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E’ circa un anno, ormai, che le "nuove leve" (e non solo)
del teatro italiano dibattono circa le prospettive di crescita
e di riconoscimento/istituzionalizzazione delle proprie attività,
produzioni, idee, poetiche.
Si tratta sostanzialmente – anche
se schematicamente – di un fisiologico scontro generazionale,
accentuato dal fatto che il sistema teatrale italiano non permette,
per come è strutturato e per gli irrisori stanziamenti
pubblici, un adeguato spazio che soddisfi tanto la "tradizione"
quanto l’ "innovazione". Stando così le cose, inevitabilmente
le poetiche dell’innovazione e della tradizione (che di per sé
possono convivere alimentandosi vicendevolmente) si legano la
prima alle giovani generazioni e la seconda alla "vecchia guardia",
e divengono bandiere di uno scontro che, purtroppo, si rivela
nella sostanza uno scontro sociale tra chi non ha alcun tipo di
garanzie e chi resta avvinghiato alle proprie conquiste e non
vuole cedere spazio.
Il dibattito, che ha avuto
il suo apice nazionale nell’incontro di Castiglioncello del 30/11
e 01/12, sta ora calando nelle realtà regionali. Per il
Lazio, il primo incontro ha avuto luogo il 22/12 al Teatro Furio
Camillo (Roma).
Come già a Castiglioncello,
anche a Roma ho avuto netta la sensazione che al di là
dell’enorme, e spesso dispersiva, quantità di argomenti
messi in gioco, manchi una chiarezza di fondo senza la quale è
impossibile impostare una analisi efficace dei reali problemi
esistenti, né formulare alcuna proposta. Ravviso, quindi,
la necessità di approfondire:
a) i reali contorni di questa
nuova realtà che chiede spazio;
b) la natura del "modello"
teatrale italiano;
c) la natura dell’arte scenica
(teatro, drammaturgia, danza, performance, moderne arti visive),
e il suo ruolo nella società italiana.
a) I reali contorni di questa
nuova realtà che chiede spazio.
Credo che dietro lo slogan
di "nuovo teatro" si nascondano una pluralità di realtà,
che se sono accomunate dall’esigenza di continuare ad esistere
e portare avanti le proprie poetiche, sono fortemente differenziate
riguardo la loro fattiva presenza nel sistema teatrale italiano:
1) vi sono compagnie ancora giovani ed innovative che se pur affermate
a livello nazionale, e quindi in grado di esporre ad una larga
fetta di pubblico i propri lavori, non dispongono di adeguate
garanzie economiche e legislative che possano permettere il procedere
di un organico percorso di ricerca e produzione. 2) Vi sono compagnie
di ottima qualità che esistono e producono, tra mille difficoltà,
da vari anni; costoro soffrono delle stesse inadeguatezze istituzionali
viste al punto 1, aggravate da una mancata (o ridotta) visibilità
che dipende tutta dall’inesistente educazione (ed informazione)
teatrale che grava sulla società italiana. 3) Vi sono compagnie
giovanissime, appena formatesi, che abitano quella vaga ma ampia
dimensione del semiprofessionismo, che hanno idee, entusiasmo,
professionalità, ma che sono lasciate allo sbando di fronte
ai mille problemi che chiunque viva (o abbia vissuto) questo ambiente,
conosce: disponibilità di sala prove, disponibilità
di spazi per proporre spettacoli, burocrazia SIAE e ENPALS, ecc.
Le tre realtà identificate
soffrono dell’inadeguatezza dello stesso modello teatrale – nonché
della (mancanza di) cultura che ne sta alla base –, ma devono
essere identificate nelle loro peculiari esigenze che vanno risolte
tutte, senza seguire alcuna "classifica" di priorità.
b) La natura del "modello" teatrale
italiano.
Come è emerso da
più voci nell’incontro del 22, la complessità della
giurisprudenza che regola il sistema teatrale italiano, complicata
dalla varietà delle controparti istituzionali (Ministero,
Regione, Provincia, Comune), deve essere studiata ed analizzata
sino in fondo. L’ignoranza delle leggi non può essere per
noi una scusante, né ritengo valida una scelta "politica"
di cosciente rifiuto del dialogo con gli interlocutori preposti
(anche se una tale opzione non è da escludere a priori).
Tuttavia, al di là
di tali varianti, e quindi semplificando volutamente, ravviso
una modalità ciclica attraverso cui il "modello" teatrale
italiano tratta con le nuove e pressanti realtà: come riportava
un intervento nell’incontro di Roma del 22, circa ogni dieci anni,
e secondo la pressione esercitata "dal basso", le porte che regolano
l’accesso al riconoscimento istituzionalizzato (accesso ai finanziamenti,
direzione di teatri stabili e/o di festival) si aprono esclusivamente
per consentire l’ingresso di un numero ridotto di nuovi soggetti.
L’ingresso di costoro, che nella maggior parte dei casi erano
gli stessi che guidavano la "protesta", ottiene il risultato di
spegnere le pressioni e normalizzare la situazione, almeno sino
alla successiva generazione.
Se questo è vero, e
credo lo sia, non vorrei che altrettanto avvenisse ora: il problema
della visibilità e dell’esistenza di un "nuovo" teatro
è collettivo, e non può risolversi tacitando pochi
"eletti".
c) La natura dell’arte scenica
(teatro, drammaturgia, danza, performance, moderne arti visive),
e il suo ruolo nella società italiana.
E’ un problema di una
complessità incommensurabile, e la prima (e unica) conclusione
che mi sento di avanzare è che manchi in tutti noi, protagonisti
di queste arti, una seria riflessione sull’argomento.
L’attenzione è tutta
rivolta ai continui vincoli che questo attuale Governo (ma anche
quelli passati) pone nei confronti dello sviluppo artistico, dimenticando
che una delle cause dell’imbarbarimento culturale italiano risiede
proprio nella gretta e provinciale chiusura mentale di tanti artisti
verso la comunità (artistica) nel suo completo, verso le
forme artistiche "altre", verso la società tout court.
Ravviso dunque il pericolo
– indotto da questo sistema e da questo Governo – che l’artista
si trasformi in "artigiano" impegnato solo (o soprattutto) a fare
quadrare i conti a fine mese accentuando conseguentemente la sua
dipendenza verso la classe politica; ma ravviso anche il pericolo,
che l’artista si chiuda nel solipsistico esercizio delle proprie
idee e della propria poetica, dimenticando che è solo nel
dialogo e nel confronto continuo che l’arte evolve. L’artista
deve fuggire lo sterile individualismo e considerare la comunità
artistica tutta come essenziale al proprio sviluppo e alla crescita
della propria poetica. La cura e la salvaguardia delle nuove istanze
è un dovere per tutti coloro che hanno a cuore l’arte,
e soprattutto è un dovere per quegli artisti che hanno
raggiunto una loro "realizzazione" professionale. Un sistema che
"taglia le gambe" alle nuove generazioni è un sistema che
non ha futuro. Un sistema che nega l’espressione ai più
deboli è un sistema che nega a noi tutti di "nutrirci"
di quelle espressioni.
Fabio Massimo Franceschelli
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