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Arte e politica - alcune tesi [1]
1. Non c’è politica
- nel senso professionalizzato e alienato in cui oggi essa viene
compresa - che non sia già arte, intesa come attività
similmente alienata e professionalizzata. La politica è
l’arte della retorica, delle presentazioni curate, degli show,
degli shock, degli scandali.
2. Non c’è arte
che non sia già politica. Tale relazione è già
da sempre data, anche se - come nota Benjamin - è presente
in modo forzato solo grazie a chi ne proclama a gran voce l’assenza
o l’esclude del tutto.
3. Certa arte proclama
essa stessa di essere "al di sopra della politica". Non lo è
e non può mai esserlo. L’arte - come esiste nel nostro
mondo - non può evitare la relazione con la totalità
e ciò significa che essa non può evitare di implicare
le relazioni sociali in cui esiste, poiché quelle sono
il suo fondamento.
4. Certa arte è
fatta esplicitamente per ragioni politiche e solitamente, dalla
fine del XIX secolo, la sua motivazione è di ispirazione
socialista o comunista. Riguardo a questo tipo di arte ci sono
tre modi in cui la politica si manifesta.
La politica nell’arte può
emergere in termini di contenuto - ninna-nanne per bambini,
storie sessuali, spazi domestici, noia e oppressione - tutti esposti
alla luce di un’analisi che mira a scopi politici.
La politica nell’arte può
emergere nelle strutture formali - ad esempio, il fotomontaggio
come analogo della dialettica, il realismo socialista come modo
privilegiato di esporre l’inarrestabile vittoria del proletariato,
il teatro epico che rispecchia i processi dell’animo umano oppure
l’arte popolare etnica come affermazione di valori alternativi.
Infine la politica può
essere affermata nell’arte attraverso le tecniche in cui
si manifesta il "fare" - come la fotografia e il suo portato "democratico"
implicito, il film e la sua relazione con la penetrazione analitica
di un campo sociale, l’uncinetto come affermazione femminista,
vernice casalinga e pennarello usati al posto del borghessissimo
olio per dipingere, oppure poster, graffiti e adesivi. Tutti questi
formati sono prodotti in serie e per la massa e vengono perciò
contrapposti alla "unicità" stessa dell’arte.
5. La questione della
politica in un’opera d’arte non si riduce all’autorità
politica che decide del contenuto di un’opera. Neppure, la natura
di classe dell’arte dovrebbe essere dedotta dalle origini di classe
del suo produttore. Entrambe queste tesi sono errori che provengono
dalla critica d’arte staliniana
6. La politica culturale
stalinista chiedeva la riflessione di contenuti sociali nel contenuto
artistico (cioè le classi e i rapporti di classe). Nella
Russia staliniana l’artista riceveva ufficialmente la classificazione
di ingegnere: "ingegnere di anime umane". L’appello al Grande
Realismo segnò il ritorno alla tradizione culturale, una
tradizione caratterizzata dall’eredità del XIX secolo e
dall’opera dei suoi legittimi discendenti. Essa incoraggiava la
promozione di valori classici di armonia, eroismo e grandiosità.
L’estetica stalinista rifiutò le scoperte dell’avanguardia
rivoluzionaria e tecnofila dei primi anni del dopo-rivoluzione.
Benché si ispiri in parte al linguaggio d’avanguardia ispirato
alla macchina e alla meccanica, il realismo socialista insiste
sulla intellegibilità del contenuto a discapito della forma
e le sue immagini sono zuccherose e romantiche, mostrando contadini
felici e rubicondi non meno di fumanti ciminiere industriali.
7. Benjamin e Brecht
riuscirono a vedere questo, laddove molti non ci riuscirono. Di
Lukács, Gabor e Kurella, i principali critici letterari
comunisti, Benjamin disse: "con questa gente non si può
formare uno stato". Brecht rispose: "Oppure soltanto uno stato,
ma nessuna comunione. Sono semplicemente nemici della produzione.
La produzione mette loro paura. Non ci si può fidare di
essa, è imprevedibile. Nessuno sa mai che cosa ne uscirà.
E loro stessi non vogliono produrre. Vogliono fare gli apparatchiks
[2] e controllare
gli altri. Ognuna delle loro critiche contiene una minaccia".
Brecht taglia corto, sottolineando l’atteggiamento burocratico
degli scribacchini filo-staliniani che difendono il controllo
centralizzato sulla produzione industriale tanto quanto dettano
le forme e i contenuti della produzione culturale. L’attività
stessa -la produzione - li spaventa. L’attività in proprio
implica attività dei lavoratori piuttosto che diktat dall’alto.
L’autonomia sbilancia le certezze sperate dei piani quinquennali.
Invece, si imitano modelli borghesi e il controllo burocratico
insiste che il solo argomento legittimo per l’arte è l’adorazione
dell’eroe. Nel giugno 1938 Benjamin annotò: "poi parliamo
di poesia e delle traduzioni di poesia sovietica da diversi linguaggi
che abbondano su ‘Das Wort’. Brecht pensa che gli autori laggiù
non se la passino bene. Viene vista come una provocazione deliberata
se in una poesia non compare il nome di Stalin".
8. Una delle affermazioni
più importanti mai fatte sull’arte e la politica arriva
dal saggio di Walter Benjamin del 1934, L’autore come produttore.
In questo saggio Benjamin asserisce che una tendenza politica
"giusta", include una tendenza letteraria "giusta". La tendenza
letteraria - o, è lo stesso, la tendenza artistica - consiste
"in uno sviluppo progressivo delle tecniche letterarie, oppure
in uno regressivo". Più avanti nella lettura, spiega il
termine "progressivo": ogni atto che è "interessato alla
liberazione dei mezzi di produzione". Stando a Benjamin, lo sviluppo
progressivo della Tecnica letteraria o artistica - ciò
che altrimenti potremmo definire le forze produttive dell’arte
- è un processo che rende possibili nuove relazioni di
produzione e di consumo. Questo è quello che intendeva
Benjamin con la "politicizzazione dell’arte".
9. Ma questi sono dibattiti
che, per il momento, hanno perso finanziamenti ufficiali e di
stalinisti in giro se ne vedono ormai pochi, anche negli angoli
oscuri. La questione dell’arte e della politica per noi ha meno
a che fare con dogmi prescrittivi e più con la mercificazione
e l’indifferenza rispetto ad un’inondazione di esperienza culturale.
Queste questioni sono legate tra loro ed entrambe riguardano il
rapporto col mercato.
10. Che l’arte esista
- o, più genericamente, la cultura - come un’area specialistica,
significa che essa può solo essere un alibi che copre quella
colpevole parte della vita che non è cultura. Questo significa
che l’arte giustifica direttamente lo sfruttamento e l’oppressione.
In altre parole: Marx scrisse che l’attività umana costituisce
la realtà sociale attraverso la prassi; e la verità
si ottiene tramite il processo, il processo di auto-sviluppo;
o, secondo una citazione di Marx più famosa, l’individuo
totale del comunismo sviluppato è cacciatore al mattino,
pescatore il pomeriggio e criticamente critico la sera - senza
essere socialmente definito né come cacciatore, né
come pescatore, né come critico. Anche l’artista potrebbe
essere uno di questi ruoli. È una schiavitù per
alcuni farsi carico del compito di essere artisti, portando questo
ruolo sociale, mentre altri ne sono esclusi.
11. D’altro canto,
afflitta dalla mercificazione, la pratica artistica oggi è
una deformazione dello sviluppo sensibile del sé che allude
ad una vera comunità umana. La reificazione dell’attività
umana nelle sfere separate del lavoro e del gioco, dell’estetica
e della politica deve essere abbandonato. L’estetico deve essere
salvato dal ghetto dell’arte e posto al centro della vita. Questa
è una politica dell’arte, politica nell’arte e attraverso
l’arte.
12. Ma questo è
detto in modo troppo generico. Alcune parole sulla specifica congiunzione
di oggi tra arte e politica nel gruppo Baader-Meinhof. Il gruppo
terrorista tedesco può affermarsi grazie al glamour alla
moda della propria post-esistenza in una società annoiata.
Per comprenderlo in se stesso occorre una ricostruzione delle
specifiche conduzioni della Germania post-nazista e del boom dei
consumi. Dubitando che una classe lavoratrice imbrigliata dal
consumismo e psicologicamente autoritaria potesse ribellarsi,
la RAF [3] cercò
- attraverso bombe e rapimenti - di rompere i compromessi della
vita quotidiana. Tale rottura dei termini del quotidiano è
ciò che l’arte sogna di raggiungere. La guardia e l’avanguardia
si incontrano su questo punto. Ad entrambe è comune la
mera soggettività della ribellione. Modi di vita differenti
non vengono solo proposti da queste due forme avanzate di partito,
ma anche vissute apertamente. Dany Cohn Bendit scrisse in We
Loved It So, The Revolution: "Tutto ciò che accadeva
nel mondo veniva interpretato alla luce dell’esperienza vissuta
di ognuno di noi; il desiderio radicale di autonomia e auto-determinazione
accompagnava il comportamento di ogni giorno e fondava la ribellione
diffusa". Quello che accade qui è meno la "politicizzazione
dell’estetico" come risultato di un’ondata un tempo rivoluzionaria
annessa alla democrazia - nell’Unione Sovietica, in Germania -
quanto piuttosto una "esteticizzazione della politica". E quest’ultima
è stata molto entusiasticamente proposta da dubbi progenitori.
Avendo definito lo Stato come
"ancora fascista", quelli della RAF hanno probabilmente pensato
che al fuoco si dovesse rispondere col fuoco, ma avrebbero dovuto
sapere che non avrebbero mai vinto su quel fronte. I loro avversari,
infatti, erano molto più pratici di loro. In fin dei conti
avevano un vantaggio di 40 anni.
NOTE
[1]
Intervento tenuto all’Istituto per le Arti Contemporanee, Londra
13 ottobre 2002, in occasione del convegno 25 Years After Stammheim.
[2] Termine russo, indica
chi crede ciecamente nell’apparato burocratico del partito, N.d.T.
[3] Rote Arme Fraktion
- le "brigate rosse" tedesche, N.d.T.
Esther Leslie
- traduz.: M. Maurizi
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