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L'onda anomala di Kammamuri

La faccia di Fausto è tirata all'inverosimile. Non sbatte le palpebre da almeno cinquanta secondi. Non sbatte le palpebre dall'ultima palla ferma. Le sbatterà alla prossima palla ferma. Per il resto occhi sbarrati e faccia tirata. Respiro tenuto. Il tutto quasi in apnea. È bianco come uno straccio e questo mi preoccupa. Si gira e mi chiede con lo sguardo allucinato: "L'ha dato il recupero? Il quarto uomo del cazzo l'ha dato il recupero?". Mi preoccupo ancora di più, gli dico di darsi una calmata. Sarà sì e no il venticinquesimo della ripresa e quella domanda non è neppure la prima volta che me la fa. Mancano venti minuti e mi sa che mi sta venendo il mal di testa. Lo sapevo che me lo dovevo prendere l'aulin preventivo. Ora con la bustina che mi sono portato in tasca sai che ci faccio. Gecko canta ininterrottamente da due ore. È chiaramente in preda all'adrenalina. Come dargli torto. Mancano diciannove minuti e mi sa che mi sta venendo il mal di testa. Non posso rischiare. Bevo un sorso d'acqua dalla bottiglia senza ingoiare. Apro la bustina di aulin e la butto in bocca. Poi mischio sempre in bocca e ingoio tutto. Speriamo faccia effetto lo stesso. Non posso rischiare. La faccia di Fausto è tirata all'inverosimile, ma guardando un po' in giro mi pare che le altre non siano da meno. Dovrebbe essere un piacere ma sembra una sofferenza. L'arbitro fischia la fine. Fiii… Fiii… Fiiiiiiiii. Io penso: "Rudifeller". Mica lo so perché. I pensieri che non c'entrano niente arrivano nei momenti più impensati. Nell'istante in cui abbiamo vinto lo scudetto io ho pensato a Rudifeller. Forse per difendermi. Tipo il salvavita per cui in caso di cortocircuito la corrente va via. La testa già mi scoppiava per cui al triplice fischio sono andato in protezione pensando al tedesco volante. Ma è stato un attimo. Gecko poi mi è saltato addosso urlando : "è finita… è finita… è finita…". Uno urla, uno piange, uno ride, uno non sa se piangere ridere o urlare. A me mi sta scoppiando la testa. Il giorno dopo quello in cui hai compiuto diciotto anni è esattamente uguale a quello prima. Con tutto che nei mesi precedenti parenti e amici di famiglia non fanno altro che fomentare l'attesa. Ma uno scudetto vale molto di più della maggiore età, anche se questa viene una volta sola e quello in teoria può pure ritornare. Anche il giorno dopo quello in cui fai l'amore per la prima volta è esattamente uguale a quello prima, e uno scudetto non so se valga di più. Forse sì ma allora se Ninetta mi sente sono guai. Oppure no e allora domani sarà come ieri. Il fatto è che non ci sto capendo proprio un cazzo. Che volete che vi dica. Che volete che scriva. Ho pensato esattamente quello che hai pensato tu che stai leggendo. Ho sentito esattamente quello che hai sentito. E ho visto le stesse cose, le stesse facce tirate, gli stessi auricolari aggrappati alle stesse orecchie. Ho visto gli stessi abbracci e gli stessi celerini, gli stessi gol e gli stessi bibitari. Ho provato esattamente le stesse cose ed ho come la sensazione che sia inutile cercare di descriverle. Di sicuro mi sento un po' stordito. Come la prima mattina dopo i diciotto anni e come la prima volta che ho fatto l'amore. Ci sono dei momenti in cui le persone plurali sono il succo di tutto. E più la società ragiona per persone singolari più quei momenti valgono. È una vecchia teoria di Gecko. L'ho dedotta piano piano negli anni perché lui non è propriamente il massimo della chiarezza quando parla. Lui pressappoco la mette così: "I verbi stanno in una tabella da sei righe. Di solito si usano le prime tre righe ma io preferisco le altre tre". Traducendo per chi non lo conosce e non è abituato, in italiano ci sono sei persone: tre singolari e tre plurali. Da una parte io, tu, egli. Dall'altra noi, voi, essi. Sembra una cazzata ma non lo è. Stavolta Gecko ha avuto una bella intuizione. Una buona parte del modo di vedere e di sentire le cose sta in quella distinzione. Ogni gruppo di tre, sia quello singolare che quello plurale basta per compiere quasi tutti i ragionamenti di cui si ha bisogno. Da una parte ci sono io che posso avere a che fare con te o parlare con te, o al limite tra me e me di lui. Dall'altra parte ci siamo noi che possiamo avere a che fare con voi o parlare tra noi o con voi di loro. Non c'è differenza se non quella che passa tra lo stare da soli e l'appartenere ad un gruppo. Una differenza sottile ma dentro la quale c'è un mare di cose. Anche la capacità di emozionarsi in questo modo assurdo per questa squadra che rappresenta questa città. Attenzione. Che la rappresenta non in superficie come anche la peggior fotografia dell'ultimo turista sa fare. Che la rappresenta per come è, per come vive le sue cose, perché quella squadra permette a tanti io di diventare un solo noi. Il mio capo a lavoro, qualche tempo fa, mi disse: "Tu sei una persona molto intelligente e matura, ma quando parli della Roma sembri un ragazzino". Lo diceva non in tono simpatico, ma anche vagamente offensivo. Un po' snob. Non ha capito un cazzo. Non può capire. E io mi godo la sua gioia immensa e mi godo pure la sua faccia che non capisce. E addirittura pensa che io stia fingendo la gioia che invece provo mentre come un cretino, col culo seduto sul finestrino tengo la bandiera tesa che tira come una pazza mentre la macchina sfreccia e Gecko guida urlando allucinato. E Fausto piange di dietro. Il mio capo non capirà mai e per me non è un lui ma un loro. Perché noi siamo noi. Noi. Noi. Noi. Noi siamo forti noi. Non è la prima volta che piangiamo insieme noi. Sappiamo piangere di gioia noi. Sventolando una bandiera perché abbiamo pianto di dolore noi. E se a quindici anni non avessimo pianto insieme per la morte del padre di Fausto, il nostro pianto oggi, al fischio dell'arbitro non sarebbe stato lo stesso. Perché noi. Noi. Noi. Noi siamo un gruppo noi. Abbiamo una storia. E un sogno. E quando il sogno per un attimo diventa un pezzo di storia siamo lì. Tutti e tre. Perché mai. Mai. Mai. Non tradiremo mai. Perché tradire questa passione significherebbe tradire quell'abbraccio di tre pischelli che piangono perché non riescono a capire cosa gli succede intorno. E semplicemente non è possibile. Mai. Mai. Almeno per noi. Noi. Quando lancio un semplice sguardo a Fausto o a Gecko non ho bisogno di parole. Anzi a dire il vero tra noi non parliamo neppure così tanto. Però proviamo esattamente le stesse cose. Ne siamo certi noi. E oggi il nostro piccolo noi fatto di tre persone è semplicemente affogato in un noi molto più grande. Enorme. Fuso con la città, con i suoi palazzi. Anche quelli brutti. Anche quelli "oribbili". Che valgono come i monumenti. Perché sono le due facce della stessa medaglia. Una medaglia che si chiama Roma. Che non è la nostra squadra ma è la squadra de noi. Ed è pure la città de noi, che se è fatta così è perché in fondo in fondo noi siamo fatti così. Una squadra che finalmente al triplice fischio d'un giorno qualsiasi ti fa scoppiare la testa dalla gioia e ti fa provare delle emozioni che è inutile che cerco di scrivere. Con Fausto e con Gecko non ci siamo detti niente ma ci siamo abbracciati con le lacrime egli occhi, perché siamo noi e tra noi certe cose si capiscono al volo. Che volete che vi dica. Che volete che scriva. Ho pensato esattamente quello che hai pensato tu che stai leggendo. Ho sentito esattamente quello che hai sentito. E ho provato le stesse cose immerso in questo mare di bandiere che divide gli abitanti di questa città tra noi e loro.

p.s. dedicato in modo particolare a tutti quelli che, come Fausto, non possono gioire insieme al padre che nell' 82-83 li portava allo stadio e che oggi avrebbe gioito un sacco.

 

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