l'ordine della percezione del mondo. Quest'anticipazione psicosensoriale degli eventi e degli ambienti si è più volte verificata nel corso della storia filogenetica della specie. E in particolare essa risulta evidente analizzando l'evoluzione culturale e psicosensoriale della dimensione visuale.
Panofsky, come si sa, riteneva che la rappresentazione della terza dimensione ordinata secondo le regole della prospettiva piana affiorò molto lentamente, e non senza un faticoso processo di astrattizzazione tendente alla progressiva definizione dello spazio sul piano cartesiano. Ma in realtà le false prospettive medioevali, che tanto offendono l'occhio "cartesiano" dei contemporanei, obbedivano a regole della rappresentazione che riproducevano per analogia alcune caratteristiche della percezione visiva. 3
In molti casi questo tipo di rappresentazioni produceva strutture simili alle assonometrie, in altri casi gli elementi architettonici erano volutamente deformati, come se fossero posti in uno spazio curvo. Lo spazio della curvatura retinica, appunto. Effetto interpretato dall'occhio dei contemporanei come un'assurdità prospettica, ma che in realtà risulta molto più aderente alle caratteristiche fisiologiche della visione di quanto non lo sia la riduzione fenomenologica della profondità alle leggi della prospettiva piana. Ora, è singolare costatare che nel medioevo si afferma una riduzione dello spazio tridimensionale molto simile a quella che nel nostro secolo consentirà la costruzione delle cosiddette "figure impossibili".
Com'è noto, il primo triangolo impossibile fu per la prima volta disegnato dal pittore e matematico belga Oscar Reuterswald nel 1936, fu poi ripreso con infinite varianti da Maurits Cornelius Escher, nonché dal fisico e saggista Roger Penrose che usò il modello delle figura geometriche impossibili per iniziare una singolare esplorazione sui limiti e sulle potenzialità dell'intelletto umano.4 Le figure impossibili si rivelano strumenti euristici fondamentali ai fini di un'esplorazione dell'estetica dei mondi virtuali. La creazione di questi paradossi visivi si basa sulla circolarità e sull'autoreferenzialità di questi singolari universi geometrici. Perfettamente coerenti nella seconda dimensione, queste figure diventano inconsistenti se percepite con l'occhio allenato alla prospettiva lineare, che muove da un punto per estendere idealmente i prolungamenti delle linee di contorno della figura all'infinito, e in ogni direzione. Dunque, l'occhio dei contemporanei percepisce e soprattutto interpreta questi "paradossi" perché abituato a leggere ogni riduzione grafica della terza dimensione secondo un'ottica centrifuga.
Ma il nostro "senso dello spazio" non soltanto percepisce il paradosso delle figure impossibili, ma addirittura ne ricava un diffuso e ancorché inspiegabile godimento estetico.

Spazio panfotonico

Viviamo in un'era in cui la rappresentazione torna con mezzi eccellenti a disegnare figure e forme all'interno di uno spazio panfotonico, nuova e alternativa manifestazione della percezione circolare, entro la quale tutti i punti convergono su se stessi.
L'epoca del trionfo della prospettiva sancì l'internalizzazione della sensazione dello spazio fisico infinito che si estende dal centro dalla nostra individuale percezione visiva in ogni direzione. Questa percezione dell'infinito potenziale trasformava le persone in individui progressivamente isolati l'uno dall'altro: punti inestesi e non comunicanti. La monadologia leibniziana esprime bene il significato dell'avvenuta interiorizzazione dell'atomismo spirituale. Da Leibniz in poi l'individuo avverte se stesso come un punto irrilevante, di fatto chiuso nella sua nullità da una simile infinità senza ritorno. Stephen Kern, nel suo fondamentale Il tempo e lo spazio, ha analizzato a fondo i radicali mutamenti della percezione e del senso tra Otto e Novecento, concludendo che la percezione del nulla che nel frattempo si radicò nelle coscienze deriverebbe dalla dissoluzione tecnologica del tempo ciclico e dello spazio omeostatico.5 Effetti che pervasero la quasi totalità della cultura letteraria e artistica, determinando alfine la generale sensazione del nulla che abita in noi stessi. Ma le osservazioni di Kern meritano un approfondimento degli antefatti. Infatti, l'introduzione delle tecnologie del pensiero fu ampiamente preceduta dalla mobilitazione di quelle risorse speculative che ne costituiscono le fondamenta. In particolare, dalla scoperta dei numeri irrazionali la coscienza fu precipitata nel pozzo senza fondo degli infiniti in espansione. La monadologia e il calcolo infinitesimale (scoperto da Leibniz e da Newton quasi contemporaneamente) rappresentano le colonne di una sensibilità filosofica di nuovo conio. Una sensibilità che abbandona il mondo medioevale delle intenzioni denotative, per affondare nell'universo premoderno degli orizzonti interiori che procedono dall'astratto punto inesteso di un Io cosciente. Eppure, dal suo punto inesteso e immobile la monade leibniziana, che non ha finestre, riesce ad espandersi in ogni direzione e profondità.
Dunque, la classe d'eventi che confluisce nella monade è strettamente analoga alla logica insiemistica che governa l'estensione dei numeri. Addizionando i numeri irrazionali ai razionali si squadernò il mondo dei numeri reali, che a sua volta fu esteso al campo dei numeri immaginari, radici quadrate di numeri negativi. Numeri irrapresentabili e completamente estranei alla coscienza ordinaria. E siamo soltanto agli inizi di un processo di espansione della monade leibniziana, processo che giungerà rapidamente ai numeri complessi e anche oltre, esplosiva espansione i cui risultati non sono certo prevedibili.
Questa generale spinta ad una sempre maggiore espansione dell'estensione dei numeri coincide con il progressivo radicamento del nulla nelle coscienze. Dopotutto l'universo estensionale non ammette la presenza dei fenomeni psichici, e anzi la nega. Il punto inesteso è appunto un luogo geometrico in-esistente, così come la classe nulla è la risultante di una descrizione assiomatica il cui contenuto è nullo. Eppure proprio sull'insieme nullo si costruisce l'intero edificio matematico.
Si può costatare fino a che punto quest'universo astratto, estraneo ai fenomeni psico-sensoriali, sia stato rovesciato dal suo interno come un calzino. L'astrazione e l'estensione hanno generato le forze intenzionali e tattili che noi definiamo produzioni eidomatiche elettroniche. Però è anche vero che le attuali primitive tecnologie generano proiezioni a volte ingannevoli, che nascondono la vera natura del processo.
L'attenzione è attratta dal feticcio tecnologico, cioè da nient'altro che la banale organizzazione fisica, strumentale, di un costrutto sensoriale emergente. La coscienza critica mira con difficoltà la vera natura di questo movimento che appare dal nulla, dal vuoto, dall'immaterialità. O se si vuole da quell'astratta estensione senza contenuti psichici, senza "dolore", che è l'universo matematico. Ma il fatto è che l'espansione di quest'universo ha evidentemente generato una realtà sensoriale di ordine superiore. La dimensione spaziale e temporale risultante può forse essere definita "panfotonica", anche perché essa corrisponde a un dominio sempre pieno, compatto, così come l'universo matematico dal quale proviene è per definizione connesso e continuo.
Esso è un sistema aperto e irradiante per definizione. Al suo interno sussiste sempre una "stanza dell'albergo di Cantor", e dunque è sempre possibile scoprirvi una struttura qualitativa in grado di urtare il campo delle configurazioni sensomotorie, violandone i limiti.
Il costruttore di mondi virtuali è pertanto un custode e un esploratore delle profondità archeopsichiche. Il mondo panfotonico è il limite della temporalità e della misura. I conati creativi del più geniale fra i programmatori sono alcunché al cospetto delle dimensioni intermedie che questo stesso mondo squaderna. Ogni esplorazione estetica e sinestetica dell'universo delle possibilità in atto equivale a un arresto. Come a sancire l'esistenza dell'invalicabile baluardo dell'infinito in atto.
La struttura di questo spazio panfotonico non è una sfera che si espande, bensì un'ipersfera, della quale percepiamo di volta in volta soltanto singole proiezioni. Quando si raggiunge il limite dello spazio non si esce dallo spazio, ma appunto si incontra il limite della proiezione; oltre il quale, tutt'al più si accede un'altra partizione delle infinite proiezioni dell'ipersfera.




movimento dal centro della sfera movimento interno all'ipersfera





Nell'ipersfera decadono le comuni pratiche che regolano la costruzione di un oggetto esteticamente ben formato. Così, per esempio, alla mimesi si sostituisce l'Ipermimesi, la quale non è soltanto la risposta coordinata a una capacità ricettiva (visiva e non solo) ma è al contrario una funzione attiva, esplorativa. È la capacità di coordinare tra loro tutte questa sensazioni in un'unità dell'appercezione sul piano delle dimensioni superiori alla quarta. Si tratta di una dote che si sviluppa attraverso i dati culturali? Si tratta di un'evoluzione dei sensi e delle loro connessioni? Di un feedback psicosensoriale? I più recenti studi indicano che le aree corticali che presiedono alla memoria e all'apprendimento sono strettamente connesse e plasticamente configurate dalle modalità anatomiche e chimiche che presiedono all'elaborazione dei dati sensoriali. Si è scoperto, non senza sorpresa, che la corteccia visiva primaria svolge un ruolo fondamentale e che essa stessa è sottoposta ad un rapido processo di cresciuta quantitativa e qualitativa. 6 Oggi l'apparato funzionale che riflette quest'accresciuta complessità ci consente di descrivere in volo poetico la bellezza sensoriale cui siamo esposti, e in modo tale da rendere la parola in qualche misura insufficiente (la grammatica è al capolinea).
L'impoverimento della scrittura, la costante erosione degli stili testimonia che il processo è già avviato da tempo. La scrittura stenografica è quasi scomparsa dopo l'invenzione del magnetofono portatile, mentre la videoscrittura ha semplificato le strutture ipotattiche del discorso scritto. La paratassi guadagna terreno ogni giorno che passa. Ed è uno svolgimento rapido, perfino visibile.
Nonostante l'evidenza dei fatti molti studiosi si ostinano a credere che ogni dominio tecnologico si aggiunge ai precedenti senza infrangere i limiti della natura umana. Le tecnologie del pensiero si comporterebbero come tanti pezzi di lego. Secondo questa filosofia le memorie elettroniche interfacciate alla memoria biologica (scenario di un futuro forse non lontano) provocherebbero una banale moltiplicazione delle facoltà mnestiche. Occhi elettronici e telescopici direttamente connessi al cervello semplicemente aumenterebbero il potere di risoluzione della vista. L'idea mcluhaniana che i media siano "estensioni dei sensi" può del resto essere intesa in senso esclusivamente psicologistico. La mia opinione è invece estrema, e fondamentalmente organicistica. Forse al giorno d'oggi è raro trovare un lettore di stampo ottocentesco, capace di gustare le sottigliezze di una pagina ben costruita. Ma in compenso oggi un lettore medio mostra una velocità di lettura e di comparazione senza paragoni. E forse siffatte facoltà affiorano da un organismo che ha risposto alle sollecitazioni esterne specializzandosi.
L'appercezione sintetica di memorie virtuali quasi infinite, l'interazione sempre più spinta fra i nostri corpi e una pluralità di servomeccanismi reali o virtuali, il confine sempre più labile fra ciò che è vivente e il non vivente mostrato dalle nanotecnologie e delle protesi d'ogni tipo suggeriscono che il concetto di "comunicazione" non appartiene più soltanto alla classe dei sistemi simbolici, evidenti o inconsci che siano.
Anche limitando il campo di indagine al solo dominio simbolico possiamo notare un po' ovunque l'inquietante affiorare di una capacità ipermimetica. I testi di linguistica lasciano in ombra il rapporto fra la coscienza l'insorgenza del linguaggio. E i manuali di antropologia raramente affrontano il rapporto fra linguaggio articolato e tecnologie. La nascita della specie umana è certamente testimoniata dall'amigdala o dall'ascia di pietra. Non certo dal linguaggio, del quale non resta testimonianza materiale. Tuttavia, quantunque non esistano prove dirette, è lecito ritenere che le prove materiali dell'"ominizzazione" siano la testimonianza dell'esistenza di facoltà simboliche e mimetiche.
Le facoltà linguistiche sono anche mimetiche, come suggerisce il mito di Adamo. L'indicalizzazione degli oggetti nell'Eden è un esempio fantastico ma non per questo meno paradigmatico di mimesi. Il rapporto fra il segno e il denotato fra il sinn e il bedeutung, implica la mimesi. Mnemosine è essa stessa figlia della mimesi. Quando s'inizia a riflettere sul linguaggio ci si allontana irrimediabilmente dalla mimesi. E si entra nel dominio metalinguistico. All'ultimo stadio di questo processo di astrattizzazione delle caratteristiche universali del linguaggio e dunque della mimesi si erge il problema del valore di verità dei linguaggi naturali, della corrispondenza, del valore culturale dei simboli, e infine del valore di verità dei linguaggi formalizzati.
In principio era Adamo. La fine è decretata da Alfred Tarski. Ma dopo Gödel 7 si annuncia un nuovo inizio. La scoperta goedeliana che la completezza e la coerenza di un sistema sono fra loro incompatibili coincide in mondo impressionante con la raggiunta coscienza dei rapporti contraddittori fra i linguaggi dell'arte e i suoi referenti. Duchamp e Magritte implicano Gödel, il quale pubblicò il suo celebre lavoro nel '31. Come si sa i risultati di Gödel minarono i sogni della scuola formalista. Hilbert esaminò e riesaminò per anni le dimostrazioni goedeliane di coerenza, ma alla fine dovette arrendersi all'evidenza. I formalisti furono costretti ad abbandonare il loro sogno di perfezione metamatematica. Sogno che nasceva dall'utopia della perfetta mimesi fra linguaggi formalizzati e realtà ontologica.
Hilbert capitolò in pochi anni ma ne occorsero circa venti anni prima che i risultati penetrassero a fondo nelle coscienze dell'alta cultura a livello planetario. Un altro quarto di secolo trascorse per volgarizzare a qualsiasi livello della cultura queste conquiste.
Eppure a questa parabola discendente corrisponde una differente parabola ascendente, il cui strumento è l'universo dei media elettronici in rapida evoluzione. Una differente lingua iconica inizia a sorgere dall'inconscio planetario. La sua comprensione non è affidata a codici stabiliti, cioè a grammatiche, bensì a forme di appercezione diffuse che si strutturano e si stratificano rapidamente in rapporto alle condizioni di produzione e di ricezione di queste stesse forme del senso. L'abito sensomotorio torna al suo primato proprio come deve essere accaduto durante la nascita dei linguaggi naturali dal magma delle istintuali indicalizzazioni. In questo mutato contesto possiamo apprezzare i prodromi dell'ipermimesi.


Methesis universalis versus aisthesis universalis

Tullio Regge asserisce che il matematico è come un poeta, libero dalle leggi di natura alle quali devono attenersi i fisici, e che tuttavia è piacevole e anche proficuo pensare che la bellezza e l'eleganza di alcune teorie matematiche tendano prima o poi a realizzarsi in qualche oggetto fisico che non è stato ancora osservato. 8
I superconduttori o i nuovi materiali dotati di una loro "memoria" sono nati da schemi matematici intrinsecamente eleganti. Bellezza ed eleganza che ritroviamo nei modelli virtuali dei polimeri artificiali, del DNA, dei sistemi dinamici che riproducono i movimenti stellari; è una rivoluzione estetica inavvertita, spesso ignorata dagli artisti, ma non dagli scienziati, costretti dal loro lavoro a confrontarsi con le realtà emergenti. Si sente spesso affermare che gli uomini di scienza siano i veri filosofi del nostro tempo. Penso che ciò sia fondamentalmente vero. Ma ritengo che essi siano anche i migliori artisti.
In Fondazione anno zero, ultimo capitolo della saga galattica inventata da Isaac Asimov, compare il personaggio di Wanda Seldon, nipote acquisita del grande Hari Seldon, inventore del "Progetto Psicostoria". Wanda Seldon è figlia di Raych, un piccolo e disperato teppista che Seldon ha sottratto ai bassifondi di Dahl. Probabilmente Asimov evitò veri legami di consanguineità fra gli inquietanti personaggi in nome della political correctness. Wanda Seldon perfezionerà il progetto Seldon, ma soprattutto ella è una mutante che darà origine a una stirpe di "mentalisti".
Come è noto il "Progetto Seldon" (una plausibile invenzione letteraria che valica i limiti della Science fiction) si può ridurre a una sorta di complessa teoria matematica che fonde economia politica e psicologia delle masse. Il Progetto mira a stabilire un dominio politico occulto ma fondato sulla capacità di orientare razionalmente le altrimenti ingovernabili forze della storia.
Wanda Seldon è appunto un personaggio chiave in questa saga galattica che procede a ritroso nel tempo. Fra le sue singolari attitudini essa annovera la capacità di cogliere a colpo d'occhio la presenza o l'assenza di errori in una formula psicostoriografica, semplicemente basandosi sull'eleganza meramente formale della struttura simbolica degli algoritmi. 9 Asimov, per bocca di Wanda Seldon, in questo romanzo recupera e aggiorna l'idea platonica del bello. Egli afferma che il brutto denuncia una disarmonia, ed è l'immagine dell'errore. Altresì il Bello coincide con la verità di un asserto. Ma una siffatta enunciazione si affranca dall'ipotesi oggi comunemente accettata che la teoria dell'errore si correli e inevitabilmente conduca a sempre nuove formulazioni della teoria della verità. Idea relativistica quante altre mai, anche perché trasforma il valore di verità (di un enunciato, di un algoritmo, di un teorema) in una visione. E visione non soltanto perché punto di vista fra i tanti disponibili nella maglia dei wittgensteiniani "fatti del mondo". La filosofia contemporanea si pasce di visioni, di allucinazioni, di proiezioni e di apparizioni. Tutte avalutative e anestetiche, senza rischi, ma anche senza opportunità..
Al contrario, nel suo singolare romanzo Asimov riesuma il valore della kalokagatia, la virtù che riunisce in una sola matrice la bellezza formale e la bontà sostanziale. Ma questo recupero probabilmente inconscio avviene in uno scenario estraneo al regno dell'etica greca.
Tutta la civiltà greca si organizzò intorno alla linea chiusa, alla misura e al senso delle proporzioni. La pietra di paragone era, infatti, il corpo umano quale sede di ogni perfezione. La statuaria greca corrisponde alla struttura del tempio greco e alla pianta razionale della polis. Ma il mondo greco ebbe orrore per i domini di ordine superiore, che pure intuì, ma che respinse con un'ostinazione sospetta. La nozione di "illimitato" avanzata da Anassimandro non riuscì a penetrare a fondo nella cultura greca e fu di fatto sconfitta dalla chiusura parmenidea. La scoperta dei numeri irrazionali, cioè dei decimali infiniti non periodici, avvenne all'interno della scuola pitagorica di Crotone, ma fu accuratamente tenuta nascosta. L'acusmatico Ippaso di Metaponto 10 rivelò al mondo questa conoscenza, innescando una crisi epistemologica che minò le basi del potere politico detenuto dalla setta dei matematici.
Analogamente Zenone di Elea, scopritore ante litteram degli infinitesimali, non ebbe vita facile. Aristotele si accanì contro i suoi argomenti, tentò di smantellare la bella metafora di Achille e della tartaruga e quella non meno significativa della freccia che non raggiunge mai il bersaglio. E, di fatto, lo Stagirita, maestro dell'universo chiuso e finalistico, riuscì nel suo intento, al punto che bisognerà attendere la civiltà araba perché la matematica faccia qualche significativo passo avanti.
Insomma il mondo greco non fu mai assetato di infinito. Di fronte all'intuizione di un universo a più dimensioni l'uomo greco si ritirò nello splendido isolamento della geometria euclidea, della statuaria che oggi definiamo "classica", dell'arte mimetica.
Ora, la kalokagatia asimoviana muove da principi del tutto diversi. Fra il mondo greco e quello contemporaneo (che è il vero scenario psicologico del romanzo) si estende la massa dell'evoluzione culturale che ha consentito all'umanità di assimilare il senso dell'infinito per trasferirlo nel dominio dell'estetica delle tecnologie del pensiero e dell'ingegneria. Il processo è però soltanto agli esordi, come dimostra il fatto che a un'accelerata diffusione della coscienza di vivere in dimensioni frattali, infinitarie e virtuali non è corrisposta una rivoluzione estetica altrettanto incisiva. Fino a pochi anni fa valeva ancora il principio marinettiano secondo il quale le linee di una vettura sono più belle della Vittoria di Samotracia. Fino all'avvento degli artisti che manipolano direttamente lo spazio e il tempo utilizzando strumenti computazionali la bellezza matematica ha certamente trovato migliori interpreti fra gli ingegneri aerospaziali o fra i costruttori delle moderne cattedrali profane. In tutto il nostro secolo soltanto un artista è stato capace di creare un ponte straordinariamente ardito e robusto fra i due ambiti del pensiero. Costui è Maurits Cornelius Escher.





Escher o non Escher

Di tutte le stranezze che appartengono al mondo tipografico quella che più mi colpisce, e da diversi anni, è l'inspiegabile, persistente, onnipresente e sempre più diffusa pervasività delle immagini di Escher. Il fenomeno, per quanto io sappia, non è mai stato rilevato e analizzato da alcuno, e ciò contrasta alquanto con la sua meridiana evidenza. Ritengo che ci troviamo al cospetto di un esempio tipico di ciò che McLuhan definiva l'"effetto subliminale" dei media: vale a dire, quanto più uno strumento di comunicazione penetra nell'inconscio della gente, mutandone sottilmente le abitudini psicodinamiche, tanto più le qualità di quello strumento sembreranno nascoste da un velo che le renderà pressoché invisibili, e impercettibili proprio a chi vi è immerso.
In questo paragrafo avanzo dunque l'ipotesi che l'efficacia comunicazionale delle immagini di Escher (e di tutti i suoi infiniti proseliti, tecnologicamente aggiornati o meno) consista nel fatto che le invenzioni-scoperte del grande artista belga altro non siano che "macchine logiche" di un tipo ben definito.
Queste "macchine logiche", destinate a trasformarsi in "macchine per la suggestione" di un tipo molto particolare, sono poi un sottinsieme proprio dell'insieme più generale dell'immensa e stratificata macchina logica che è la stampa, con tutte le sue articolate e complesse provincie.
È un fatto che le incisioni di Escher siano regolarmente usate come "tappabuchi". E fin qui nulla di strano. L'osservazione di questo fenomeno risale a una decina di anni fa, quando frequentavo assiduamente le redazioni culturali di alcuni giornali quotidiani.
Ebbene, quando la pagina presentava qualche vuoto pneumatico, il che accadeva spesso, il redattore tirava immancabilmente fuori dal cassetto un volumone di Escher e dopo attenta valutazione e immersione pneumatica in quei mondi astratti se ne usciva con una o due figure "tappabuchi". Ma il bello è che la cosa funzionava, funziona, funzionerà! La pagina piaceva, piace, piacerà! E l'argomento dell'articolo di accompagnamento, sovente a carattere scientifico, tecnologico o filosofico, viene suo malgrado beneficiato da un accostamento grafico che lo valorizza, spesso a torto.
Conosco le immagini di Escher da sempre. Mio padre e mia madre erano entrambi pittori e la biblioteca di famiglia straripa di libri d'arte. Tuttavia fui particolarmente colpito dall'uso delle immagini escheriane quando lessi la prima traduzione italiana di Gödel, Escher, Bach. Un'eterna ghirlanda brillante, noto best seller del fisico Douglas Hoffstadter che imperversò negli anni '80.
Qui Escher entrava tanto nel titolo quanto nel contenuto di un testo, il quale, nonostante tutte le semplificazioni, non era e non è alla portata di tutti i lettori. Nel suo libro Hoffstadter tenta fra l'altro di offrire una versione divulgativa del problema dell'indecidibilità di Gödel. Ma per quanto egli abbia formalizzato questo in forme molto semplificate e con tutti i necessari passaggi preliminari, esso continua a richiedere qualche competenza specifica in logica matematica, e non solo.
Ad ogni modo m'impressionò il fatto che l'autore usava consapevolmente la potenza subliminale delle incisioni escheriane, sfruttando appieno quella che lui definiva l'intrinseca ricorsività contenuta nei disegni dell'artista.
Che si tratti di ricorsività o altro non ha qui molta importanza. Esistono, infatti, innumerevoli disegni del nostro che Hoffstadter non ha inserito nel suo volume. Disegni che si basano su altri principi, per esempio sull'uso di particolari prospettive, o sul semplice artificio dei corpi riflettenti, traslucidi, opachi. In tutti i casi le immagini di Escher funzionano sempre. Col tempo ho potuto agevolmente notare che esse compaiono, con una frequenza sconcertante, tanto sui giornali quotidiani "nazionali", a larga tiratura, tanto su quelli di provincia. E idem dicasi per i quotidiani esteri, al punto da potere agevolmente ritenere che siamo in presenza di un fenomeno mondiale, o quantomeno esteso a tutto l'universo della stampa in lingue alfabetiche.
Se i giornali sono notoriamente costruiti con la fretta alle calcagna, aprendo la via alla logica del "tappabuchi", non altrettanto avviene per i rotocalchi. Eppure anche in questi, immancabilmente, le immagini di Escher spopolano e si moltiplicano. E che dire poi delle copertine di libri, opuscoli, volumi, tomi impegnativi e altro eterogeneo materiale stampato? Il fatto è che la pervasività delle immagini di Escher costituisce un fenomeno trasversale che abbraccia tutto il mondo della stampa. Ma questo è proprio il dato sul quale lo studioso delle dinamiche subliminali dovrebbe soffermarsi.
Si è affermato che il mondo di Escher ha molti contatti con Magritte. È anche vero tanto Magritte quanto il De Chirico metafisico, Savino e Max Ernst spigolano non pochi successi come "tappabuchi". Ma in confronto alla capacità escheriane di occupare spazi tipografici questi artisti, per altri versi molti più celebrati del nostro, sono soltanto pallide soluzioni di ripiego. Non ho dubbi sul fatto che molti impaginatori sono frenati dal pudore, e finiscano col scegliere altri artisti "affini" (per esempio, appunto, i Surrealisti) al posto di Escher, perché in fondo proprio non se ne può più di quest'ultimo.
Ma la forza della psicodinamica è superiore a qualsiasi ragionamento e così le immagini di Escher continuano ad affiorare come fenomeni carsici, senza tregua né ostacoli. A mio avviso la ragione di un siffatto successo spontaneo è tutta interna alla particolare natura di questi disegni. I quali sono i soli in grado di rappresentare la nuova sensibilità estetica in progress; una disposizione d'animo che da qualche decennio permea sempre più il senso comune. Alla radice del fenomeno sussiste il lavoro subliminale della comunicazione complessa. La forza d'urto della complessità comunicazionale ha aperto le porte alla sensibilità estetica di nuovo conio, e non viceversa.
Le immagini di Magritte sono affascinanti e inquietanti, come si conviene alla migliore pittura surrealista. Ma esse lavorano alla dissoluzione del senso comune all'interno della "logica terministica". Una rappresentazione di una pipa recante la scritta che afferma che quell'oggetto non è una pipa (ma appunto soltanto una "rappresentazione" di una pipa) tutt'al più genererà un cortocircuito all'interno della vecchia questione semiotica concernente le relazioni fra l'"uso" e la "menzione" di un termine denotativo, in altre parole fra il segno e il denotato. Siamo ancora all'interno del dominio della mimesi.
Nell'arte la funzione di verità è stata a lungo appannaggio della mimesi. Naturalmente la storia dell'arte ci mostra uno spettro straordinariamente ampio di "ipotesi mimetiche" intorno al mondo. Ma in definitiva non esiste epoca che grazie all'arte non abbia tentato di correlare in diversa misura le percezioni (visive, ma non solo) al sentimento dell'armonia che deriva da una certa "immagine" del mondo. Per esempio i cubisti (e il Le Corbusier dell'Esprit nouveau) inseguivano la perfezione e la bellezza della sezione aurea trasferita in un ambiente pluridimensionale. Il Barocco può essere interpretato come una tormentata esplorazione del rispecchiamento mimetico della prospettiva sul piano inclinato e sul punto di fuga aereo. Ancor prima la scoperta e la successiva analisi della serie di Fibonacci hanno stimolato lo sviluppo aniconico delle forme spiraliche, fino ai giorni nostri. La statuaria greca classica, come si è detto, è a sua volta l'immagine della spazialità euclidea.
Già l'arte ellenistica (e in alcuni casi l'architettura sacra) introduce elementi illusionistici che derivano dall'assimilazione delle teorie ottiche dell'epoca. E ancora si può interpretare l'illusionismo settecentesco quale derivazione del piano cartesiano subordinato al concetto di azione a distanza fra i corpi: precipitato estetico delle teorie newtoniane sulla gravitazione universale.
Nel corso del diciannovesimo secolo le arti visive hanno subito il fuoco incrociato di sempre più raffinate tecnologie poste al servizio della rappresentazione del mondo circostante, delle strutture organiche, degli spazi siderali e dell'universo subcellulare. Un siffatto e straordinario potenziamento del senso della vista ha moltiplicato le prospettive, i punti di vista e le scale di misurazione. Grazie a questa espansione sensoriale interpretiamo diversamente la totalità del mondo.
Una novella complessità che ha però messo a dura prova gli srtisti artisti, sottoposti a uno stress senza precedenti e costretti a estendere ciò che Gombrich chiama il "principio del testimone oculare". Nonostante le apparenze, le arti visive di questo secolo che si chiude sono state protagoniste di uno sviluppo progressivo e tumultuoso delle arti mimetiche, un incremento derivante dal razionalismo "ottico-ontico" insito nell'evoluzione delle tecnologie dell'immagine. La razionalità operante è la sola, autentica responsabile della trasformazione radicale della percezione spaziale e temporale fra le parti del mondo. Il complesso degli strumenti ad alta tecnologia di cui disponiamo non è che il prodotto finale di questi mondi virtuali esplorati dalla mente razionale, la quale, ancorché astratta e in un certo senso "disincarnata" orienta l'interpretazione dei dati visivi e invade l'intero spettro delle rappresentazioni simboliche e artistiche. 11
Com'è noto, Panofsky avanzò fra i primi l'idea di un feedback fra le manifestazioni estetiche di un'epoca e il suo sostrato tecnologico. Egli però limitò i suoi studi alle sorti della geometria proiettiva. Eppure l'evoluzione della matematica ha periodicamente ristrutturato la nostra stessa percezione del punto di vista. Il nostro tempo assume esperienze e connessioni ritenute irreali da generazioni che non hanno ancora chiuso gli occhi: relazioni fra dimensioni superiori alla terza e alla quarta, vettori multipli, strutture alterate dello spazio-tempo e altro ancora fanno parte del panorama.
I media elettronici e il cinema hanno saputo cogliere queste suggestioni con una rapidità e un'efficacia che non si risconta nelle tecniche tradizionali, creando forme dell'arte che manifestano la loro ascendenza astratta e razionale. Per esempio la serie televisiva "Star Trek", ideata da Gene Roddenberry, è impensabile senza l'assimilazione a tutti i livelli del sia pur banalizzato riflesso del concetto di "spazio delle fasi". In assenza di una visione accettabile dei concetti relativistici e quantistici "Star Trek" sarebbe percepito come un racconto visionario e non come una saga fantastica ma futuribile.
L'entusiastica e catturante accettazione dei mondi virtuali squadernati dalla computer animation non potrebbe esistere senza presupporre una diffusa e inconscia assimilazione di idee che in questo secolo hanno rivoluzionato il concetto di "oggettività". La maggior parte della gente non sa nulla delle classi virtuali e delle relazioni virtuali trattate per esempio dal logico-matematico Quine. 12 Parimenti è non meno raro incontrare persone che abbiano una ragionevole idea dell'evoluzione della fisica quantica, o che possano formulare esempi dei paradossi che insorgono quando si elimina la distinzione fra ciò che osserva e ciò che è osservato; quando cioè si riduce a una sola funzione d'onda l'intero sistema percettore-percepito. 13
Ciò nonostante, la stragrande maggioranza di coloro che condividono il milieu estetico di un pianeta globalizzato è in grado di percepire in modo intuitivo il senso di idee altamente astratte e apparentemente esoteriche. Ma allora, qual è lo statuto estetico del nostro tempo? La risposta potrebbe risiedere nella relazione fra i sensi e la percezione operazionale di universi matematici di nuova complessità. L'algebra booleana presuppone ed è la precondizione di un'estetica del virtuale, anche se pochi sanno fornire un esempio coerente di cosa siano le operazioni "somma" e "prodotto logico" in simbologia booleana.
La riduzione delle serie numeriche a stringhe ordinate in codice binario non è estranea a questa percezione e anzi, almeno in parte, la fonda. Il problema estetico del virtuale risiede anche nel fatto che il computer solleva nuovi quesiti. Per esempio: in un tessuto psicosensoriale a n - 1 dimensioni quali relazioni sussistono tra l'estensionalità e l'intensionalità dei predicati? Sul piano estetico intendendo per "predicati" tutte le risultanti, anche visuali, delle stringhe ben formate, e in ultima analisi degli interfaccia. I programmi implementati in una macchina logica, sono in definitiva semantiche particolari che agiscono all'interno di un dominio sintattico generale e astratto. Ed è quest'ultimo che conta, anche laddove l'uso delle reti neurali e della fuzzy logic introduce apparenti elementi casuali.
Le semantiche pongono problemi di interpretazione insolubili. Però è anche vero che gli universi virtuali forzano i nostri sensi in nuove direzioni e instaurano un rapporto molto più stretto che in passato fra semantica e sintattica, e non solo dei linguaggi naturali.
Per evitare ogni dogmatismo, per quanto possibile, occorre essere paradossalmente platonici e nominalisti nello stesso senso e considerare l'universo degli eventi psicosensoriali che si manifestano nel mondo booleano (interpretato) come il campo di emersione in cui esiste o si realizza una pluralità di entità fisiche particolari, affioranti dalla situazione secondo l'ordine delle loro qualità primarie. "Oggetti" risultanti da un processo di nominalizzazione che permette in modo non equivoco l'indicalizzazione di stati del mondo. Platonica è l'assunzione che l'universo matematico sottostante a questi stati del mondo sia in sé consistente.
I mondi che chiamiamo "virtuali" sono in realtà derivati da regole sintattiche precise, già stabilite, coerenti, lineari. Gli effetti possono anche essere randomizzati, risultare in altre parole da un algoritmo di randomizzazione. E tuttavia resta una coerenza sistemica che esclude ogni ricorso metafisico all'idea di una oggettività esterna o separata. L'oggettività dei mondi virtuali è al contrario chiusa in se stessa, assolutamente compatta. Questa caratteristica inizia a produrre inaspettati effetti sull'immaginario sociale. Il risultato più vistoso e forse il primo ad apparire in tutta la sua evidenza può essere anche definito la "catastrofe del mito".


Miti irreali


La potenza ipermimetica del virtuale produce identità prismatiche, sicché oggi si assiste a questo singolare fenomeno: tanti volti e innumerevoli personalità inseguono senza pause la possibilità di trasformarsi in mito. Ma nessuna è Mito.
Il Mito è infatti inseparabile dall'unicità: esso richiede l'intervento di un tempo esteso che collassa in un'unità concentrata, in una singolarità espressiva e universale. Il Mito presuppone un sistema di organizzazione del senso, e deve stratificarsi nel tempo. Ma con l'obiettivo della permanenza, al di là del tempo. Il Mito è perciò, per definizione, un prodotto dei tempi con funzione a-temporale.
Si sente spesso affermare che le ultime generazioni si aggrappano ai miti del passato prossimo, che sono quasi incapaci di crearsi nuovi miti. Ma si tratta ovviamente di un errore di valutazione. Il mito è tale solo se esso supera il suo tempo. Miti giusti e sofferenti sono Elvis, J.F. Kennedy, Che Guevara, Yukio Mischima, Andy Warhol, Jimi Hendrix, John Lennon, Marylin. Tutti costoro condividono un destino prematuramente interrotto da morte violenta, misteriosa o romantica. Ma non guadagnano la dimensione del mito né Stalin né Mao Tze Tung né Fidel Castro, che sono le rispettive incarnazioni di una dittatura, di una follia rivoluzionaria e di una sfida storica senza futuro. Nonostante tutto, la gente percepisce questi individui come personaggi eccezionali e perfino emblematici. Ma i canoni di questa percezione non sono lineari e anzi variano enormemente nel corso di un breve lasso temporale. Un'escursione in quell'umile macchina del tempo che è l'emeroteca riserva infinite sorprese e ci mostra senza pudore fino a qual punto possa mutare la percezione sociale dell'immagine di un leader di statura mondiale.
Negli anni '50 la stampa (e non solo la stampa di sinistra) avvolgeva la figura di Stalin in un pulviscolo di parole che continuamente ammiccava al titanismo di un uomo capace di incarnare il destino di un popolo. Oggi una trasmissione televisiva condotta da Arrigo Levi ci mostra l'immagine di un brutto e laido personaggio, ed esibisce il volto di un uomo grasso, cinico, violento, invidioso e in fondo perfino stupido. Nel corso di appena mezzo secolo Stalin è passato dall'incarnazione vivente dello Zeitgeist all'immagine, senza dubbio ben più veritiera, di un truce persecutore, di un potente tiranno che insegue la sua sete di potere assoluto. Un uomo impegnato a costruire il proprio personale mito. Qualcosa di simile sta accadendo all'immagine di Mao, che da Imperatore rosso si tra lentamente trasformando in un politico machiavellico e senza scrupoli, nel folle responsabile della grande carestia che fra il 1958 e il '61 falciò trenta milioni di vite, in un vecchio sospettoso e libidinoso.
È ancora concepibile l'instaurazione di una mitologia? Esiste ancora uno stile di vita senza precedenti e in sé esemplare? E infine è ancora concepibile la riconoscibilità dello stile? Stile e iconografia sono il segreto della santificazione di un'Icona. Come ben sanno le alte gerarchie del Cattolicesimo. Il segreto dello stile risiede nell'affioramento dell'inimitabile: stile di un'epoca, incarnazione di un sistema di vita, di un processo identitario, di un radicamento. Nel mito troviamo sempre l'espressione di una comunità (ma quasi mai di una collettività) che si ri-conosce. Zeus e Giove non si equivalgono, anche se sono omeomorfi. Dictinna, Gea, Demetra, Rea ed Era sono rappresentazioni abbastanza equivalenti della Grande Madre ma a ciascuna di esse corrisponde una differente collocazione (anche gerarchica) nel consesso delle divinità.
Inoltre, per raggiungere lo status di Mito è necessario un tempo di elaborazione del mito. Da sempre la morte eroica, o la vicenda tragica sono ingredienti della fissazione del Mito. Ettore, Achille, Ercole, Aiace, Clitennestra, Elettra, Cassandra, Edipo, Lancillotto, tutti i grandi martiri cristiani, Lord Byron, John Lennon sono in diversa misura miti (mito eroico, tragico, cavalleresco, religioso, romantico). Per assumere la dignità del Mito l'immagine deve in qualche misura assumere le vesti di un'Icona.
Chaplin, Totò, Fred Astaire, Woody Allen appartengono di diritto all'ormai sterminato pantheon di celebrità mediatiche, sono grandi e in alcuni casi straordinarie personalità. Ma soltanto Marylin è un'Icona. In Understanding media McLuhan notò che la televisione aveva iniziato a diminuire il peso dell'intero star system e a intaccare l'immagine di Rita Hayworth, di Liz Taylor, perfino di Marylin Monroe.14 Naturalmente il "profeta dei media" non aveva fatto i conti con la prematura e drammatica scomparsa di Marylin: evento che scaricò il potenziale negativo accumulato dall'erosione televisiva della diva nel suo opposto. La morte precoce, violenta e per tanti versi emblematica di Marylin consentì bruscamente l'inizio della fissazione dell'Icona e la sua immediata "eternizzazione".
Albert Einstein è un'icona: perfetta immagine dello scienziato contemporaneo. Altresì Picasso è l'Icona dell'artista. Nel binomio Braque-Picasso Braque resta una personalità, mentre solo Picasso assurge a Icona. L'origine dell'Icona ha in sé qualcosa di misterioso, ed è per tanti versi indipendente dalla personalità di chi la incarna.



Stile ostile

Tra le "personalità" e l'Icona si instaura una relazione mutualmente esclusiva. Non è necessario avere una spiccata personalità per essere un'Icona. Però molte icone hanno anche personalità. Analogamente lo Stile è parte del mito ma non esaurisce il campo espressivo del Mito. La possibilità di creare, modificare, permutare e distruggere vorticosamente mille e mille stili, frutto inatteso delle nuove tecnologie eidomatiche, implica la facoltà di creare micromiti settoriali. Anche le cyberculture possiedono non a caso i loro miti separati. Ma questi miti non apparterranno mai al Mito. Essi non possiedono caratteristiche iconiche. È l'effetto della proliferazione delle lingue parziali, contro le quali si battono le strutture verticistiche dell'informazione e della narrazione.
Certamente la nostra epoca rende impossibile l'Icona, ma non lo stile. Universo dello Stile e universo virtuale sono in realtà entità convergenti. Il costruttore dello stile agisce nell'ombra, proprio come l'utente di Internet, che dialoga col mondo, ma separato dal mondo. Il costruttore di stilemi virtuali è l'inventore di programmi, lo sceneggiatore di un dramma collettivo, il manipolatore di una macchina per il sogno. Il tentativo di creare i miti del virtuale è il risultato della possibilità di formulare un ben definito stile di vita virtuale.
Thimoty Leary è l'emblema di una mitizzazione realizzata attraverso la drammatizzazione della morte virtuale quale complemento di uno stile di vita. Ma è anche vero che Leary è un caso limite: il suo stile di vita è frutto di una soggettività previrtuale.
La personalità che agisce nella creazione dello stile virtuale è al contrario per definizione "mediata", in virtù dei mezzi tecnici, ma anche perché prodotto logico di una mediazione complessa fra istanze opposte, sommatoria di innumerevoli altre personalità. In compenso, la grande dimestichezza con la prorompente metamorfizzazione dei referenti culturali predispone l'individuo ad aprire le porte all'inconscio e alle fantastiche espressioni delle ansie e delle pulsioni del proprio tempo.
Tuttavia l'insorgenza degli stili di vita soggiace all'astrazione, ed è il portato di una scelta razionale, non di una pulsione collettiva. Tanto Madonna quanto Michael Jackson tentano di costruire il proprio mito, la propria unicità emblematica. Tuttavia Madonna è costretta a cambiare vorticosamente stile. Ella insegue il mito attraverso un processo di accumulazione di sfaccettature, di tesaurizzazione di aspetti tra loro incompatibili. Emerge il profilo di una personalità schizofrenica, che effettivamente riflette lo status dell'immaginario contemporaneo.
Madonna è l'esatto opposto dell'Icona, a dispetto del nome d'arte assunto dalla Ciccone. Michael Jackson, riesce apparentemente meglio. Ma la sua personalità è in realtà il frutto di progressive mutazioni della personalità e dell'immagine. Tra il Michael Jackson "originale" e l'attuale, non esiste più alcun contatto. Il suo volto è un prodotto chirurgico, il suo corpo subisce la metamorfosi della chimica avanzata, la sua personalità assume, vampirizza e infine espelle senza alcuna conseguenza (neanche legale) tutti i tratti delle ossessioni postmoderne, dalla pedofilia alla seduzione demoniaca. Tuttavia, proprio Michael Jackson rappresenta più di altri l'equivalente transitorio dell'ultimo Mito, il Mito cibernetico. L'uomo postorganico, ma di massa.



Totem virtuali

Se questa nostra epoca ha quasi dissolto la persistenza del Mito essa del pari ha recuperato la funzione del Totem, struttura ancestrale che la psicoanalisi e l'antropologia hanno a lungo praticato. Queste stesse discipline, calate nel dubbio contemporaneo, hanno però seriamente criticato e rigettato quanto di buono era stato detto intorno al Totemismo. Il Totem è un simbolo che comunica strutture sepolte nell'inconscio? È un oggetto memoriale avente una funzione pedagogica? Strutturale? Sovrastrutturale?
In ogni caso è stato anche sostenuto che il totemismo è concepibile all'interno di una civiltà che si crede immutabile, che non sopporta la tensione della trasformazione assunta a programma. Inoltre il Totem sembra in qualche oscura misura affiorare negli stati estatici naturali o procurati, nella meditazione, nel sogno. Realtà psichiche che non rispecchiano la vita degli occidentali. Nonostante ciò, proprio gli artisti occidentali, e in particolare negli ultimi decenni, hanno praticato l'arte privilegiando la sua funzione mitica e mitizzante, anche quando in apparenza essi si scagliavano contro il mito, i miti e la mitizzazione. Banalmente, non esiste artista, per quanto infimo, che non abbia tentato di usare tutti gli strumenti magici a sua disposizione per accedere almeno un po' alla dimensione del mito, senza però raggiungere la dimensione totemica.
E infatti ogni espressione dell'arte si giustifica soltanto nella sua intrinseca referenzialità. Essa è "quel tempo" e "quel luogo". Vive nella sua situazione. È destinata a trasformarsi in documento storico, suo malgrado, non appena essa muore alla contemporaneità che l'ha generata.
Ma c'è una ragione più profonda che vieta l'instaurazione della dimensione totemica. Roger Bastide aveva notato che i tipi di sogni sono correlati alla densità sociale. 15 Nelle società piccole, laddove la pressione (e la repressione diretta) sociale è enorme, i sogni riescono a liberare almeno in parte queste spinte. Sogni intensi e ricorrenti producono entità analogiche potenti e riconoscibili.
Lo scenario di una società totalmente interconnessa ma mediatizzata esclude a priori l'evoluzione e l'instaurazione di strutture analogiche collettive. La futura civiltà dei bit sarà sempre più senza sogni e in definitiva senza Totem. A quel punto la funzione totemica si incarna direttamente laddove l'arte e il rito non hanno respiro alcuno, e cioè nelle espressioni della tecnologia. Da qui la speciale aura che avvolge le conquiste tecnologiche più avanzate. Telefoni cellulari, collegamenti Internet, lettori Cd-Rom sono in diversa misura feticci dell'ultramodernità. Ogni eclatante avanzamento della tecnica produce un'infinità di gadget che si disperdono come le code delle comete. E come le comete essi sono illuminati per brevi attimi a causa del vento solare che contemporaneamente li consuma.
E tuttavia l'oggetto tecnologico si carica di un suo particolare alone anche a distanza di tempo. Negli Usa i veri eredi della Pop Art si possono anche definire i "Basament Artists" o "artisti del garage". Si tratta di personaggi che abitano prevalentemente nelle oscure province degli States e che nel tempo libero producono curiosità tecnologiche e vere magie del bricolage.
È appena il caso di ricordare che il personal computer in fondo è nato in un garage dalle mani di alcuni "artisti" dell'ingegneria elettronica. In ogni caso fra i Basament artists statunitensi c'è chi ha ricostruito uno Sputnik perfettamente funzionante utilizzando il filo di ferro ed eterogeneo materiale elettronico di scarto e c'è chi ha ideato potentissimi cannoni che sparano lattine di Coca Cola piene di cemento.
L'eroe di questi artisti tecnologici ma dichiaratamente antitecnocrati è il mitico Unabomber, alias Theodore John Kaczynski, genio matematico e singolare anacoreta che riusciva a costruire i suoi micidiali ordigni quasi dal niente. A suo modo anche Unabomber può essere definito un artista e quantunque egli si dichiari un nemico giurato della tecnologia egli è la quintessenza dell'uomo tecnologico a tutto tondo.
La personalità di Kaczynski, che i media per ovvi motivi definiscono "deviante" e "folle", è in realtà una identità coerente e lucida. Nei suoi scritti teorici Unabomber si riallaccia a un filone filosofico degno di nota e attento alle trasformazioni comportamentali apportate delle tecnologie.
Unabomber sostiene che le tecnologie sono responsabili della più grande spoliazione mai avvenuta: la razzia del senso. Grazie alle tecnologie avanzate i bisogni primari sono facilmente soddisfatti, lasciando gli individui nella disagevole condizione di dovere necessariamente impiegare il proprio tempo in mille "attività sostitutive". Ma queste ultime, quantunque non essenziali, richiedono tempo, applicazione e fatica. Unabomber ritiene, al pari di Feyerabend, che le scienze appartengano a questo genere di attività, quantunque esse creino i presupposti di quella spinta innovativa che fonda nuove tipologie consumistiche, e in definitiva nuove attività sostitutive.
Kaczynski adatta alcune idee roussoiane alle analisi della società tecnologica di massa avanzate per esempio da Ortega j Gassett; ma questo stridente e antitetico connubio si dimostra coerente quando le osservazioni si focalizzano sulle "attività di controllo" poste in essere dalle civiltà altamente tecnologiche. Il faucoltiano "regime di sorveglianza" si traduce in una funzione primaria delle società complesse, costrette per loro natura a adottare strategie di controllo sempre più raffinate. Anche perché le civiltà occidentali non possono permettersi un collasso comportamentale su vasta scala, ma simile a quello che si verifica quando vengono meno le forme di pressione sociale (per esempio l'istruzione pubblica) che determinano la tendenza all'ubbidienza.
La contraddizione esploderebbe, ed esplode, nel momento in cui le attività sostitutive si dimostrano insensate e alienanti, inducendo la gente a sviluppare comportamenti ambivalenti, se non addirittura forme di rifiuto che sfocerebbero nella violenza, nell'autolesionismo e nelle patologie psicotiche.
Kaczynski è senza dubbio un cosmico pessimista, ma nonostante ciò egli ritiene che le tecnocrazie possano sopravvivere a se stesse solo a patto di estendere e di ulteriormente raffinare le tecniche di controllo sociale, del resto già dotate di un buon livello di tenuta. Si tratta di un discorso apparentemente criptico e contraddittorio; ma i suoi nodi interni si sciolgono in rapporto alle manifestazioni della creatività, cioè all'arte. Unabomber denuncia il mondo dell'arte contemporanea, completamente monopolizzato dalla nomenclatura intellettuale oberata da una sua peculiare carica negativa e regressiva. Attraverso i meccanismi opposti dell'instaurazione del senso di colpa e dell'orgiasmo, categoria nietzschiana effettivamente onnipresente, l'arte contemporanea ha perduto il contatto con la sua intrinseca e apollinea razionalità. 16 Non a caso il background di Unabomber (e dei Basament Artists) comprende una quasi innata capacità di manipolare i più svariati manufatti tecnologici secondo l'estro creativo del momento.
Dunque, non è affatto vero che l'aura dell'opera sia scomparsa con la riproducibilità tecnica. L'aura si è soltanto immensificata e smaterializzata, trasferendosi dai prodotti di un ingegno mimetico o antimimetico, ma sempre per definizione "primitivo", alle fantastiche identità totemiche: i manufatti dei laboratori avanzati, totem ideali che di volta in volta si incarnano e si reincarnano nel più sofisticato prodotto del momento. Siamo in presenza di un'edizione contemporanea della parabola socratica del mantello e dell'individuo che lo indossa.
Analogamente, i totem tecnologici consumano i propri corpi, ma per rimpiazzarli con altri e più efficienti organismi. Totem del cielo è per esempio la stazione orbitante Mir, oggi corpo agonizzante. Essa però, prima o poi, si reincarnerà nella super stazione Alfa. Un corpo di inimmaginabile funzionalità e bellezza tecnologica, lanciato oltre le soglie del Terzo millennio.
Si può anche dedurre che l'intera gamma dei consumi tecnologici manifesti la presenza diffusa e capillare di un rito tribale incentrato sui totem tecnologici, i cui feticci corrispondono a quei luoghi dell'immaginario che si incarnano nelle moderne incarnazioni del Golem. 17 Lo sfrenato consumo tecnologico a sui si assiste (per es. le favelas senza acqua corrente ma fornite di televisione satellitare, nonché la diffusione di gadget come i telefoni palmari fra le fasce del sottoproletariato urbano nelle metropoli del mondo avanzato) somiglia in modo sorprendente a una forma ipersublimata di cannibalismo tribale. L'anima, o se si vuole
L'"entelechia" del corpo tecnologico sarà, infatti, periodicamente e automaticamente smembrata (serializzata) durante il processo di produzione. Il corpo tecnologico risultante da una catena automatica di montaggio è poi distribuito fra i membri della collettività in un'orgia consumistica. Questo stesso corpo è offerto per essere divorato dalla tribù, dai figli di un dio tecnologico che al più ignorano i segreti della produzione dell'oggetto tecnologico. Il Totem tecnologico mediatico è equivalente al corpo mediatico smembrato e divorato, poi ricomposto nell'unità di una significazione univoca grazie ai mezzi di comunicazione: per esempio il sito Internet sulla missione marziana. Si parla di mezzo miliardo di connessioni in poche settimane. Ma mai dimenticare l'accresciuta potenza della televisione.
Da questa ambivalente relazione scaturisce il rapporto di odio-amore che vincola la comunità dei consumatori tecnologici al Padre-tecnocrate, rappresentazione collettiva del creatore profano incarnata nelle innumerevoli figure di scienziati e di tecnici che affollano i laboratori. In "Blade Runner" Ridley Scott ha colto bene questa relazione edipica.
Ma il rapporto con il sistema totemico tecnologico non è lineare. Per sopravvivere esso impone che il sacrificio collettivo, nella sua forma banalizzata di consumo tecnologico, sia costantemente reiterato, all'infinito. Da qui la rapida obsolescenza del feticcio tecnologico e la conseguente attrattiva del gadget all'ultima moda. Questa relazione vale per ogni sorta di manufatto funzionale, ma si rafforza se il feticcio tecnologico appartiene alla sfera della comunicazione in senso forte. Da qui l'orgasmo compulsivo che segue il consumo dell'ultima novità della telefonia satellitare, dell'Internet o del prodotto multimediale. Ne consegue una vera e propria mistica del corpo tecnologico, interpretata e diffusa dagli osservatori della forza extraumana contenuta nell'alta tecnologia, specialmente di comunicazione. Sono ormai numerosi i massmediologi e i teorici che avanzano e sostengono l'idea che si possa attribuire all'entità rizomatica, all'Io collettivo o al corpo tecnologico globale una certa qual forma di "esistenza".18 Queste istanze si assimilano alle strutture totemiche del nostro tempo, in rapporto alle quali le contraddizioni e le sofferenze dei singoli si annullano e si omogeneizzano in funzione di una superiore forma di incarnazione mistica e contemporaneamente immanente.

Angeli e demoni

Il mondo elettronico elettronica presuppone in ultima istanza un rapporto sempre più stretto con il corpo. L'immateriale elettronico ed elettromicromacchinico attraversa il corpo, lo esamina, modifica le sue strutture interne e i suoi organi, si combina con il corpo organico operando al suo interno o nelle interfacce sensoriali.
Seguendo l'espressione mcluhaniana si può agevolmente sostenere che il mondo dei computer è molto più 'tattile' di quanto non sia mai stata tattile la televisione.
Le macchine logiche, microelettriniche e molecolari, con i loro sensori e i loro organi locomotori, strumentali, retrattici, costituiscono un esercito palpabile e invasivo, il quale non soltanto invade progressivamente i corpi ma tende anche a moltiplicare lo spazio fisico e semantico in cui agisce ciascun corpo. Questo significa che il mondo 'elettronizzato' non sarà più dominato dalle forme simboliche ma da partiture ultrasimboliche.
L'universo simbolico presuppone e si fonda sull'originaria e platonica separazione fra il corpo e la mente, fra i segni e i denotati. La radice greca del termine 'Simbolo' rivela questa originaria scissione: (((-((((( significa infatti 'paragono', 'confronto', 'ri-conosco', 'unisco' e appunto 'metto insieme'; ma significa anche 'scambio' e, in senso figurato, 'spingo uno contro l'altro'. Una contraddittoria ricchezza semantiche che rivela già nella matrice del termine la patente infelicità dell'universo simbolico: il quale da un lato unisce, ma dall'altro separa.
Mondo e mente si scindono nell'atto simbolico e contemporaneamente vi si specchiano, reciprocamente. In tutte le manifestazioni dell'umano affiora questa scissione primigenia. Ogni qualvolta l'essere umano ha inserito un ente fattuale nello schema del suo universo semantico lì si è costituito un simbolo, o un complesso di simboli. Le opere d'arte, e nella fattispecie i cimenti delle arti figurali, appartengono al cosmo dei simboli.
Banalmente da una parte c'è l'opera, dall'altra chi la osserva e la penetra: relazione incompleta, asigmetrica. Relazione frustrante perfino nelle medesime modalità di accesso all'opera stessa: che sia scrittura, musica, pittura o scultura siamo sempre al cospetto di un prodotto delle mani, promanazione diretta del corpo, tangibile esperienza emozionale, intellettiva e sensoriale; ma che stà lì, separata offrendo le proprie nudità all'intangibile udito o all'invisibile vista. Corrispondenza fosca e lasciva.
Relazione torbida, licenziosa, essenzialmente pornografica, che induce in tentazione ogni suo sacerdote e, in cerchi concentrici, tutta l'umanità. Si è così inventato il dominio dell'Arte, e delle Arti, quando è invece vero il contrario: esistono soltanto collezioni di oggetti, di reperti, di organizzazioni semantiche complesse.
La dannazione del genere umano, battezzato nel fiume simbolico, consiste dunque nell'assenza di sazietà, nella fame perenne di senso. Il biblico ricavare dalla terra, con faticoso lavoro, l'alimento quotidiano si sublima nella fatica intellettuale e nella transitorietà del nutrimento spirituale. Sicché è necessario passare dal confronto-incontro con un'opera a un altro confronto-incontro, a un'altra opera. E così via, di opera in opera, di cimento in cimento, fino a esaurire la corda della vita senza avere peraltro bevuto una sola goccia tratta dall'oceano simbolico reale o possibile.
L'universo elettronico spezza questa catena di Sant'Antonio grazie all'umile magia delle sue qualità interfacciali. Nel mondo delle qualità senza quasi quantità anche l'opera tende a diventare un'interfaccia. In questo processo di nuovo conio non soltanto non è chiaro chi è il creatore e chi è il destinatario, ma non è neanche percepibile quale collocazione spazio-temporale abbia l'opera. Il prodotto si trasfigura in evento e in questo senso si può dire che la dimensione elettronica squaderna tutto il suo potere estetico. L'evento-interfaccia appartiene al dominio dei sensi, al corpo individuale o, metaforicamente, al corpo collettivo. Non a caso le forme d'arte legate sorte dal ribollente magma elettronico e elettromacchinico primigenio sono sovente, almeno in qualche misura diaboliche.
L'opera d'arte simbolica, materialmente esterna al corpo, diventa ora un complemento del corpo, un'espressione somatica, una sonda psicosomatica e infine un processo biogenetico che inizia ad esplorare le possibilità del mutamento. Corpo panico, sede diabolica: ma (((-((((( significa appunto "getto", "metto attraverso, in mezzo" ma anche "sconvolgo". Alla radice ricorre anche un significato quasi pre-cibernetico. Il diavolo è infatti maestro della menzogna: (( (((((((((((( sono appunto i "male informati". Il diabolico è un elemento di disturbo, un generatore di interferenze. Ma il livello tecnologico attuale fa sì che il processo informazionale inizi ad insinuarsi nell'ordine organico e somatico. Turbamento del corpo e turbative dello spirito. Dominio caotico del demonio, per antonomasia. Estroflessione del negativo che si manifesta fra l'altro in forme autoevidenti. Il corpo virtuale è attualmente un corpo straziato, oscurato, smembrato, torturato, inciso, tatuato, collegato, confuso. Corpo orrendo e affascinante al contempo, come si conviene alla maschera del figlio delle tenebre.
Ma la maschera cadrà. L'universo elettronico è soprattutto angelico. Esso è infatti la più potente "lente di ingrandimento" mai inventata. Grazie al potere focale delle macchine computazionali l'invisibile per la prima volta entra in diretto contatto col visibile; e il mondo metafisico, quel mondo dietro il mondo che soltanto menti allenate intravedevano fra i meandri della matematica, per la prima volta si fonde con l'universo materiale, tangibile, infondendovi spiritualità. Una civiltà caduta nel materialismo vede ora con occhi e sente attraverso sensi che per essenza si collocano al di là e al di sopra della tirannica "realtà tangibile".







1 Thomas Mandel e Gerard Van der Leun, Rules of the Net, 1996, Galateo per l'Internet, trad. it. a cura di Pier Paolo Rinaldi, Bompiani, Milano, 1998, p. 151 1 ss.

2 Riccardo Notte, Millennio virtuale, Seam, Roma 1996.

3 Erwin Panofsky, Die Perspective als "Simbolische Form", 1927, La prospettiva come forma simbolica, trad. it. a cura di Enrico Filippini, Feltrinelli, Milano, 1993, p. 52 e ss.

4 Ave Appiano, Comunicazione visiva, Utet, Torino, 1993; Roger Penrose, The Emperor's New Mind, Oxford University Press 1989, La nuova mente dell'imperatore, Rizzoli, Milano, 1992; The Large, the Small and the Human Mind, Cambridge University Press, 1997, Il grande, il piccolo e la mente umana, trad. it di Nicoletta Notarianni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998..

5 Stephen Kern, The Culture of the Time and Space 1880-1918, Cambridge, Massachussetts, Harvard University press, 1983, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, trad. it. a cura di Barnaba Maj, Bologna Il Mulino, 1988, p. 198 e ss.

6 R. Pierantoni, La trottola di Prometeo. Introduzione alla percezione acustica e visiva, Laterza, Bari 1996; M. S Gazzaniga (a cura di), The Cognitive Neurosciences, Bradford, Cambridge Massachussets, 1994; F. Boller, J. Grafman (a cura di), Handbook of Neuropsycology, Elsevier, Amsterdam, 1993, vol. 8, sez.11.I (a cura di H. Spinnler e F. Boller); L.R. Squire, B. Knowlton, G. Musen, The Structure and Organization of Memory, in "Anual Review of Psychology", n° 44, 1993, pp. 453-495; M. Minsky, The Society of Mind, 1986, La società della mente, trad. it. a cura di Giuseppe Longo, Adelphi, Milano, 1989, p. 618 e ss.

7 S. G. Shanker (a cura di), Gödel's Theorem in focus, London 1988, Il teorema di Gödel. Una messa a fuoco, Franco Muzzio Editore, Padova, 1988, trad. it. a cura di Paolo Pagli.

8 Michela Fontana, Percorsi calcolati. le nuove avventure della matematica, Le Mani, Genova, 1996, p. 10.

9 Isaac Asimov, Forward the Foundation, 1993, Fondazione anno zero, trad. it. a cura di Gianni Montanari, Arnoldo Mondadori, Milano, 1993, p. 342 e ss.

10 Marco de Paoli, Il sublime e la forma, Lacaita, Bari, 1990, p. 138 e ss.

11 E. Gombrich, The Image and the Eye. Further studies in the psychology of pictorical representation, 1982, L'immagine e l'occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, trad. it. a cura di Andrea Cane, Einaudi, Torino, 1985, p. 299 e ss.

12 Willard Van Orman Quine, Ontological Relativity and Other Essays, 1969, La relatività ontologica e altri saggi, trad. it. a cura di Michele Leonelli, Armando Editore, Roma, 1986.

13 Ignazio Licata, La realtà virtuale. L'altra storia della fisica quantica, Di Renzo Editore, Roma, 1992.

14 M. McLuhan, Understanding Media, 1964, Gli strumenti del comunicare. I significati psicologici e sociali di ogni sistema di comunicazione, trad. it. a cura di Ettore Capriolo, Garzanti, Milano, 1977, p. 333.

15 Roger Bastide, Le Rêve, la Trance et la folie, Paris 1972, Il sogno la trance e la follia, trad. it. a cura di Albina Cacopardo, Jaka Book, Milano, 1976, p. 23 e ss.

16 Theodore John Kaczynski, Un manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, a cura di Antonio Troiano, trad. it. Di Roberto Magliussi, Stampa alternativa, Roma, 1997.

17 Sul concetto di "corpo bionico" e di "cybercorpo" cfr. Roberto Terrosi, La filosofia del postumano, Costa & Nolan, Genova 1997, p. 98 e ss.; Donna J. Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, Routledge, New York, 1989, in Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di E. "Gomma" Guarneri e di Raf "Valvola" Scelsi, introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 39-101; Antonio Caronia, Domenico Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.

18 Sul concetto di "pensiero collettivo" cfr. Pierre Lévy, Le tecnologie dell'inteligenza. L'avvenire del pensiero nell'era dell'informatica, Parigi 1990, trad it. a cura di F. Berardi, Synergon, Bologna 1992, p. 184 e ss.; Pierre Lévy, Qu'est-ce que le virtuel?, Parigi 1995, Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, trad. it. a cura di Maria Colò e Maddalena Di Sopra, p. 59 e ss. e p. 87 e ss.; Franco Berardi "Bifo", Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio, Costa & Nolan, Genova, 1994, p. 161 e ss. Derrick de Kerckhove, The Skin of Culture, a cura di Cristopher Dewdney, Toronto 1995, La pelle della cultura, Costa & Nolan, Genova, 1996, p. 182 e ss.; Un interessante esempio del cosiddetto "pensiero collettivo" emerge nella produzione di Luther Blissett, noto pseudonimo dietro il quale si nasconde una aggregazione di giovani intellettuali bolognesi: cfr. Luther Blissett, Mind Invaders. Come fottere i media: manuale di guerriglia e sabotaggio culturale, Castelvecchi, Roma, 1995; Luther Blissett, Net.gener@tion. Manifesto delle nuove libertà, Mondadori, Milano, 1996. Quest'ultimo pamphlet è stato dichiarato un "falso" dallo stesso Luther Blissett. Episodio carico di incongruenze, giacché la responsabilità di un'azione, o anche soltanto il disconoscimento di un'azione, richiede l'identificazione di un ben definito "autore".



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