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  "Nuovo teatro/vecchie istituzioni", un contributo
di Fabio Massimo Franceschelli
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O EHIUOI
Caccia 'l 900. Appunti su Tolkien, Beckett, Joyce
Da e per Ennio Flaiano: 20 Nov 1972
Vocabolario dell'inutile (G-P)

 

E’ circa un anno, ormai, che le "nuove leve" (e non solo) del teatro italiano dibattono circa le prospettive di crescita e di riconoscimento/istituzionalizzazione delle proprie attività, produzioni, idee, poetiche.

Si tratta sostanzialmente – anche se schematicamente – di un fisiologico scontro generazionale, accentuato dal fatto che il sistema teatrale italiano non permette, per come è strutturato e per gli irrisori stanziamenti pubblici, un adeguato spazio che soddisfi tanto la "tradizione" quanto l’ "innovazione". Stando così le cose, inevitabilmente le poetiche dell’innovazione e della tradizione (che di per sé possono convivere alimentandosi vicendevolmente) si legano la prima alle giovani generazioni e la seconda alla "vecchia guardia", e divengono bandiere di uno scontro che, purtroppo, si rivela nella sostanza uno scontro sociale tra chi non ha alcun tipo di garanzie e chi resta avvinghiato alle proprie conquiste e non vuole cedere spazio.

Il dibattito, che ha avuto il suo apice nazionale nell’incontro di Castiglioncello del 30/11 e 01/12, sta ora calando nelle realtà regionali. Per il Lazio, il primo incontro ha avuto luogo il 22/12 al Teatro Furio Camillo (Roma).

Come già a Castiglioncello, anche a Roma ho avuto netta la sensazione che al di là dell’enorme, e spesso dispersiva, quantità di argomenti messi in gioco, manchi una chiarezza di fondo senza la quale è impossibile impostare una analisi efficace dei reali problemi esistenti, né formulare alcuna proposta. Ravviso, quindi, la necessità di approfondire:
a) i reali contorni di questa nuova realtà che chiede spazio;
b) la natura del "modello" teatrale italiano;
c) la natura dell’arte scenica (teatro, drammaturgia, danza, performance, moderne arti visive), e il suo ruolo nella società italiana.

a) I reali contorni di questa nuova realtà che chiede spazio.

Credo che dietro lo slogan di "nuovo teatro" si nascondano una pluralità di realtà, che se sono accomunate dall’esigenza di continuare ad esistere e portare avanti le proprie poetiche, sono fortemente differenziate riguardo la loro fattiva presenza nel sistema teatrale italiano: 1) vi sono compagnie ancora giovani ed innovative che se pur affermate a livello nazionale, e quindi in grado di esporre ad una larga fetta di pubblico i propri lavori, non dispongono di adeguate garanzie economiche e legislative che possano permettere il procedere di un organico percorso di ricerca e produzione. 2) Vi sono compagnie di ottima qualità che esistono e producono, tra mille difficoltà, da vari anni; costoro soffrono delle stesse inadeguatezze istituzionali viste al punto 1, aggravate da una mancata (o ridotta) visibilità che dipende tutta dall’inesistente educazione (ed informazione) teatrale che grava sulla società italiana. 3) Vi sono compagnie giovanissime, appena formatesi, che abitano quella vaga ma ampia dimensione del semiprofessionismo, che hanno idee, entusiasmo, professionalità, ma che sono lasciate allo sbando di fronte ai mille problemi che chiunque viva (o abbia vissuto) questo ambiente, conosce: disponibilità di sala prove, disponibilità di spazi per proporre spettacoli, burocrazia SIAE e ENPALS, ecc.

Le tre realtà identificate soffrono dell’inadeguatezza dello stesso modello teatrale – nonché della (mancanza di) cultura che ne sta alla base –, ma devono essere identificate nelle loro peculiari esigenze che vanno risolte tutte, senza seguire alcuna "classifica" di priorità.

b) La natura del "modello" teatrale italiano.

Come è emerso da più voci nell’incontro del 22, la complessità della giurisprudenza che regola il sistema teatrale italiano, complicata dalla varietà delle controparti istituzionali (Ministero, Regione, Provincia, Comune), deve essere studiata ed analizzata sino in fondo. L’ignoranza delle leggi non può essere per noi una scusante, né ritengo valida una scelta "politica" di cosciente rifiuto del dialogo con gli interlocutori preposti (anche se una tale opzione non è da escludere a priori).

Tuttavia, al di là di tali varianti, e quindi semplificando volutamente, ravviso una modalità ciclica attraverso cui il "modello" teatrale italiano tratta con le nuove e pressanti realtà: come riportava un intervento nell’incontro di Roma del 22, circa ogni dieci anni, e secondo la pressione esercitata "dal basso", le porte che regolano l’accesso al riconoscimento istituzionalizzato (accesso ai finanziamenti, direzione di teatri stabili e/o di festival) si aprono esclusivamente per consentire l’ingresso di un numero ridotto di nuovi soggetti. L’ingresso di costoro, che nella maggior parte dei casi erano gli stessi che guidavano la "protesta", ottiene il risultato di spegnere le pressioni e normalizzare la situazione, almeno sino alla successiva generazione.

Se questo è vero, e credo lo sia, non vorrei che altrettanto avvenisse ora: il problema della visibilità e dell’esistenza di un "nuovo" teatro è collettivo, e non può risolversi tacitando pochi "eletti".

c) La natura dell’arte scenica (teatro, drammaturgia, danza, performance, moderne arti visive), e il suo ruolo nella società italiana.

E’ un problema di una complessità incommensurabile, e la prima (e unica) conclusione che mi sento di avanzare è che manchi in tutti noi, protagonisti di queste arti, una seria riflessione sull’argomento.

L’attenzione è tutta rivolta ai continui vincoli che questo attuale Governo (ma anche quelli passati) pone nei confronti dello sviluppo artistico, dimenticando che una delle cause dell’imbarbarimento culturale italiano risiede proprio nella gretta e provinciale chiusura mentale di tanti artisti verso la comunità (artistica) nel suo completo, verso le forme artistiche "altre", verso la società tout court.

Ravviso dunque il pericolo – indotto da questo sistema e da questo Governo – che l’artista si trasformi in "artigiano" impegnato solo (o soprattutto) a fare quadrare i conti a fine mese accentuando conseguentemente la sua dipendenza verso la classe politica; ma ravviso anche il pericolo, che l’artista si chiuda nel solipsistico esercizio delle proprie idee e della propria poetica, dimenticando che è solo nel dialogo e nel confronto continuo che l’arte evolve. L’artista deve fuggire lo sterile individualismo e considerare la comunità artistica tutta come essenziale al proprio sviluppo e alla crescita della propria poetica. La cura e la salvaguardia delle nuove istanze è un dovere per tutti coloro che hanno a cuore l’arte, e soprattutto è un dovere per quegli artisti che hanno raggiunto una loro "realizzazione" professionale. Un sistema che "taglia le gambe" alle nuove generazioni è un sistema che non ha futuro. Un sistema che nega l’espressione ai più deboli è un sistema che nega a noi tutti di "nutrirci" di quelle espressioni.

Fabio Massimo Franceschelli

 


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