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  Tesi su Arte e politica
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O EHIUOI
Caccia 'l 900. Appunti su Tolkien, Beckett, Joyce
Da e per Ennio Flaiano: 20 Nov 1972
Vocabolario dell'inutile (G-P)

 

Arte e politica - alcune tesi [1]

1. Non c’è politica - nel senso professionalizzato e alienato in cui oggi essa viene compresa - che non sia già arte, intesa come attività similmente alienata e professionalizzata. La politica è l’arte della retorica, delle presentazioni curate, degli show, degli shock, degli scandali.

2. Non c’è arte che non sia già politica. Tale relazione è già da sempre data, anche se - come nota Benjamin - è presente in modo forzato solo grazie a chi ne proclama a gran voce l’assenza o l’esclude del tutto.

3. Certa arte proclama essa stessa di essere "al di sopra della politica". Non lo è e non può mai esserlo. L’arte - come esiste nel nostro mondo - non può evitare la relazione con la totalità e ciò significa che essa non può evitare di implicare le relazioni sociali in cui esiste, poiché quelle sono il suo fondamento.

4. Certa arte è fatta esplicitamente per ragioni politiche e solitamente, dalla fine del XIX secolo, la sua motivazione è di ispirazione socialista o comunista. Riguardo a questo tipo di arte ci sono tre modi in cui la politica si manifesta.
La politica nell’arte può emergere in termini di contenuto - ninna-nanne per bambini, storie sessuali, spazi domestici, noia e oppressione - tutti esposti alla luce di un’analisi che mira a scopi politici.
La politica nell’arte può emergere nelle strutture formali - ad esempio, il fotomontaggio come analogo della dialettica, il realismo socialista come modo privilegiato di esporre l’inarrestabile vittoria del proletariato, il teatro epico che rispecchia i processi dell’animo umano oppure l’arte popolare etnica come affermazione di valori alternativi.
Infine la politica può essere affermata nell’arte attraverso le tecniche in cui si manifesta il "fare" - come la fotografia e il suo portato "democratico" implicito, il film e la sua relazione con la penetrazione analitica di un campo sociale, l’uncinetto come affermazione femminista, vernice casalinga e pennarello usati al posto del borghessissimo olio per dipingere, oppure poster, graffiti e adesivi. Tutti questi formati sono prodotti in serie e per la massa e vengono perciò contrapposti alla "unicità" stessa dell’arte.

5. La questione della politica in un’opera d’arte non si riduce all’autorità politica che decide del contenuto di un’opera. Neppure, la natura di classe dell’arte dovrebbe essere dedotta dalle origini di classe del suo produttore. Entrambe queste tesi sono errori che provengono dalla critica d’arte staliniana

6. La politica culturale stalinista chiedeva la riflessione di contenuti sociali nel contenuto artistico (cioè le classi e i rapporti di classe). Nella Russia staliniana l’artista riceveva ufficialmente la classificazione di ingegnere: "ingegnere di anime umane". L’appello al Grande Realismo segnò il ritorno alla tradizione culturale, una tradizione caratterizzata dall’eredità del XIX secolo e dall’opera dei suoi legittimi discendenti. Essa incoraggiava la promozione di valori classici di armonia, eroismo e grandiosità. L’estetica stalinista rifiutò le scoperte dell’avanguardia rivoluzionaria e tecnofila dei primi anni del dopo-rivoluzione. Benché si ispiri in parte al linguaggio d’avanguardia ispirato alla macchina e alla meccanica, il realismo socialista insiste sulla intellegibilità del contenuto a discapito della forma e le sue immagini sono zuccherose e romantiche, mostrando contadini felici e rubicondi non meno di fumanti ciminiere industriali.

7. Benjamin e Brecht riuscirono a vedere questo, laddove molti non ci riuscirono. Di Lukács, Gabor e Kurella, i principali critici letterari comunisti, Benjamin disse: "con questa gente non si può formare uno stato". Brecht rispose: "Oppure soltanto uno stato, ma nessuna comunione. Sono semplicemente nemici della produzione. La produzione mette loro paura. Non ci si può fidare di essa, è imprevedibile. Nessuno sa mai che cosa ne uscirà. E loro stessi non vogliono produrre. Vogliono fare gli apparatchiks [2] e controllare gli altri. Ognuna delle loro critiche contiene una minaccia". Brecht taglia corto, sottolineando l’atteggiamento burocratico degli scribacchini filo-staliniani che difendono il controllo centralizzato sulla produzione industriale tanto quanto dettano le forme e i contenuti della produzione culturale. L’attività stessa -la produzione - li spaventa. L’attività in proprio implica attività dei lavoratori piuttosto che diktat dall’alto. L’autonomia sbilancia le certezze sperate dei piani quinquennali. Invece, si imitano modelli borghesi e il controllo burocratico insiste che il solo argomento legittimo per l’arte è l’adorazione dell’eroe. Nel giugno 1938 Benjamin annotò: "poi parliamo di poesia e delle traduzioni di poesia sovietica da diversi linguaggi che abbondano su ‘Das Wort’. Brecht pensa che gli autori laggiù non se la passino bene. Viene vista come una provocazione deliberata se in una poesia non compare il nome di Stalin".

8. Una delle affermazioni più importanti mai fatte sull’arte e la politica arriva dal saggio di Walter Benjamin del 1934, L’autore come produttore. In questo saggio Benjamin asserisce che una tendenza politica "giusta", include una tendenza letteraria "giusta". La tendenza letteraria - o, è lo stesso, la tendenza artistica - consiste "in uno sviluppo progressivo delle tecniche letterarie, oppure in uno regressivo". Più avanti nella lettura, spiega il termine "progressivo": ogni atto che è "interessato alla liberazione dei mezzi di produzione". Stando a Benjamin, lo sviluppo progressivo della Tecnica letteraria o artistica - ciò che altrimenti potremmo definire le forze produttive dell’arte - è un processo che rende possibili nuove relazioni di produzione e di consumo. Questo è quello che intendeva Benjamin con la "politicizzazione dell’arte".

9. Ma questi sono dibattiti che, per il momento, hanno perso finanziamenti ufficiali e di stalinisti in giro se ne vedono ormai pochi, anche negli angoli oscuri. La questione dell’arte e della politica per noi ha meno a che fare con dogmi prescrittivi e più con la mercificazione e l’indifferenza rispetto ad un’inondazione di esperienza culturale. Queste questioni sono legate tra loro ed entrambe riguardano il rapporto col mercato.

10. Che l’arte esista - o, più genericamente, la cultura - come un’area specialistica, significa che essa può solo essere un alibi che copre quella colpevole parte della vita che non è cultura. Questo significa che l’arte giustifica direttamente lo sfruttamento e l’oppressione. In altre parole: Marx scrisse che l’attività umana costituisce la realtà sociale attraverso la prassi; e la verità si ottiene tramite il processo, il processo di auto-sviluppo; o, secondo una citazione di Marx più famosa, l’individuo totale del comunismo sviluppato è cacciatore al mattino, pescatore il pomeriggio e criticamente critico la sera - senza essere socialmente definito né come cacciatore, né come pescatore, né come critico. Anche l’artista potrebbe essere uno di questi ruoli. È una schiavitù per alcuni farsi carico del compito di essere artisti, portando questo ruolo sociale, mentre altri ne sono esclusi.

11. D’altro canto, afflitta dalla mercificazione, la pratica artistica oggi è una deformazione dello sviluppo sensibile del sé che allude ad una vera comunità umana. La reificazione dell’attività umana nelle sfere separate del lavoro e del gioco, dell’estetica e della politica deve essere abbandonato. L’estetico deve essere salvato dal ghetto dell’arte e posto al centro della vita. Questa è una politica dell’arte, politica nell’arte e attraverso l’arte.

12. Ma questo è detto in modo troppo generico. Alcune parole sulla specifica congiunzione di oggi tra arte e politica nel gruppo Baader-Meinhof. Il gruppo terrorista tedesco può affermarsi grazie al glamour alla moda della propria post-esistenza in una società annoiata. Per comprenderlo in se stesso occorre una ricostruzione delle specifiche conduzioni della Germania post-nazista e del boom dei consumi. Dubitando che una classe lavoratrice imbrigliata dal consumismo e psicologicamente autoritaria potesse ribellarsi, la RAF [3] cercò - attraverso bombe e rapimenti - di rompere i compromessi della vita quotidiana. Tale rottura dei termini del quotidiano è ciò che l’arte sogna di raggiungere. La guardia e l’avanguardia si incontrano su questo punto. Ad entrambe è comune la mera soggettività della ribellione. Modi di vita differenti non vengono solo proposti da queste due forme avanzate di partito, ma anche vissute apertamente. Dany Cohn Bendit scrisse in We Loved It So, The Revolution: "Tutto ciò che accadeva nel mondo veniva interpretato alla luce dell’esperienza vissuta di ognuno di noi; il desiderio radicale di autonomia e auto-determinazione accompagnava il comportamento di ogni giorno e fondava la ribellione diffusa". Quello che accade qui è meno la "politicizzazione dell’estetico" come risultato di un’ondata un tempo rivoluzionaria annessa alla democrazia - nell’Unione Sovietica, in Germania - quanto piuttosto una "esteticizzazione della politica". E quest’ultima è stata molto entusiasticamente proposta da dubbi progenitori.

Avendo definito lo Stato come "ancora fascista", quelli della RAF hanno probabilmente pensato che al fuoco si dovesse rispondere col fuoco, ma avrebbero dovuto sapere che non avrebbero mai vinto su quel fronte. I loro avversari, infatti, erano molto più pratici di loro. In fin dei conti avevano un vantaggio di 40 anni.

NOTE
[1] Intervento tenuto all’Istituto per le Arti Contemporanee, Londra 13 ottobre 2002, in occasione del convegno 25 Years After Stammheim.
[2] Termine russo, indica chi crede ciecamente nell’apparato burocratico del partito, N.d.T.
[3] Rote Arme Fraktion - le "brigate rosse" tedesche, N.d.T.

Esther Leslie - traduz.: M. Maurizi

 


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