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Relazioni interpersonali  e modalità comunicative
a cura di Mary Nicotra


15 Febbario  2002

 

''Gli uomini preferiscono le bionde'' è un film femminista.
Tecnologie di genere nei media. 
di Elisa A.G. Arfini

 ''Gli uomini preferiscono le bionde'' è un film profondamente femminista.

Questa posizione, che a prima vista può sembrare bizzarra, è stata effettivamente sostenuta e argomentata . E’ stato sottolineato infatti che l’amicizia tra Marylin Monroe e Jane Russell, prioritaria anche rispetto alla “caccia al marito” e i personaggi da loro interpretati, donne forti e indipendenti, costituiscano un sottotesto femminista. 

Senza entrare nei dettagli della storia, ho voluto aprire con questa affermazione per poter portare un esempio efficace di come gli approcci della critica femminista ai media siano molteplici, se non contradditori. 

Da tempo la teoria femminista ha riconosciuto nei fenomeni mediatici un sito di produzione delle tecnologie di genere. La comunicazione di massa viene dunque indagata come un luogo del discorso in ci si intrecciano significati e valori che riflettono e producono la realtà sociale. Senza naturalmente ignorare l’esistenza e l’importanza dei fattori materiali e esperienziali che vanno a sostenere lo sviluppo della soggettività e dell’identità di genere, ci si confronterà qui di seguito con una visione della relazione genere/media sostanzialmente culturale. 

Una visione attenta quindi a ciò che rientra nella costruzione del simbolico, dei significati e dei valori condivisi nei processi di socializzazione.

Un primo approccio teorico (potremmo chiamarlo della “trasmissione”) tendeva a inscrivere la comunicazione in un canale di trasmissione univoco: il messaggio veniva prodotto e quindi diffuso. La critica perciò tendeva a focalizzarsi sul processo di produzione del significato, lasciando in ombra il polo della ricezione, considerando lo spettatore un ricettacolo passivo. Una visione di questo genere non può contemplare l’effetto polisemico insito nella ricezione. Il fatto cioè che anche il ricevente sia parte del processo di elaborazione del significato, il fatto che un testo non possa giungere “intatto” al destinatario. 

Il processo di comunicazione andrebbe quindi problematizzato. 

È soprattutto Stuart Hall che negli anni ‘70 incomincia a diffondere un’idea di comunicazione che segue il modello codifica/decodifica. Secondo questa prospettiva anche il destinatario contribuisce, con la sua personale decodifica, alla produzione di significato e acquistano peso le variabili derivanti dal contesto di ricezione e dal cotesto di produzione. Se si considera comunque il punto di vista della trasmissione, la critica femminista che ne scaturisce punta il dito contro l’effetto di distorsione. 

Si dice, in sostanza, che dai media viene diffusa un’immagine stereotipata, “sbagliata” della donna. 

Un prima replica a questa posizione potrebbe venire dal considerare il fatto che gli stereotipi spesso sono la controparte di effettive realtà sociali. Se quindi la donna viene rappresentata come madre e casalinga è pur vero che molte donne sono madri e casalinghe. Ma questa replica non è poi così efficace se si pensa agli effetti omologanti dello stereotipo. Chi sottolinea gli effetti negativi della distorsione potrebbe infatti ribattere che se è vero che molte donne sono madri e casalinghe, sarebbe forse meglio evitare quello stereotipo che prospetta alle donne un unico orizzonte. Nessuno nega che sarebbe auspicabile diffondere un messaggio più rispettoso delle differenze, tuttavia, a nostro parere, il vizio più pericoloso insito nella critica all’effetto di distorsione è nel ricorso all’essenzialismo. 

Se si pensa che quella diffusa dai media sia un’immagine “sbagliata” della donna, allora chi decide quale dovrebbe essere quella giusta? 

Per evitare la distorsione si dovrebbe ricorrere a una distinzione tra i generi, facilmente identificabile, che dovrebbe essere rappresentata correttamente. La risposta rischia di diventare un nuovo punto di vista, altrettanto parziale e normativo proprio perché altamente codificato. Anche se fossero le stesse donne a codificarlo, i problemi non si esaurirebbero.
A questo proposito è sicuramente da favorire una più alta presenza di donne nel polo della produzione mediatica, ma non si può sperare che questo risolva tutti i problemi. 

Sarebbe ancora una volta un cadere nell’essenzialismo pensare che le donne possano apportare un loro specifico taglio alla comunicazione, naturalmente diverso da quello maschile. A parte il fatto che questa speranza non è confortata dalle ricerche sul campo, il suo realizzarsi sarebbe un perpetuarsi della dicotomia di genere. Non bisogna poi tralasciare il fatto che il genere non può essere l’unica dimensione rilevante, se si vogliono considerare anche la razza o la sessualità.

In generale bisogna avere l’onestà di considerare il fatto che siamo tutti inseriti nello stessa rete di potere; è importante tenere in considerazione questo fatto sia quando si parla della percentuale di donne impiegate nella produzione mediatica, sia quando si pretende di fare della critica alla produzione mediatica stessa. Per muovere una critica al discorso si rischia sempre di perpetuare i termini stessi del discorso che si vuole criticare. Lasciandoci dietro l’illusione di poter fare del metadiscorso, crediamo valga comunque la pena di pensare a una critica di ciò che la comunicazione ci offre, indagare il polo della ricezione, pensare a nuove modalità di ascolto, e magari proporre nuove forme che tengano conto di tutte quelle variabili che porterebbero allo scoperto ogni tipo di instabilità e contraddizione insita nelle soggettività.


Elisa A.G. Arfini

 
 

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