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Parte II 

Colloqui con le stelle

Gennaio del 1914 ore diciassette, a Roma, terza saletta d'Aragno semideserta. Ogni volta che una bussola della strada si apre per lasciar passare qualcuno, s'avventa nelle sale lo scroscio della pioggia e una buffata d'umidore freddo. Un avventore incappottato, volto largo dai lineamenti marcati, viene ad affacciarsi alla porta e guarda distrattamente in giro. Un bel giovane, moro, seduto a un tavolo a scrivere, alza gli occhi, lo vede e gli grida: 

— Bruno! 

— Nino! 

Si abbracciano. Seggono accanto. 

Nino Guevarra. — Da due anni, quasi, non ci si vede. 

Bruno Soveria. — Due anni... e non ti sei fatto mai vivo. 

Nino. — Veramente io ti scrissi, ai primi di giugno del 912, dopo... Tu, piuttosto non mi hai benignato mai di una risposta. 

Bruno. — Non sapevo dose scriverti. Seppi che da Tripoli eri passato nella penisola balcanica, lessi parecchie tue corrispondenze, fino a qualche mese fa, dal fronte bulgaro; ma eri un po' qua, un po' là. Scrivevi? ti disturbo? 

Nino. — (Ricoprendo vivamente lo scritto). Sì... una lettera... ai miei. E tu? 

Bruno. — Io venivo per un appuntamento con Carlo Quilici, che ha molto bisogno di essere aiutato. Parlami di te. 

Nino. — Oh, io... le mie giornate, in fondo, variano poco: belle, mediocri e brutte. Queste ultime sono, per fortuna, le meno: io m'ingegno a renderle tutte belle. 

Arriva Carlo Quilici, senza paletot, camicia estiva, vestito quasi alla corda, cappelluccio tondo unto. Un po' dimagrito, ma sempre bello sotto la zazzera ben curata da artista 1830. Si ritrovano, egli e Nino, dopo tre anni. Si abbracciano festosamente. 

Carlo. — Sei sempre lo stesso dandy, tu. Accidenti! dammi la ricetta per non mancare mai di nulla. Noi, qui, manchiamo tutti di qualche cosa: io di carta moneta, Bruno di buon umore... Di' Bruno, che hai fatto per me? 

Bruno. — I miei amici del giornale mi dicono che possono impegnarti soltanto per traduzioni da giornali e riviste americane ed inglesi. Per ora, cento lire al mese. 

Carlo. — Ti sono grato, Bruno; per ora… è una ricchezza. Ti sono grato davvero, io! 

Nino. (Li guarda in faccia, crede di aver capito e vuoi cambiar tema). Quale giornale, se è lecito? 

Bruno. — «Il Pensiero Italiano». 

Nino. — Ne ho visto i primi numeri. Si pubblica da poco, mi pare. Ci sei anche tu, Bruno? 

Bruno. — Sì, ho contribuito a fondarlo, e vi faccio la politica estera. 

Nino. — Oh, dimmi, dimmi... mi fa piacere. 

Bruno. — Prima finiamo di parlare di te. 

Carlo. — Sì, vorrei sentire anch'io qualche episodio della tua vita internazionale da Casanova… 

Nino. — (Ridendo). Casanova, poi!... 

Carlo. — Diciamo allora da lord Brummel. 

Nino. — Ho fatto il corrispondente di guerra, ecco tutto. Ovunque, a Sofia come ad Adrianopoli, a Uskuib come a Salonicco, ho visto che gli uomini valgono poco ed ho incontrato bambine graziose, fatte per l'amore: il turco è il più civile dei popoli balcanici o per lo meno il più educato, perché ci ha più lunga abitudine all'impero e al dominio; la donna, bulgara o greca, serba o albanese, ha sempre un suo fascino. Ogni donna sa essere interessante e diversa, purché si sappia in lei far vibrare la corda nascosta. Poiché la donna è una dolce anfora di liquori e di aromi e nello stesso tempo di musiche. 

Carlo. — Senti, senti il dannunziano! E' una definizione da bar. Per me la donna non è che un buco circondato di carne. 

Bruno. — (Triste). Come mentisci! Perché, allora, vai ogni giorno al cimitero, sulla tomba di quella che si dice fosse la tua fidanzata? 

Carlo. — Storie! E poi, quella… era un'altra cosa. 

Bruno. — Forse sono tutte… un'altra cosa. 

Carlo. — Voglio credere che tu non andresti ugualmente sulla tomba della tua ex- fidanzata... se morisse. 

Bruno. — (Impallidendo). Ti prego! (un silenzio impacciato). 

Nino. — (Gualcisce e mette in tasca la lettera interrotta). 

Carlo. — Di' su, Nino, e dopo la guerra balcanica dove sei stato? 

Nino. — (Esitante). A Rodi... in Cirenaica... 

Carlo. — Non sei andato anche a Tunisi? 

Nino. — (Guarda di traverso Bruno che si turba maggiormente e cerca darsi un'aria schizzando con la penna qualche testa sul marmo del tavolo). Sì... sono passato per la Tunisia. Ma non mi sono soffermato che una settimana. 

Bruno. — (Intento ai suoi disegni). Chi hai visto? 

Nino. — Parecchi degli amici di allora... Ricchieri, Costantini, Guerini... Mi ha parlato di te con tanto affetto. 

Bruno. — (Animandosi). Che caro uomo! E poi? Chi hai visto d'altri?... Tommaso Casazza? Nino. Sì, ma... Non abbiamo affatto parlato di te. 

Bruno. — Lo credo bene. Non ne avrebbe il coraggio! 

Nino. — Tu sai allora... Ma, del resto, credo che ne abbiano fatto cenno anche i giornali. Bruno. — Di che? 

Nino. — (Dopo una breve esitazione, decidendosi). Bisogna che una buona volta tu lo sappia. Tommaso si è ammogliato. 

Bruno. — A Tunisi o nel suo paesello natio? 

Carlo. — Oh, quello non è certo individuo da sposare al suo paese. 

Nino. — Bruno, promettimi di prenderla con filosofia... Io ero convinto che tu già sapessi. 

Bruno. — Che cosa? Ma parla, dunque: trattandosi di colui, è meglio sbrigarsi presto. 

Nino. — Da un anno, circa, Casazza ha sposato la signorina Stefanovich. 

Bruno. — Myriam? (dopo un momento, prorompe in un riso convulso). Ah, ah è bellissima! è magnifica! Un altro motivo di riconoscenza verso di me: e quindi ora mi odierà il doppio. 

Nino. — Tu eredi che ti odii? Eppure posso dirti che egli mi ha fatto capire di essere molto addolorato per te... di sperare che tu non gli serbi rancore; ma dopo che la signorina aveva rotto il fidanzamento con te... 

Bruno. — (Alzandosi). Ah, rotto lei? Così? Dice così? Può darsi. La verità, ormai, non è più dalla mia parte: mi vado abituando. Ti dispenso dai particolari, Nino; li immagino... 

Nino. — Mi sono deciso a dirtelo anche per evitare che tu, domani, incontrandoli, provi una scossa troppo forte... 

Bruno. — Incontrarli, e perché? Io spero che il destino non me li conduca più tra i piedi. 

Nino. — Eh, no: fra pochi giorni essi saranno a Roma... per rimanervi. Tommaso va, come redattore capo, al Corriere Italiano. 

Carlo. — Accidenti, che carriera rapida! Corre come una lepre... o come un cervo. 

Bruno non dice più nulla. La conversazione cade. I tre amici prendono appuntamento pel giorno dopo e si separano. 

*** 

S'è sposata. E' chiaro: cercava un marito. Con Tommaso Casazza: più chiaro ancora, il marito che ci voleva per lei. Con costui si potrà parlare senza sottintesi, buttando le carte in tavola. Proprio lui, Bruno, li aveva gettati l'una nelle braccia dell'altro a poco a poco, dopo aver elevato Casazza a suo confidente intimo: «Tommaso, va da Myriam, ora che sai tutto, ora che ti ho fatto capire come è andata la storia del mio ferimento e dille che in queste ore d'angoscia non mi resta che lei, ma mi basta il conforto del suo amore, la gioia unica della sua passione!» E Tommaso va, prima di tutto dal console generale e apprende che, dopo la pubblicazione semi-velata della Depêche, Soveria ha poche probabilità di ritornare quello che era — l'uomo del giorno, l'idolo della pubblica opinione — e che quindi è molto difficile che possa continuare a essere utile. E' più attendibile, invece, che diventi un amico pericoloso, di quelli che bisogna aiutare a costo di sacrifici, rischiando il posto procurato da lui stesso e la carriera, così faticosamente cominciata. 

Meglio, dunque, accontentare la direzione del Corriere Italiano e ben meritarne compiendo un brillante servizio giornalistico: dare, cioè, per primo in Italia la vera versione del fattaccio. Subito telegramma al Corriere Italiano, dunque. Poi, dalla signorina Stefanovich. Essa è in uno stato di abbattimento profondo, forse ha pianto, si è disperata. Tommaso Casazza è l'amico di Bruno, — essa pensa — porterà notizie di lui, verrà a dirle — chi sa? — che è sempre amata e desiderata, malgrado tutto... Ma Tommaso porta brutte nuove. Ha altro da fare, Bruno, che pensare a lei; è alle prese con la polizia francese. E' un delinquente? Pare. E non ritornerà a lei? Vedremo. 

Non è ritornato, e lei non l'ha cercato. Lo scandalo ora irrita ed esalta Myriam e Tommaso non manca mai di consolarla a suo modo. Che bel partito, Myriam! Aveva tentato un gran colpo quel Bruno, che in tutte le sue cose andava col vento in poppa. 

Consolarsi a vicenda, scambiare parole di stima, negli incontri sempre più frequenti. Cogliere finalmente all'improvviso negli occhi del consolatore uno sguardo che ne rivela le intime intenzioni. Perché no?... Giornalista, carriera perfettibile... 

— Sareste capace di affezionarvi a una donna, senza mai chiederle nulla, una donna che ha avuto delle sciagure, che esce da una bufera come questa? 

— Oh, io saprei anche adorarla! 

— Sapreste essere quel che non fu Soveria? 

— Certamente. 

— Io non vi amo, né mi piacete. Ma ho stima di voi (stima!). Noi potremo essere due buoni amici per tutta la vita. 

Tali, certo, le parole. Ma i pensieri, senza veli, più infami. «Così, Bruno, la mia più bella vendetta: colei che doveva essere tua moglie con colui che non fu tuo amico. Un uomo, un marito bello, o ricco, o degno, un marito qualunque, ti farebbe soffrire meno». 

Oh la conclusione delle avventure, delle grandi avventure! 

*** 

Lettera di Alba a Bruno: 

«Fratellino — mamma Vittoria m'incarica di scriverti. Essa, lo sai, non può scrivere, né leggere agevolmente, per quella fastidiosa rete nera che vede sempre dinanzi ai suoi occhi. Siamo assai malinconiche per la tua nuova assenza, che si protrae troppo più del previsto. La casa è triste, con noi tre donne sole; più sole perché anche la mia famiglia è ridotta al minimo. Mia madre quasi per l'intera giornata è sacrificata con Cavour alla fabbrica, che rende poco e che è causa soprattutto di preoccupazioni e sacrifizi; gli altri miei fratelli, uno militare, l'altro in giro pel mondo — dice — dietro una fortuna prossima; Stella sorella di carità; Diana con suo marito traslocato a Catanzaro; la nonna, vecchissima, si sforza con la serva a badare alla casa. 

«Mamma Vittoria è sconfortata anche per le notizie che giungono da tuo zio Giovanni. La zia Carmelina è di nuovo attaccata dal suo terribile male e questa volta, pare, senza speranza di poter sottoporsi a una nuova operazione. Lo zio non manda più un soldo di quel che vi deve, e lascia invece andare in protesto le cambiali avallate da te o da mamma Vittoria. 

«Si contava sulla tua riassunzione al ministero degli Esteri, per decidere se non convenisse alla tua mamma lasciare qui tutto e venire e stabilirsi presso di te. Io ne sarei tanto contenta per voi; ma ti confesso che mi addolorerebbe troppo restare qui, separarmi dalla mia adorata madrina, non dovervi rivedere forse mai più. Notti fa ho sognato cose bellissime... Ma non te le dico, perché temo che tu ti burli di me, tu che hai già detto che i miei sogni sono fatti di troppe rose o di romanticherie che non s'avverano. Ti dirò soltanto che mi pareva di essere proprio tua sorella, di portare il vostro nome, di avere il diritto di seguirvi ovunque. 

«Io finirò, con quest'anno, i miei studi normali: ma mia madre vorrebbe che proseguissi nelle scuole magistrali. Mamma Vittoria non vuole: dice che una donna non deve essere troppo istruita e che, a ogni modo, lei non mi permetterebbe di fare la maestra di scuola. Dice, però, che debbo a qualunque costo proseguire nella musica. Trova che suono bene il piano. (Nota della mamma: benissimo! è un'artista!). 

«Scrivici che verrai presto, Bruno: la mammina tua, che è qui accanto a me, mi dice anzi di convincerti a tornare per non lasciarci più più! «Baci e baci da lei e uno dalla tua sorellina ». 

Risposta di Bruno: 

Roma, marzo del 1914 

«Albetta, sorellina — quanta dolcezza nel tuo nome, nel tuo scritto, nei tuoi caratteri, nell'inchiostro con cui scrivi, nel fogliettino celeste, colore dei tuoi occhi! Sapessi che bene mi è velluto dalla tua innocenza! Hai tredici anni e in un rigo è come se ne avessi sempre tre e in un altro come se ne avessi ventitre. Come sarai, adesso? Ho tanta curiosità di rivederti. Sei sempre magrolina e piccoletta, quale ti ho trovata al mio ritorno da Tunisi e ti ho lasciata un anno e mezzo fa ripartendo per Roma? O sei cresciuta e cominci a diventare signorina? 

«Io debbo ancora restare qui, non so fino a quando. Non perché abbia probabilità di riprender servizio al Ministero degli Esteri: il principe sottosegretario mio amico è sempre molto buono verso di me, ma mi dice che senza una sentenza che definisca la mia situazione o almeno senza la decisione favorevole di un'inchiesta, non è possibile. L'inchiesta finora non ha concluso nulla e non concluderà prima dell'allontanamento da Tunisi del console generale che si dimostrò tanto amico mio... 

«Ma ripeto, la ragione principale della mia permanenza a Roma sta ora negli impegni che ho assunto verso il nuovo giornale: Il pensiero italiano di cui sono anche comproprietario. In questo momento così difficile politicamente non posso abbandonare, neppure per pochi giorni, il mio posto. Ma è certo che verrò nella prossima estate fine di luglio, primi di agosto — per restare con voi almeno due mesi e dopo... Dopo, chissà se non si presenti davvero l'occasione di trapiantarvi a Roma. Dico proprio di trapiantarvi anche te, Albetta. Domanderemo il permesso alla tua mamma che, del resto, di figliuoli ne ha tanti, mentre la mia non ha che me solo, e così cattivo per giunta. Tu devi essere e sarai sempre la sua consolatrice, la soavità della nostra casa; tu devi restituirle un po' di quel sorriso che mamma Vittoria merita e che io le ho tolto. Non ti ha, anzi, essa proposto più volte di adottarti e darti il nostro nome, proprio come tu hai sognato.? Ecco che, una volta tanto, uno tuo sogno si avvererebbe. Quel che non si avvera è il mio volo: tutti i grandi volatili hanno ormai per me le ali tarpate. 

«Saluti ai tuoi. Mille baci alla mia mamma adorata. Uno sulla tua testolina dal tuo perverso fratello». 

*** 

Si ritrovarono un giorno festoso di primavera, Bruno e Nino Guevarra, a un tavolo del Faraglino, in piazza Sciarra, nella prima saletta. Nino era pieno di soldi e di buon umore. Sedettero con loro anche Silvio Marotta e Francesco Tropea, l'uno diventato professore, l'altro vice bibliotecario. Parlarono di teatri, d'arte, di cose belle. Bruno si sentì, per la prima volta dopo due anni, di buon umore come i suoi amici. 

A un tratto Nino si alzò per prendere un giornale dalla rastrelliera nel vano tra la saletta e la sala attigua e, avendo guardato in questa, fece un'esclamazione e mosse verso qualcuno che dal tavolo degli amici restava invisibile. Bruno domandò dopo un momento: 

— Che fa lord Brummel? Ha gittato l'ancora? 

Silvio s'alzò sorridendo per andare a chiamarlo; si affacciò dalla soglia; ma, appena guardato nella ala attigua, il sorriso gli si gelò sulle labbra, salutò col cappello in fretta e ritornò senza dir nulla, anzi evitando di alzare gli occhi su Bruno. 

— Ma chi c'è? — chiese costui, faceto. — Medusa? 

E fece per alzarsi; Silvio però lo trattenne. 

— Non è nulla... — spiegò, impappinandosi — è con una signora... degli amici... capirai, sarebbe indiscreto. 

Involontariamente Bruno si fece brusco: respinse il gesto di Silvio e corse a guardare. Fu lui Medusa pei tre, seduti al tavolo di fronte alla grande vetrata sulla strada: Nino, una signora, un uomo — Myriam, Tommaso Casazza. Sentì dapprima il suo cervello come strizzato da cappi di corda, mentre tutti suoi muscoli s'irrigidivano. Vide Tommaso farsi morto e giallo come un limone e Myriam alzare e abbassare gli occhi con moto quasi meccanico. Egli mosse uno, due passi in silenzio. Tommaso si buttò indietro sulla sedia; Nino si alzò; si alzò di balzo anche Myriam e disse, abbozzando un sorriso nel pallore della faccia: 

— Buon giorno, Soveria. 

Egli si soffermò; i suoi muscoli si allentarono; I suo cervello si allargò, vide chiaro, gli impose: «non fare sciocchezze!» e scoppiò a ridere, rispondendo: 

— Oh, buon appetito! 

Frattanto Nino lo prendeva dolcemente a braccetto e lo conduceva di là. Non parlarono, pel momento. Ma, usciti insieme, Nino e Bruno, appena soli per via si guardarono 

— Tu sei loro amico — domandò Bruno — molto amico? 

— No, Bruno... — rispose Nino con voluta leggerezza — il caso tuo mi ha insegnato che non bisogna essere molto amici di Tommaso. Ma non posso evitarti come infetti, capirai. E poi ti consiglio di non drammatizzare le cose. 

— Vorresti che io fossi indifferente? Va, va da loro, Nino.., io te li abbandono. 

— No, ti prego... Vorrei che non ti ci addentrassi troppo. Stammi a sentire, Bruno: non pretendere che io sia villano, anche con una signora che non mi ha fatto nulla di men clic gentile. Tu l'ami ancora? Dimmi la verità. 

— No — rispose Bruno fissandolo — perché mi fai questa domanda? 

— Così… per avere un'idea dei tuoi sentimenti. Ma se tu attendi una rivincita, ti dirò che essa non è affatto felice, che non sarà mai felice neppure Tommaso, a meno che non si contenti della dote e del lustro che un simile matrimonio potrà dargli. 

— Vedremo — rispose Bruno distratto. E per quel giorno non ne dissero altro. Stettero insieme fino a tardi, tornarono a discorrere di politica e di arte, e basta. 

Pochi giorni dopo, Bruno fece un altro incontro. Stava all'Aragno, nella sala grande, affollatissima per l'ora dell'aperitivo, a un tavolo animato di giornalisti, quando gli si presentò un signore. 

— Scusi, è lei il signor Soveria? — chiese lo sconosciuto cavandosi garbatamente il cappello. 

Mentre rispondeva di sì e domandava con chi avesse l'onore, Bruno cercava ricordarsi ove avesse già visto quella faccia paffuta, quel naso a due curve e quel porro peloso che prolungava i baffi da un lato. Il signore spiegò: 

— La mia signora desidera salutarla. Dice di averla conosciuta a Parigi: lei è stato molto gentile, allora. Io sono Catalano, suo conterraneo. 

Annie: quante cose rievocò in un lampo, appena quel nome gli si fu affacciato nella memoria. Si alzò e, dietro l'amabile Catalano, giunse al tavolo ove ella sedeva, insieme con altri due signori, e lo guardava appressarsi sorridendo, rossa di piacere e brillando per gli occhi, dietro la veletta a rete e a mosche nere. Era ingrassata, ma più florida e bella, ed elegantissima. Stringendole la mano, Bruno le fissò avidamente le labbra, divenute più rubiconde e carnose forse per l'esercizio dei baci. 

— L'ho veduto a quel tavolo e l'ho indicato a mio marito; s'accomodi un momento con noi — disse. Parlava italiano, ora, stentando un poco, ma mettendovi un accento musicale e liquido di r che era una delizia. 

Presentati i due signori conoscenti e compaesani di Catalano, uniti momentaneamente a lui nel finanziamento di un grosso affare di vini di Riposto, la conversazione, gravida di ricordi, si animò. 

— Non è più ritornato a Parigi? 

— No. Ma spero sempre, prima o poi, ritornarvi. E loro? Sono ora stabiliti in Italia? 

— No: siamo in gita di piacere e di affari. Mio marito ha voluto condurmi nella sua Catania che io non conoscevo e dove i suoi parenti mi hanno fatto molta festa. Siete assai gentili e ospitali voi siciliani. E che bei paesi! 

— Sì, siamo abbastanza gentili… con gli ospiti; ma lo siamo meno tra noi stessi. E si fermeranno molto a Roma? 

— Chi sa? Un mese, due ancora… il tempo sbrigare un affare importantissimo. Può darsi che Catalano ritorni in Francia per alcuni giorni e mi lasci qui. Io vorrei passare l'estate a Viareggio o a Venezia, che mi dicono così piacevoli nella stagione balneare. 

Uscirono insieme quando cominciava a far sera. Bruno, accompagnando gli amici all'hotel Marini, si trovò solo, avanti, con Annie. Catalano seguiva, discorrendo, coi due soci. 

— Dimmi che ci vedremo qualche volta, da soli, — le disse egli a mezza voce. 

— Non appena Catalano sarà partito, certamente. Eviterò anche la sorveglianza dei suoi amici che hanno delle velleità. Per ora no: sarebbe pericoloso. Ti avvertirò a tempo, non dubitare. 

Erano proprio passati quattro anni? L'animo ritornava quello d'allora, continuava il dolce episodio con l'amica di rue Ménilmontant, stringendo a nulla la parentesi di tanti altri episodi... Ma c'era pure una scontentezza, come spiegarla? un desiderio mal chiaro di eventi migliori, un dibattersi — quasi — di una cosa alata nel cuore.

II

La riabilitazione di Bruno Soveria venne: inchiesta del Ministero e inchiesta giudiziaria conclusero con un non luogo a procedere per inesistenza reato. Ma egli non ne gioì: pochi giornali se ne occuparono e svogliatamente, di volo. Essa non ebbe la vasta ripercussione che aveva avuto la notizia del suo delitto, anche per sua indolenza. Lo lasciò perplesso anche l'offerta del Ministero di riammetterlo, ma in servizio interno negli uffici, senza possibilità — almeno per due anni — di una destinazione l'estero. 

Capitò anche nel periodo delle cosiddette giornate rosse di Romagna, quando il paese parve sconvolto da una ventata rivoluzionaria. La sua passione giornalistica gli fece in quei giorni trascurare i suoi interessi: finì col chiedere e ottenere un'aspettativa, e si cacciò invece a oltranza nella lotta politica. 

Peppino Foresi gli scrisse, in quei giorni: 

«Leggo i tuoi magnifici attacchi alla demagogia romagnola, alla fiacca politica del governo, e dal mio eremo vibro con te di febbre combattiva. 

«Se puoi, aiutami a uscire da questa morta gora. Voglio, voglio finalmente fare qualche cosa anch'io: venire al tuo fianco mi sarebbe d'incitamento a vivere. Ti avevo promesso d'interessarmi agli affari di mio suocero, di aiutarlo ad amministrare e ad accrescere pei miei bambini la dote di mia moglie, e nello stesso tempo occupare i miei brevi ozii con l'arte. Ma ti confesso che la vita dei campi non mi ha preso, che le mie giornate — a eccezione di tre o quattro — sono state una serie quasi ininterrotta di ozii, neppure virgiliani o oraziani, poiché non sono riuscito a mettere insieme più di cinquanta versi, e mediocri per giunta. 

«L'entusiasmo vero, ora, lo sento per quello che fai tu, che pensi tu. Sono disposto a vivere, anche di pochissimo, ma da giornalista e da uomo d'azione. Se ti è possibile trovarmi un posticino al tuo fianco, che mi permetta di fare da me, senza nulla chiedere pel mio mantenimento alla mia famiglia, scrivimi o telegrafami un sì, e io verrò — sicuro di trovare la mia via — immediatamente». 

Bruno gli rispose: 

«Ti credo; ma non ho fiducia nella costanza della tua temperatura febbrile, né nella vitalità dei tuoi entusiasmi, né nelle tue possibilità attivistiche. Siccome, però, il lavoro nel giornale è aumentato e sono aumentati anche gl'introiti, è opportuno assumere personale nuovo. 

«Se sarai capace, vecchio spendaccione, di contenere le tue esigenze nei limiti economici che il nostro amministratore potrà assegnarti, vieni pure battaglieremo insieme». 

Ma di battaglie, Peppino, non fece che i preparativi: si chiuse in redazione, di fronte a Carlo Quilici che traduceva dai giornali esteri, e — dopo due giorni di tentativi per mettere su un articolo, per fare una noterella, per cucinare la «Stefani» — si ridusse a correggere bozze. Ogni tanto interrompeva per tentar di polemizzare con Carlo, che fremeva constatando di ora in ora il forcaiolismo degli articoli di Bruno. Ma Peppino non riusciva a tenergli testa. Lo sgomentavano e lo ammutolivano citazioni di Gian Giacomo Rousseau, di Lassalle e di Marx. Quanto a Sorel non sapeva neppure chi fosse. Finì con lo sbadigliare spesso. Il quarto giorno propose a Carlo una partita di parigina, al bigliardo ch'era lì a due passi. 

*** 

Pochi colpi di rivoltella, ma che rintronarono per tutta Europa, da Serajevo. L'eco di essi si spandeva più spaventosa, come tuoni, per ogni giorno che passava. Gli italiani, sulle prime, non li udirono abbastanza, occupati ancora tutti quanti com'erano a discutere delle repubbliche del forlivese: ma Bruno si trovò fra i pochissimi che ne previdero e ne ammonirono le vaste conseguenze e, giorni dopo, tra i meno ancora che non urlarono d'indignazione contro l'ultimatum austriaco alla Serbia. 

«La Serbia — scriveva sul Pensiero Italiano — è sempre stato il punto debole dell'Europa. E' là l'epicentro dei terremoti politici e bellici che hanno fatto traballare il nostro continente nell'ultimo cinquantennio e che forse lo sconvolgeranno quanto prima. La Serbia tende ad assorbire la parte slavo-adriatica dell'impero austro-ungarico; ma per la tranquillità del mondo sarebbe forse preferibile la realizzazione del sogno trialistico dell'arciduca ereditario ucciso: l'assorbimento della Serbia da parte dell'Austria- Ungheria». 

Parvero, queste affermazioni, scandalose ai giornali massonici, liberali e d'estrema sinistra, che si scagliarono contro l'articolista del Pensiero italiano. Ma egli tenne testa a tutti, anche a Carlo Quilici che strepitava: «Ci si crederà assoldati da Francesco Giuseppe!» 

Allo scoppio della guerra e all'invasione del Belgio, fu peggio. Egli scrisse che, in fin dei conti, l'Inghilterra non aveva il diritto d'invocare, a scusa del suo intervento, la violazione della neutralità belga, il sopruso del forte contro il debole, proprio essa, maestra di violazioni e di soprusi. Un giornalista inglese, mister Graham, corrispondente da Roma, lo mandò a sfidare. Egli scelse a padrini Nino Guevarra e Gino Arguti, suo collega sportivo e bellicoso. 

— Sta bene; — gli disse Nino ma bada che io non condivido affatto le tue opinioni. Tu sei dalla parte dei barbari, mentre noi latini non possiamo essere che dove è la Francia, faro di civiltà, antesignana di bellezza. Mi sorprende di non saperti più ammiratore e innamorato della Francia. 

— Io amo sempre la Francia; — spiegò Bruno — ma un conto è il sentimento, un altro la politica. 

— Non è giusto che tu difenda la Germania, cheri! — gli diceva Annie, quando si vedevano. — Sono dei feroci, non vedi? 

— Ciascuno ha la propria ferocia, Annie, rispondeva Bruno, evasivamente. 

Si stabilì lo scontro, poiché l'inglese s'era mostrato restio a ogni proposta di accomodamento dei quattro padrini: anzi, dopo copiosi aperitivi di wiskey and soda, aveva strepitato che lo facessero battere alla pistola, a dieci passi, avanzando e facendo fuoco a volontà. Ma la mattina dopo, a mente più serena, si era lasciato indurre a propositi quasi miti: sciabola, esclusione di puntate, guanto da fioretto. 

Si batterono. Bruno ne scrisse così, l'indomani alla mamma, che gli aveva subito telegrafato alla pubblicazione della notizia sui giornali: 

«E' stata una vittoria facilissima: il mio avversario era barcollante e puzzava di alcool alla distanza di due sciabole. Certo ho dovuto faticare, e con me i padrini, per difendermi da certi suoi colpi tirati alta cieca, scoprendosi ogni momento, e per non infilzarlo. Ma alla fine, stanco, gli ho lasciato andare un traversone alla fronte... Con gli occhi coperti di sangue e gli occhiali penzolanti da un orecchio, voleva ancora scagliarmisi contro, borbottando: All right! all right! L'hanno trascinato via a viva forza e affidato alle mani dei medici. Ma il copioso salasso giovò almeno a calmano e a fargli venir fuori dallo spacco alla testa i fumi malefici. Mi fece chiamare e volle stringermi la mano dicendomi quasi con dolcezza: Amici, eh? Le parole gli uscivano di sotto i baffoni rossi filettati di bianco, che nascondevano la bocca. Mi dolsi di averlo ferito e, ricambiando la sua stretta, mi accorsi di non odiare neppure gl'inglesi». 

Veramente, Bruno aveva ricordato, d'improvviso, la frase di Sidi Ibrahim: «Talvolta un uomo può valere più di una nazione... ». E quell'uomo ferito, risalito d'un tratto — quasi bambino — per la sua debolezza, alla semplicità primigenia, acquistava ai suoi occhi un valore sentimentale incalcolabile. 

La sera, accompagnato da Peppino Foresi e da Silvio Marotta, andò in cerca di Nino, che doveva consegnargli il verbale dello scontro e non si faceva vivo. Lo trovò al Faraglia, in un crocchio ove si discuteva animatamente: stava accanto a una signora, seduto di fianco sul sedile per guardarla, parlandole. Al suo apparire, però, la discussione s'interruppe e tutti gli occhi si fissarono su lui. La signora era Myriam. E Myriam diventò pallida, ravvisandolo. Anche lui, Bruno, si sentì scolorire e ne provò dispetto. Guardò Tommaso Casazza, che era pure nel crocchio e che cercava darsi un'aria, mentre la voce di Peppino Foresi gli gettava nell'orecchio una domanda concitata. 

— Chi è quella donna meravigliosa? 

Finse di non udire; ma se ne irritò e con aria impertinente gridò verso Nino: 

— La bella compagnia ti fa dimenticare gli appuntamenti? 

Nessuno ribatté. Nino stesso si alzò, impacciato, balbettando: 

— Scusino... — salutò e venne a lui. Lo condusse fuori e gli disse con aria stentatamente scherzosa: 

— Non t'accorgi di diventare inurbano? Si direbbe che tu sia geloso... 

Quella parola imprudente fu una mazzata sul cranio per Bruno. Davvero lo si poteva credere capace di tanta bassezza? Geloso della donna dall'oscuro passato, della figlia del finanziatore del contrabbando pei turchi? Se altri pensavano questo, era segno che, loro, ne sarebbero stati capaci. Peppino vedendola per la prima volta, l'aveva trovata meravigliosa, con un ardore, un fuoco, da dare ai nervi... 

— Capirai, — spiegava Nino — Casazza è il mio redattore-capo... E sua moglie è onnipossente presso il consiglio di amministrazione. Si parlava proprio di te; la signora riconosceva che sei un valente duellista. 

Pochi giorni dopo anche Peppino si fece sorprendere in compagnia di Tommaso e di sua moglie. Non ne parlarono; ma Bruno lesse nella faccia dell'amico un turbamento profondo. E quello stesso turbamento riconobbe in sé, a pensare che infatti Myriam era meravigliosamente bella e desiderabile, che egli l'aveva perduta per una sciocchezza nel momento che avrebbe potuto farla sua, che la gioia di possederla — soltanto di possederla — era riservata ora ad altri, a chiunque, e vietata a lui solo. 

*** 

«Ritornare a casa in questi momenti? Impossibile!» Scriveva Bruno alla piccola Alba e alla mamma. «Vi prego di non insistere. Sono troppo impegnato in una battaglia decisiva, benché combattuta per ora senza cannoni, ma con le parole e gli scritti. Sono stato l'oratore in due comizi contro l'intervento accanto all'Intesa, faccio parte, la più attiva, di un comitato Per gl'interessi nazionali, vedo quasi ogni giorno le personalità parlamentari più in vista avverse alla politica oscura e tentennante del Governo. Gioco una grande partita difficilissima, ma che più mi appassiona per le sue difficoltà e di cui sarà maggiore in ogni caso il merito dell'improbabile vittoria, poiché da ottenere contro i più; contro l'accorta diplomazia anglo-francese, contro le stesse preferenze dei tre quarti degli italiani». 

La mamma non comprendeva, non giustificava, aveva anzi paura. «Lascia stare. I più hanno sempre ragione. E poi, perchè preferire gli uomini degl'imperi centrali, così crudeli, che tagliano le mani ai bambini?» 

Eh sì, quest'argomento aveva fatto breccia anche nel cuore della mamma. 

Annie, che continuava a vederlo ogni tanto, approfittando delle assenze ripetute del marito, lo trovava distratto e poco comunicativo: 

— Che hai, caro? 

— Nulla... Il giornale mi piglia molto tempo. 

Una volta gli disse di punto in bianco: 

— Il tuo giornale è modestissimo; quanto a notizie non può certo paragonarsi ai grandi giornali, che pure in Italia non mancano. 

— Che vuoi? Non ha fondi. Vi abbiamo versato quanto potevamo. Ora va avanti con la vendita e la pubblicità. 

— Perché non procuri arricchirlo di corrispondenze, di servizi, come il nostro Matin... il Petit Parisien?... 

— Perché quei servizi costano. 

Annie, dinanzi a uno specchio, terminava di rifare la sua toilette. Gettava indietro il capo, lo inclinava un po' sulla spalla, studiando l'effetto dei colpi di piumino sulle gote, e intanto diceva: 

— Se tu volessi, io avrei forse il mezzo di ottenere al tuo giornale il servizio di corrispondenza completo di un nostro grande quotidiano, senza alcuna spesa. 

Bruno rimase un momento con le mani ferme sul nodo della cravatta, incapace di rispondere, finché non vide nello specchio gli occhi di Annie che lo fissavano. 

— E con qual mezzo? — chiese. 

— Amicizie. Amicizie mie e di Catalano... Tu comprenderai che in Francia fa piacere che la stampa italiana prenda da noi le notizie... Tanto più che l'alleanza sta per diventare — tutti lo dicono —in fatto compiuto. 

— Così dicono — secondò Bruno; — ma è umiliante, mi pare, dover pubblicare notizie d'una delle parti in guerra... — E che c'è di male? Il tuo giornale andrebbe meglio, e risponderebbe meglio alle simpatie della maggioranza.. Pensa, piccolo mio, che l'amicizia della Francia e dell'Inghilterra è molto più utile al tuo paese... 

— Oh, Annie — tentò motteggiare Bruno, ma sentendosi la lingua asciutta — mi diventi politicante... 

— No, — proseguì la donna graziosa, mettendosi il cappellino — mi adatto all'ambiente: non si vive d'altro, ormai.... Catalano sa che parecchi giornalisti e giornali hanno avuto sovvenzioni: qualcuno è stato addirittura fondato con capitali francesi... 

— Ah! — si lasciò scappar detto Bruno — Tuo marito s'interessa a queste cose, nei suoi viaggi?... Annie aprì la bocca per rispondere; ma. guardatolo in faccia, lo vide così pallido che preferì tacere. Prima di lasciarlo gli disse: 

— Caro, ho dimenticato finora di dirti una cosa che certo ti farà piacere: la tua fraulein Graberg, che un giorno scomodò anche me, ricordi? non è morta. 

— Come hai fatto a saperlo? — domandò Bruno, interessato e deviato quanto lei aveva previsto. 

— Ho letto il suo nome in un elenco di bôches residenti in Francia e mandati al campo di concentramento allo scoppio della guerra. 

— Sei sicura che fosse lei? 

— Caterine Graberg... è proprio il suo nome. 

— Katscha Graberg. Poteva essere un'altra... 

— Katscha è un vezzeggiativo di Caterine: ventiquattro anni. Anche l'età corrisponde, non ti pare? Ma, infine, poteva benissimo essere un'altra, un'omonima, una parente... se tu tieni tanto a crederla morta. 

Era crudelmente ironica, Annie, pronunziando queste parole. Mai Bruno aveva sentito un simile accento nella sua voce. Essa proseguì ridendo: 

— Dovreste essere contento, amico mio, di poter ritrovare una buona conoscenza tedesca, ora che avete tante tenerezze incorruttibili per la Germania. Forse la contentezza sarà oscurata presto dalle notizie meno piacevoli che potrete ricevere — chissà? — sul conto d'un'altra conoscenza: della vedova Reclus e compagni. 

*** 

Infatti, fu una tenda buia sollevata nel suo ricordo. Pensò a tutto quello che ci sarebbe stato di diverso nella sua vita se l'episodio dell'amore di Katscha, cominciato per passatempo, non si fosse concluso in quel modo drammatico, se i suoi rapporti con Edmea Griffith non fossero stati troncati bruscamente. Egli avrebbe avuto un figlio, sarebbe diventato professore alla Sorbonne, poi attachè d'ambasciata, non sarebbe mai andato in Tunisia forse, non avrebbe conosciuto Myriam, non si sarebbe ferito sulla duna tra Gabes e Mareth. Quella duna fatale, ove il vento aveva così presto cancellato l'orma del suo corpo. Somigliava alla sua vita quell'orma nella sabbia, di cui ogni minuto portava via un granello, come in un tempo più lontano era avvenuto dei passi della zia Flavia, sopra i passi delle due bambine. La vita trascorreva tutta, senza lasciare che tracce labilissime, distrutte d'ora in ora da altre, dal vento. Possibile non poter nulla perchè le sue tracce restassero a lungo, impresse nella roccia o nel bronzo, che qualche cosa della sua vita sopravvivesse, ferma nel tempo e nella memoria degli uomini, come le cose che oggi avvenivano attorno a lui e che portavano i nomi di Guglielmo II, di Poincarè, dello zar Nicola, di Hindenburg, di lord Kitchener? 

Nei suoi articoli sul giornale, nelle sue violente filippiche dei comizi sulla guerra, egli discuteva costoro, li trattava da pari a pari, criticava la politica di Salandra e di Sonnino smantellandone le intenzioni. dimostrandone la povertà costruttiva di fronte a quella che avrebbe potuto essere la più grande decisiva azione dell'Italia nell'enorme giuoco mondiale. Ma ciò non bastava. Le parole, contro chi aveva in pugno i mezzi di agire, erano inero fiato, buono soltanto a suscitare applausi o disapprovazioni di poche centinaia di persone, annullate nel cozzo dei popoli. Occorreva fare qualche cosa, cacciarsi non da critico ma da attore negli avvenimenti, determinarli come li aveva determinati l'oscuro studente serbo, con la sua rivoltella, a Serajevo, spalancando un abisso o accendendo un nuovo sole nella storia del mondo. 

— E' Sonnino, — si diceva attorno a lui — Sonnino che nell'ombra prepara il colpo per demolire definitivamente la Triplice Alleanza. 

Sonnino, dunque? Sì, ma, soppresso Sonnino, non sarebbe venuto al suo posto un altro dei tanti che seguivano la stessa via? Nulla di decisivo. Occorreva una determinante ineluttabile, che obbligasse l'Italia a intervenire nel conflitto in nome di un vero e grande imperialismo, che la ponesse — con la Germania e l'Austria — al posto di dominio delle tre nazioni maggiori che oggi dichiaravano di combattere per la democrazia e la libertà dei popoli, mentre possedevano in territori e in vassalli più della metà del mondo; Italia, Germania e Austria, da trent'anni alleate, al posto dell'Inghilterra, della Francia e della Russia. 

Ripeteva queste affermazioni velatamente, nei suoi articoli, contro i quali insorgevano gl'intesisti di tutta l'Italia, e le rivoltolava nel suo cervello, maturandole, cercando una luce. Le rimuginava una mattina piovosa, venendo giù passo passo da casa sua per via Po, quando un rovescio torrenziale lo costrinse a rifugiarsi dentro un portone. Cielo d'un grigiore fitto e lucente. I tram passavano sovraccarichi senza neppure fermarsi. Non una carrozza. Ma no, eccone una che viene dal Corso d'Italia. Occupata, pero; che disdetta! Un'idea si è affacciata nella mente di Bruno, ma per attuarla occorre subito una carrozza per andare immediatamente a trovare la persona che.. - quella carrozza. Tra le due pareti dei palazzi scivolanti sino allo sfondo piatto e grigio, essa avanza ingrandendo a poco a poco, trotterellando sul suo riflesso capovolto nel selciato translucido, trascinando il suo rumore che s'allarga nello scroscio della pioggia, rumore di ruote rotolanti, di un risaccare viscido e cupo: il ventre del cavallo dentro il quale le viscere rimbalzano con una specie di rantolo intermittente e isocrono, inseguito dallo scalpitare cadenzato dei quattro zoccoli sguaiati, in un gioco armonico grottesco e sinistro. 

Ma ecco che la carrozza devia, rallenta, appoggia a destra: i rumori si staccano, si spianano: essa si ferma librata sul suo riflesso oblungo e assottigliato, sospeso all'infinito nel vuoto del lucido. Ne discende con un balzo una donna. Belle gambe agili sotto la gonna corta. Tutta bella, elegantissima: Myriam. Infatti il redattore capo del Pensiero Italiano dimora in una villa di via Po. Myriam porge la mano sorridendo verso l'interno della vettura, ove qualcuno gliela bacia. Poi con altri due balzi, sospesa anche lei sul suo riflesso sottile e infinito, curva sotto l'acqua e stretta il rénard sul collo, attraversa il marciapiedi e sparisce in un portone. 

Myriam: colei che doveva essere sua! La carrozza si divincola a stento, prosegue verso Bruno: c'è un uomo dentro. 

— Nino! 

Chi ha gridato così se Bruno non pensava a gridare? Nino Guevarra, toccando alla schiena il cocchiere per farlo fermare, era pallido e non sapeva che dire. 

— Mi accompagni? — gli domandò Bruno montando. 

— Dove vuoi — ma non dissero niente al vetturino, che proseguì diritto. Bruno si sentì un momento dentro i rumori ascoltati poco fa; poi vi aggiunse la sua voce per chiedere: 

— Dunque, siete già così avanti? 

— Avanti di che cosa? — domandò a sua volta Nino. 

— Avete già messo le corna a Casazza? — ma pronunziando questa frase accompagnata da un sogghigno che non voleva uscire, Bruno sentì pena come se gli mancasse il respiro. 

— No; — ribatté l'amico, ingegnandosi a superare il comune disagio con un sorriso — accompagnare una signora in carrozza non vuol dire esserne l'amante… 

— Non dirmi storie: dia un pezzo l'ho notato. Essa ti ha circuito, ti piace... tu non hai mai buttato via una donna che ti piacesse... Tu le scrivevi già, prima che venisse a Roma; dovunque è lei sei tu... 

La voce si faceva alta sui rumori della carrozza, che li cullava dondolandoli e obbligandoli spesso a trovarsi spalla a spalla. Nino gli fece cenno con la mano di calmarsi. 

— E' vero… Una simpatia... un'attrazione reciproca... Del resto riconoscerai che è fatale, prima o poi, per una donna qual'è lei e maritata a un uomo dello stampo di Casazza, trovare un amante... 

Bruno proruppe allora, impazzito, picchiandosi sulle ginocchia coi pugni stretti: 

— Ma tu no? Nino… tu no! Tu: Nino... Ninì di Firenze, Ninì di Tunisi, Ninì delle nostre lettere... tu, giusto tu, con lei, no! E' una cosa che mi torce il cuore! 

Nino, sconvolto anche lui, gli afferrò le mani, gli cercò gli occhi con occhi da bambino: 

— Ti giuro che ancora non c'è stato nulla fra me e lei... sì, essa mi piace molto, assai, quanto nessun'altra donna… ci sono dei momenti che mi fa impazzire... Ma io non credevo che tu ne fossi ancora così preso. Perdonami... vedo che l'ami… Ma sta tranquillo, noi due, io e te, prima di tutto! 

— Me lo dici per calmarmi!... Ma io non l'amo… è un'altra cosa... 

— Capisco. Te lo giuro sulla memoria di mio padre e di mia madre. Guardami bene, prendi la mia mano e senti se io mentisco. Essa dovrebbe venire da me domani. Ma questa sera, ascoltami, Bruno, io partirò pel fronte francese, ove da un mese suo marito mi propone di andare.

III

Aprile 1915. Bruno Soveria, attraversando le sale del caffè Aragno, si sentì chiamare da un tavolo, dal quale un uomo grigio si alzò gaio e cordiale per muovergli incontro. 

— Oh, Artesi! è lei? 

— Signor cavaliere, — (a parte il titolo al quale Bruno non badava, per Artesi le persone di riguardo erano cavalieri se giovani, commendatori se anziani) — lo rivedo. Sono tanto contento. Chi doveva dircelo, eh? Ricorda quei brutti giorni di Gabes? Ma ora tutto bene, non è vero? Ho saputo che le cose si sono aggiustate. Quei carognoni, eh? volevano fargliela... Ma che combinazione incontrarci a Roma. 

— Lei, piuttosto, come mai?... 

— Affari… e un po' di vacanze. Sono con un mio amico tunisino, nostro compatriota, della provincia di Trapani. Venga a sedere con noi, prenda una granita. Permetta che glielo presenti. 

E presentò: 

Raisi Vanni, conoscete il signor cavaliere avvocato Soveria? 

Raisi Vanni. — (faccia adusta e sbarbata da sessantenne, anellino d'oro al lobo di un orecchio, mani callose, torace erculeo a disagio nell'abito nuovo) Che vuol dire se lo conosco? Lo ricordo da quando era al consolato generale. Lui, piuttosto, non può conoscermi: era uno e noi eravamo centomila. 

Queste parole fecero sorridere di piacere Bruno, strinse con simpatia la mano del presentato, una mano grande e callosa che gli ricordò il suo duello con Rénouard, mentre Artesi faceva un sunto biografico: 

— Questi è raisi Vanni Maiorana, padrone di barche, tunisino da quarant'anni, che ora ha in mano la pesca delle spugne... Lo chiamano "il re della piccola Sicilia" perché è il vero amico degli amici fra gli emigrati da capo Bon a Metlaoui. ha potuto restare italiano, meglio di me, lui... Ma, infine, quel che vuole Dio! 

Bruno. — Che si dice in Tunisia? 

Artesi. — Eh, si comincia a sentire la guerra, non è vero, raisi Vanni? 

Raisi. - Già... un poco. 

Interessante, il vecchio e leonino pescatore di spugne: parlava appena, sillabando, e batteva a ogni frase le dita della mano destra sul marmo del tavolo, a capo chino, sogguardando i suoi interlocutori. Bruno non si stancava di squadrarlo quasi aspettandosi una rivelazione, convinto di avere trovato qualche cosa di molto importante... 

Il loquace Artesi descriveva: 

— Non è più quella di allora, Tunisi. Mancanza di denaro, disoccupazione, malannate... i poveri darebbero l'anima al diavolo per guadagnare... 

— Ma come? non c'è aumento di traffico, con la guerra? — domandava Bruno. 

— Traffico di che? Di soldati, o meglio di bestie, di scimmioni che bisogna far diventare soldati. Carica e scarica, inforna e sforna, è un continuo arriva e parti di gialli, di negri, di caffelatte, che si assoldano con le buone e con le cattive in Kabilia, nel Sudan, nel Madagascar, nell'Annam, nel Tonchino. Arrivano in Tunisia, li vestono, li armano, insegnano loro quattro bagattelle di marcia e di manovra, il maneggio del fucile e delle mitragliatrici e poi via... E' come un nugolo di cavallette che ha invaso e poi spopola il paese. Otto, dieci giorni, non si vede più un selvaggio, poi eccoti che un treno o un piroscafo ti scaricano altre tonnellate di carnaccia da cannone... 

Bruno ascoltava interessatissimo: a poco a poco una specie di nebbia si andava dissipando dinanzi a lui. 

— Ma... e nei giorni tra una partenza e un arrivo, Tunisi non è sempre piena delle solite guarnigioni? 

— Solite guarnigioni? che! i più validi e i più istruiti furono i primi a partire pel fronte... Poche truppe beylicali, pochi graduati e ufficiali istruttori francesi, qualche centinaio di spahis e di tirailleurs di colore... 

— E i nostri? i nostri, che dicono? — domandò Bruno, ansimante, al "re della piccola Sicilia" — Che pensano della guerra? 

— Eh, signore... Certo, ne farebbero volontieri a meno. 

— Ma sarebbero contenti che vincesse la Francia? 

Raisi Vanni alzò la testa, lo guardò, guardò Artesi e non rispose. Ma Artesi si guardò attorno, si chinò sui marmo e sussurro: 

— Certo, ora che speranza di passare all'Italia non ce n'è più... 

Bruno, che s'era curvato anche lui per sentire meglio, si risollevò vivamente. Tacquero.

— Permettono che paghi io? 

— Per carità, signor cavaliere, lei scherza... paghiamo noi, le pare? 

— E allora, se sono liberi, vogliono venire a colazione con me?... A Monte Mario, in piena campagna... 

— Troppo onorati! Non si disturbi! 

Ma egli aveva già visto chiaro, preciso in ogni particolare, quel che cercava inutilmente da tre o quattro mesi. E non poteva più star fermo, e si sentiva il respiro insufficiente nei polmoni dilatati. 

*** 

Due giorni dopo Bruno s'incontrava in un hotel di Albano con un signore alto, occhi azzurri, capelli e barbetta bionda. 

— Troppo tedesco! — mormorò vedendolo; e si guardò attorno. Ma non c'era nessuno che badasse a loro. Si salutarono e uscirono, incamminandosi verso il ponte di Ariccia, percorso da radi contadini e carri cigolanti su cui il carrettiere dormiva al riparo del mantice versicolore. 

— Abbiamo avuta la sua lettera; — disse il signore — lasciata da persona di sua fiducia. 

— Da me stesso. Come ha fatto a riconoscermi? 

— I connotati erano chiari — rispose quegli sorridendo. — Con chi ho l'onore di parlare? 

Bruno declinò le sue generalità e la sua qualità. 

— Conosco. Abbiamo letto sempre con attenzione i suoi articoli. Come mai non ha cercato d'incontrarci prima d'oggi? 

Bruno si soffermò per guardarlo negli occhi, mentre gli rispondeva secco e quasi rude: 

— Fin oggi non è stato necessario. In tutto quello che ho detto e che ho scritto, e ora in quello che voglio fare —  prego lei e i suoi di tenerlo presente — io non bado che all'interesse del mio paese. Io non sono vostro; son mio. Vedo ora che l'interesse del mio paese può essere anche il vostro e son disposto a diventare vostro socio. E' chiaro? 

— Chiarissimo. — disse il signore, con un lieve inchino e un sorriso. — Di che si tratta? 

— Prima di tutto, può lei confermarmi quel che ho saputo da amici comuni, da alte personalità politiche tripliciste che lei ben intende chi siano, e cioè che esistono trattative per cedere all'Italia il Trentino, la linea dell'Isonzo con Gorizia, due o tre isole istriane e fare di Trieste una città libera? 

— E' verissimo. Sta al governo italiano accettare. 

— Bene. — Bruno si guardò ancora attorno: strada aperta da tutti i lati era completamente solitaria. Egli proseguì: — Io ho il mezzo di costringere il governo italiano all'intervento a fianco degli imperi centrali. 

Il tedesco batté le palpebre. Sorrise discretamente. 

— Che cosa dovremmo, fare noi? 

— Anticipare la somma pel finanziamento dell'affare. 

— Di che si tratta? 

— Un colpo di mano in Tunisia. 

Una folata di vento spense queste parole. Giunse un suono grave di campane. Il tedesco si soffermò, stordito e incredulo. 

— Da parte di chi? — domandò a voce alta. 

— Di italiani residenti in Tunisia. Ce ne sono centomila, lei forse lo sa, contro ventimila francesi. Io ho gli uomini capaci: mille, i più risoluti; siciliani, pratici del paese, attaccati al paese... 

— E come?... 

— Mi lasci dire. I presidi territoriali rimangono, a periodi, scarsi. Di notte, tutti la stessa notte e alla stessa ora, i miei uomini — a Tunisi, a Biserta, a Kairouan, a Susa, a Sfax, a Gafsa e a Gabes — gruppi di cinquanta o di cento, ma alla spicciolata, muoveranno contro le caserme francesi. Ivi uno di loro si sbarazzerà silenziosamente della sentinella. Prima che l'allarme sia dato, sorprenderanno i corpi di guardia, poi disarmeranno e imprigioneranno i dormenti. La mattina dopo le forze armate della Tunisia saranno sostituite quasi completamente dai miei uomini, la bandiera italiana sarà inalberata su tutti gli edifici governativi. E' possibile che vi siano combattimenti, che sangue sia versato, ma ineluttabilmente tutti gl'italiani della Reggenza dovranno unirsi per provvedere all'offesa e alla difesa comune. La notizia sarà telegrafata al governo italiano. Prima che il governo francese possa provvedere a soffocare la sedizione, massacrando gl'italiani, l'Italia sarà costretta a intervenire per la difesa di centomila suoi sudditi. 

E Bruno, parlando così, fieramente, si ascoltava inorgoglito, sentiva l'enorme importanza delle cose che diceva, vedeva ogni sua parola prendere forma d'avvenimento accanto ai grandi episodi che si compivano sui fronti di battaglia. 

Il tedesco, fermo, guardava verso Albano, impallidendo. 

— Il colpo può anche non riuscire — obbiettò con voce ingolata. 

— D'accordo. Ma anche se non riuscisse in tutti i luoghi, provocherebbe subito un fermento gravissimo. Il quartiere siciliano di Tunisi "la piccola Sicilia", ventimila e più siciliani, si barricherebbero... Rivolta, guerriglia... Il mio governo sarebbe tirato pei capelli a intervenire, Salandra cederebbe il potere, salirebbe un ministero triplicista... 

Il tedesco riprese a camminare, le mani dietro la schiena, gli occhi ai suoi piedi che sollevavano polvere. 

— Come mai non ha pensato di cercare i fondi tra i suoi connazionali triplicisti, dato che lei vorrebbe fare la cosa nell'interesse esclusivo del suo paese? 

Bruno esitò, colpito. Poi rispose, risoluto: 

— Perché nessuno dei miei connazionali oserebbe, qui. E quanto a capitali non c'è da parlarne. L'atmosfera, il coraggio, i capitali, in Italia, sono volti verso l'Intesa. L'Intesa ha saputo versare ossigeno in tutte queste cose italiane: voi dovreste saperle. Finora più di trenta milioni ha speso la sola Francia per la propaganda in Italia. I triplicisti italiani sì vergognano, perché confusi coi neutralisti. Sperano soltanto. Ma tra loro a osare, ad agire, ad aver coraggio, non ci sono che io! 

Il tedesco si soffermò di nuovo e domandò: 

— Quanto? 

— Un milione di lire. 

L'uomo si tirò la barba bionda, sorridente e aggrottato. 

— Ne parlerò coi miei amici. Domani spero dirle che la cosa è fatta. Dopodomani un acconto della metà. Oh, non di più! 

Bruno aspettò il domani, impaziente; ma non venne nessuno. Il dopodomani arriva una lettera, scritta a macchina, senza firma, in cattivo italiano: 

"L'idea è bella. Ma le vostre imprese di Gabes caro amico, fanno sospettare che la vostra fantasia è troppo grande di progetti". 

Sulle prime non capì. Poi le parole gli ballarono sotto gli occhi, e lo assalì una voglia sfrenata di fracassare, di pestare i piedi, di mordersi come un dannato. Non lo avevano creduto; ma perché il goffo insulto? 

Sapeva dove trovare quella gente; ma quando vi andò non lo ricevettero, facendo rispondere da un usciere albino e di legno, che non c'era nessuno. 

Si appostò in un angolo della strada, poco discosto dal portone del palazzo; ma quel giorno, malgrado aspettasse più di un'ora, non vide chi cercava. 

Vi ritornò, sbollita un po' l'ira, deciso sempre a farsi conoscere. E finalmente scorse il suo uomo dalla barbetta bionda e dalla taglia da portiere che smontava da una botte, fermatasi dinanzi a quel palazzo.

— Oh, lei, dica — gli fece; quegli, nell'atto di pagare il vetturino, si toccò il cappello e si voltò dall'altro lato. 

— Senta, proseguì Bruno, — puntandogli un dito in faccia io ammiro il suo paese: ha grandi musicisti, discreti poeti, esimi filosofi che però mi hanno fatto venire la pelle d'oca al cervello, precisi generali, buoni soldati, accorti commercianti... 

L'uomo stava immobile, non sapendo se adirarsi o sorridere. Egli concluse: 

— Disgraziatamente ci ha voi uomini politici e diplomatici, che oltre ad essere prussianamente cafoni, siete internazionalmente imbecilli. 

L'uomo, tirandosi la barba, si voltò per infilare rapidamente il portone. 

— E se, come spero, — gli finì di gridare dietro Bruno, divertendocisi — sarete sconfitti, lo avrete meritato, per questo! 

Qualche passante, soffermatosi alle sue grida, gli fece eco con applausi e consensi. Sì, ma che aveva fatto? Che aveva ottenuto? Poteva dire di aver avuto la sua piccola soddisfazione, da uomo a uomo, la sua magra vendetta per essersi visto misconosciuto e maltrattato. Ma i suoi propositi? Il suo grande proposito di una impresa colossale, di un atto decisivo che valesse a inserire il suo nome nella storia che in quei giorni altri uomini e nazioni venivano scrivendo a colpi di cannone e di astuzia, dove andava a fluire? 

Gli accadde, l'indomani, d'incontrare un'altra volta Tommaso Casazza e Myriam in compagnia di Peppino Foresi. Costui rimase un poco turbato, ma lei no: lo guardò invece perfidamente, in aria di sfida e, gli parve, anche di odio. Per quella donna e per tutti i suoi nemici, ormai, egli voleva vincere a qualunque costo, per imporsi anche a loro, per far cosa contraria a quelli che egli riteneva i loro interessi. Casazza, infatti, col suo giornale, era passato ormai decisamente dalla parte degli interventisti francofili. 

La sera, quando all'entrare in redazione accigliato, scorse Peppino al suo tavolo di correttore ma intento, tra le nuvole, ad attorcigliarsi i capelli con un dito, gli domandò bruscamente: 

— Ti sei messo a fare il cascamorto con la moglie di Casazza? 

Peppino si fece pallido, mentre rispondeva: 

— Credevo che non t'interessasse... 

— Infatti, — convenne, interdetto — non m'interessa... Ma tu sai chi fu per me quella donna... benché oggi non me ne importi proprio nulla... E poi suo marito non è certo un mio amico. 

— Sono stati gentili verso di me... 

— Guardati da quelle gentilezze... che, fra 1'altro, possono anche essere dispendiose. Hai soldi da buttar via? 

Peppino ebbe un moto vivace, un tentativo ribellione: 

— Ma scusa... —  non seppe aggiunger altro, scrollò le spalle, e si curvò su bozze di stampa che aveva dinanzi. 

Bruno lo lasciò, seccatissimo contro se stesso. Il giorno seguente e l'altro ancora Peppino Foresi non si presentò in ufficio. Bruno lo mandò a chiamare, con un suo biglietto: 

" Scusami se sono stato sgarbato. Bisogna, però, compatirci a vicenda. I momenti sono gravi, c'è molto da fare, molto da essere preoccupati e molto da badare al nostro lavoro. Vieni e non far lo scemo". 

Peppino tornò; ma rimase stralunato e taciturno e non rispose più che a monosillabi a qualsiasi domanda. Bruno dopo qualche giorno di esitazione e di nervosismo, si decise e andò all'Ambasciata d'Austria.

— Sono odiosi, — spiegò a se stesso — ma meno grossolani di quegli altri. E capiscono di più. 

L'Ambasciatore infatti si mostrò interessatissimo alle sue proposte e le accettò senz'altro. 

— Ma siccome noi si era già pensato a qualcosa di simile — aggiunse tenendogli in faccia due begli occhi acuti — e avevamo mosso le prime pedine, per mezzo di un altro signore pratico di questioni africane, io gradirei che lei si intendesse anche con lui per unificare l'azione. 

Bruno ne fu contrariato; nondimeno acconsentì. Dettò il suo indirizzo, per le ore del mattino, ma non volle dare il suo vero nome: diede quello del padrone del suo appartamento, che gli cedeva due camere con ingresso indipendente. 

*** 

Annie, che non aveva dato più segno di vita per una settimana, si presentò la mattina dopo, insolitamente. Trovò Bruno di buon umore. 

— Quanto mi piace vederti sorridere, mon cheri. Che hai? 

— Una cosa che non può interessare una bella signora — rispose egli, leggermente. Ma si lasciò scappare una frase più grave, alla quale fece caso più tardi, quando l'amica graziosa, fra un bacio e l'altro insistette per sapere se "tenesse sempre il broncio alla Francia". 

— La Francia ha con sé i più — disse — Io preferisco stare coi meno. Ma il mio cuore — tentò subito correggere — è per le francesi. 

Da allora Annie non mancò una sola mattina. Egli era con la fantasia dietro il suo piano, in continua corrispondenza a doppio senso con raisi Maiorana e con Artesi, ripartiti per Tunisi da più giorni. Il "re della piccola Sicilia" gli scriveva: 

"Tutto è preparato per l'organizzazione della partita di pesca che lei sa. Le ciurme sono state reclutate e fra pochi giorni si potrà salpare alla volta dei banchi di spugne. Non si attende che il materiale promesso da lei". 

Ma un'altra missiva arrivava, un plico a mano: 

"Il comune amico trovasi assente ed è obbligato a ritardare. Lo abbiamo sollecitato. Sia certo, pero, che da un giorno all'altro egli si presenterà direttamente da lei". 

— Senti, cara disse Bruno ad Annie — bisogna che cambiamo luogo e orario per incontrarci. 

— Sei già annoiato di me, come allora? Un'altra Katscha? — chiese la sorridente donna senza batter ciglio. 

— No, tutt'altro... Io sarò costretto a uscire tutte le mattine di buon'ora. 

Annie acconsentì; ma si presentò all'impensata, a ore diverse. 

Il sei maggio, non erano ancora le sette quando essa bussò alla porta di Bruno. Questi non dissimulò il malcontento; ella non se ne diede per inteso e fu anzi così gentile, così piena di premure, così esuberante e varia di carezze, che riuscì a farsi tollerare. 

Alle otto, però, si udì picchiare all'uscio. Bruno trasalì. 

— Chi è? 

— Sono — rispose una voce dall'accento oleoso che Bruno ricordò di avere sentito altre volte — la persona mandata dagli amici di piazza Colonna. 

L'uomo! Ah, perdio, bisogna riceverlo subito e sbarazzarsi di Annie; Bruno, concitatissimo, depose quasi di peso costei coi suoi abiti nella stanza attigua, le sussurrò di andare a girare per l'appartamento e uscire poi dall'altra porta del pianerottolo, (non importava nulla se incontrasse la padrona di casa; egli, tanto, avrebbe sloggiato la sera stessa). Poi andò ad aprire. 

E si trovò di fronte Andrea Stefanovich. 

— Oh, lei! — fece costui, dominando una smorfia di disappunto apparsagli in viso — non pensavo d'imbattermi in una vecchia conoscenza della Tunisia. 

Bruno, che non sì sentiva più una goccia di sangue in faccia, restava nel vano della porta socchiusa impedendogli di entrare. 

— Che desidera? — riuscì finalmente a profferire. 

— Credevo — rispose quegli con un inchino cerimonioso — che fosse lei a desiderare qualche cosa da me. 

— Io non m'aspettavo di dovermi reincontrare con lei... 

— Neanch'io... ma se l'occasione lo esige, se la cosa e veramente importante e le sta a cuore, potremo dimenticare le fatalità passate e metterci d'accordo... 

Bruno sentì il sangue, improvvisamente, tumultuargli nelle orecchie, con battiti che parevano i tonfi uditi un giorno sulla strada di Mareth. 

— C'è una fatalità che io non dimentico! — ansimò. — Lei vorrebbe, forse, mettermi accanto ai suoi ribaldi di Gafsa? Fare di me un altro von Erhardt o un Attias?... Basta che io veda lei per rendermi conto di ciò che è canaglieria! 

Stefanovich aggrottò la pallida faccia, indietreggiò di un passo come se temesse essere aggredito ,rispose con voce malferma: 

— Io non la capisco... — e, appoggiato alla ringhiera, cominciò a scender le scale, vecchio, curvo e cadente come un mendicante respinto, senza avere nulla nell'aspetto umiliato dell'infamia di cui si era intriso. 

Bruno richiuse violentemente l'uscio, restò un pezzo impietrito, poi si colpì ripetutamente al capo coi pugni serrati, folle d'ira e di disperazione. 

Quando si ricordò di Annie, corse a cercarla nelle altre stanze, girò per la casa, la chiamò per le scale: ma essa non c'era più. 

*** 

Il Corriere Italiano in edizione straordinaria denunciò oscuri maneggi, orditi da agenti segreti con la complicità di elementi politici e giornalistici per impedire l'entrata dell'Italia in guerra accanto all'Intesa. Corsero sulle bocche di tutti parecchi nomi, che furono raccolti e pubblicati da un settimanale oltranzista: Bruno Soveria vi figurava al terzo posto. Una lettera anonima lo minacciò di bastonature e, quanto prima pel giorno della riscossa nazionale, d'impiccagione a un fanale di Piazza Colonna. 

Bruno si domandava adesso se non avesse torto, se effettivamente egli non avesse visto male i grandi interessi politici dell'Italia. Ma come disdirsi, quando ancora il Governo non pareva deciso, come riconoscersi nemico del suo paese o cieco, quando i tedeschi già sfondavano il fronte russo sulla Vistola e approfittare di quel momento per schierare cinque-centomila uomini sulle Alpi occidentali poteva significare il crollo anche degli anglo-francesi? Egli vedeva, in una seduzione insuperabile, la terra promessa, la Tunisia, aperta, in fondo al Mediterraneo abbagliante, alla conquista facilitata dal suo colpo di mano, preparato, pronto, sicuro, e impossibile ora a operare perché una leva gli sfuggiva! Oh, ottenere, realizzare, vincere in tali condizioni ancora, non sarebbe stato il maggiore dei successi, la gloria immancabile? 

La mattina dell'otto maggio apparve un suo violento articolo nel Pensiero in cui dimostrava la fallacia della tesi oltranzista della facile vittoria contro l'Austria, della passeggiata militare fino a Vienna, la misera o per lo meno dubbia convenienza da parte dell'Italia in seguito a una sconfitta degli Imperi Centrali che ci avrebbe assicurato grami vantaggi territoriali, nessuno economico e forse nessuno politico dato l'enorme predominio che avrebbe acquistato la Francia e data la creazione di un nuovo grande stato adriatico al posto dell'Impero Austro-ungarico. Molte copie del giornale furono strappate agli strilloni e date alle fiamme da un gruppo di giovanotti capeggiati da redattori del Corriere Italiano

Più tardi quando Bruno uscì dalla redazione in compagnia dei suoi lidi colleghi Gino Arguti e Giulio Esperia e del deputato triplicista Altomonte, si videro seguiti da otto o dieci di quegli stessi incendiari e fatti segno a grida ostili. Da un marciapiedi opposto di via del Tritone per la quale si erano incamminati, un adolescente strillò all'indirizzo di Bruno: — Spia. 

Egli si lanciò furibondo per assalirlo; ma il ragazzo prese una rincorsa disperata. Bruno si fermò scoppiando a ridere: 

— E vuoi fare la guerra? - gli gridò dietro. Ecco però che gli vennero di fronte altri due. Uno di costoro gli chiese in tono quasi suasivo: 

— Che cosa fa, lei, con cotesto bastone? 

Bruno rispose in tono eguale che lo lasciassero tranquillo; ma quegli buttò improvvisamente le mani avanti e gli abbrancò la mazza per strappargliela. Per un secondo Bruno ebbe a un palmo dal proprio viso quel viso di sconosciuto, grassoccio, occhialuto, sguardo freddo, baffetti a spazzola, che non dimenticò mai più. Nemico ignoto, sorto a un tratto con odio omicida. Scorse anche, in disparte, fermo a guardare con un sorriso giallo, Tommaso Casazza. 

Frattanto il secondo aggressore, un ventenne alto, magro, glabro e rosso, pure indimenticabile, gli alzava in faccia un pugno che gli parve enorme e nocchieruto, per colpirlo. Bruno sentì, senza logica, senza impulso raziocinante, la sua persona fisica reagire. Uno strattone, che compì appena come un gesto lieve, e si liberò dell'avversario dagli occhiali; giù un colpo a tempo sul petto del giovanotto; un altro colpo sulla tempia del primo. Quegli traballò, facendo indietro come tre buffi passi dì valtzer; questi perdé il cappello e gli occhiali e si coprì subito il viso con le mani. Automatici, in silenzio; ma senza nulla di sforzato; tutto semplice e naturale. Il pensiero di Bruno era fisso piuttosto in Tommaso Casazza da raggiungere, buttare a terra e pestare coi tacchi! Invece si sentì arrivare un pugno su una spalla. Si volse; ma già il suo terzo aggressore di cui mal poté ricordare la faccia, capitombolava colpito alla fronte da un cazzotto di Gino Arguti. Esperia difendeva Altomonte, preso in mezzo da altri quattro, che se lo strappavano di qua e di là, facendogli saltare i bottoni del soprabito, mentr'egli urlava tirando pugni e calci. Bruno notò che il suo amico era a capo nudo e si chiese dove avesse lasciato il cappello.

Accorse gente, due metropolitani, un ufficiale. Gli aggressori si dileguarono. 

— Che c'è? cosa le hanno fatto? — chiedevano a Bruno parecchi. Un signore elegantissimo, bella barba castana e riccia, che sentiva forte di acqua di Chinina, gli diceva con sollecitudine: 

— Perché non prende una carrozza, per sottrarsi a quella gente? 

Bruno rispose, arrogante: 

— Consigli piuttosto i miei aggressori a prendere una carrozza. La strada è mia! 

Si ricordò di Casazza; si volse a cercarlo vivamente con gli occhi; ma anche lui era scomparso. 

*** 

La sera stessa mandò a sua madre un espresso così concepito: 

"Ti supplico, mamma mia cara, di non negarmi quanto sto per chiederti. Un affare importantissimo sicuro, da cui dipende forse il mio avvenire, il resto della mia vita, e che a ogni modo mi sta a cuore più di me stesso, quanto te, esige che io faccia un sacrificio economico. Non ho potuto trovare per intero la somma che mi occorre. Riunisci tutto quel che io posseggo, quel che mi venne dal mio povero papà, quel che tu stessa puoi toglierti momentaneamente e fa di mandarmi subito, in assegno su banca, quattro, cinquecentomila lire. Subito, mamma, con la tua benedizione e coi tuoi baci. Ne va della vita del tuo Bruno". 

Il giorno dopo rispose agli attacchi che gli venivano mossi da tutte le parti, alle note dì alcuni giornali che lo chiamavano: "L'uomo dagli oscuri precedenti, l'avventuriero, il funzionario destituito, ecc." con un violento articolo sul suo giornale, in cui fra l'altro diceva: 

"Non mi si ridurrà al silenzio che tagliandomi la gola, mozzandomi le mani! Ripeto che la più bella guerra è quell'altra, contro l'Intesa; la guerra che ci aprirebbe gli oceani, che smantellerebbe a nostro profitto i continenti occupati dai due stati che possiedono maggior copia di colonie nel mondo: 

"l'Inghilterra e la Francia! Darmi del panciafichista è da imbecilli, come volermi gabellare per neutralista è da truffatori. Io non avrei paura di questa guerra che voi avete scartato nell'illusione che quell'altra debba essere più facile; come non ho paura della muta che abbaia contro di me da lontano e dove, tra parecchi cani altruisti ed entusiasti, e cagnotti convinti e galantuomini, ho ravvisato: sciacalli massoni prezzolati che indicherò per nome, lupi gazzettieri stipendiati dal guerraiolismo straniero e iene affariste e spie che tradiscono a un tempo l'Italia, l'Austria e la Francia! " 

La sera dell'undici scoppia la notizia delle dimissioni del Ministero. Urlo di gioia al Pensiero italiano

— E' fatta! trionfiamo noi! è la volta ora del nostro ministero e della nostra guerra! Vogliamo la Corsica! Io inviterò Sonnino a colazione a Nizza! Io pianterò la bandiera italiana su Gibilterra! 

Notte febbrile, notte di entusiasmo sicuro per Bruno, malgrado le notizie dell'insurrezione al Viminale. Egli restò in piedi avendo perfino dimenticato l'impresa di Tunisi, preparando d'accordo con gli amici l'azione prossima, volta prima di tutto a invocare concordia fra gl'italiani a lasciar fare a uomini nuovi. 

La mattina, rincasando stanco per farsi un bagno, trova un telegramma: 

"Mamma sta male. Vieni subito. Zia".

 
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