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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

XVI

Che buon uomo, quell'Alberto Disegni, naturalmente israelita, con la sua barbetta grigia, la figlia da marito e la moglie da amanti! Ventenne quella, quarantacinquenne questa, con l'aria di aver conosciuto più uomini di quelli che la giovinetta non ne avesse sognati. Furono tutti attorno al ferito, convinti dell'avventura terribile, di cui creavano perfino i particolari. 

Il padre — Erano in molti contro di lei? E proprio arabi, o non piuttosto turchi, che oggi la Tunisia ne è piena? 

La madre — Oh, Alberto: non affaticare il signore che avrà bisogno di riposo. Mohamed, avete avvertito il dottore? 

La figlia — Che coraggio! Che coraggio! Certo ha sparato anche lei. Ne ha ferito qualcuno... sono fuggiti, poi, credendolo morto? 

Il padre — Attenta, Lea, alla rivoltella del collega... tu la maneggi come un giocattolo: posala sul comò. 

Il cavaliere Disegni non era soltanto agente consolare, ma anche corrispondente del giornale italiano di Tunisi. Telegrafò la notizia appena poté uscire, all'arrivo del medico, il dottor Sebastien, francese. 

Costui — faccia pallida e magra, un teschio balletti a spazzola e occhialoni a cerchi d'oro — esaminò la ferita, in silenzio, ferita di striscio a canale, la medicò, la lasciò, prese la temperatura — trentasette e otto — prescrisse qualche farmaco, poi sedé al capezzale e si pulì le lenti. Erano soli, poiché la signora e la signorina non avevano creduto opportuno assistere alla medicazione di un uomo, eroico, ma nudo. 

— Siete sicuro domandò il dottor Sebastien inforcando di nuovo gli occhiali — di essere stato colpito da arabi, come avete dichiarato? 

Bruno si voltò a guardarlo. 

— Perché? 

— Mi occorrerebbe saperlo con precisione. — spiegò il medico, gettandogli un'occhiata di traverso, fra i grossi vetri rotondi. 

— Forse le ferite si curano in modo diverso, secondo chi le ha prodotte? 

— Capirete, il mio dovere... Io debbo anche fare il mio rapporto alla gendarmeria... 

— Che c'entra la gendarmeria? — chiese Bruno, aspro. — Voi fate il medico. 

— Io conosco il mio mestiere. Mi sorprende che voi non lo comprendiate. 

— Ritengo il vostro, per lo meno, un eccesso di zelo. 

— Ho capito: siete ancora eccitato per l'accaduto. Arrivederci, signore. 

E, fatto un dignitoso inchino a occhi socchiusi, il dottore se ne andò. 

La mattina dopo, alle nove, l'ufficiale comandante della gendarmeria Monsieur Philipeau chiese di essere ricevuto. Bruno fece rispondere dalla signorina che non si sentiva per ora in grado di discorrere con chicchessia. Ma la signorina ritornò tutta agitata. 

— Oh, signor Soveria, che maleducato! Insiste, — dicendo di essere costretto, se lei rifiuta, a provocare non so quali provvedimenti dall'autorità centrale... 

Bruno balzò a sedere sul letto. Non sentiva più dolori e bruciori alla ferita ma una certa irritazione, accompagnata da sbigottimento. 

— Ha detto così? Accorsero la signora e il cavalier Disegni. 

— Questi francesi, — chiosò costui con grande vivacità, ma a voce bassissima — sempre nostri nemici! Meriterebbe, questo cialtrone, di essere preso a pedate; ma io le consiglio di non farlo più aspettare. 

E l'ufficiale fu introdotto; un omone sui cinquantacinque anni, baffoni grigi arruffati, occhi acuti sotto i cespugli delle sopracciglia, enormi mani dalle unghie vellutinate. Entrò con viso duro, gettando uno sguardo, come una lampata, sul ferito, ma ingiovialendosi repentinamente in un gran sorriso che gli scavò cento rughe nella faccia. 

— Buon giorno, signore e signori. Permettete, signora Disegni, che vi baci la mano: sempre bella, anche di mattina. Signorina, grazioso fiore d'occidente trapiantato in oriente. Signor cavaliere… e voi, signor Soveria... guai, eh? Questa guerra italo-turca non ci voleva. State meglio ora, signore? Sono felicissimo che si tratti di roba da poco. Tutto andrà pel buon verso, non dubitate. Permettete, signora e signorina, e voi, cavaliere, che io abbia una breve conversazione col signore?... Voi, cavaliere Disegni, potete restare… Sì, grazie. 

Appena andate via le signore, si rivolse, semplice e amabile, a Bruno: 

— Volete espormi, signore, le circostanze del vostro ferimento? 

Bruno sentiva crescere la sua irritazione. Cosa volevano tutti costoro da lui? Chi li cacciava nella sua vita? 

— Io non ho nulla da dire. — rispose con durezza. 

— Ah! ah! no, signore! — rise il gendarme —voi v'ingannate. Poiché un incidente spiacevole vi è occorso, poiché ne avete già detto qualche cosa, poiché il signor cavaliere qui ha telegrafato particolari gravi al giornale italiano di Tunisi, è segno che c'è da dire abbastanza. Vogliamo parlarne? 

— Mi riservo, in ogni caso, parlarne coi miei superiori disse ancora Bruno sullo stesso tono. 

— Eh no, voi non sapete quel che dite... perdonatemi, ma non lo sapete proprio... Voi siete un funzionario statale italiano, è vero: ma l'incidente non vi occorse in sede consolare, bensì in territorio sottoposto alla sovranità francese. E la sovranità francese, che bene o male dinanzi a voi rappresento, vi prega di parlare e dire tutto. Non vi pare, signor cavaliere? 

— Eh sì, ha ragione il signor capitano... — rispose Disegni aprendo le braccia. — Ma anche il mio illustre collega ha il diritto di... di... La salvaguardia dei diritti... La nostra nazione... 

— Bon! bon! bon! — esclamò Philipeau frugandosi nel petto; ne cavò un telegramma che porse a Bruno. — Ecco l'ordine del Residente della Repubblica a Tunisi: vedete bene che esso chiede di sapere. Da quel che pare, stamane alle cinque è uscita un'edizione speciale del vostro giornale, per dare la notizia. Perturbamento dell'ordine pubblico, capirete... 

— Insomma, — proruppe Bruno con ira convinto di un sopruso da parte di quegli uomini, al quale non voleva sottomettersi — io non ho nulla da dire! Sono ferito, mi si lasci curare la mia ferita, non accuso nessuno, non posso denunziare nessuno, e basta. Sentiva ormai una grande umiliazione a confessare di essere caduto da cavallo da inetto, a quell'uomo così antipatico. 

— Eh no, non basta! — rise ancora il gendarme, mostrando i dentoni gialli sotto i baffi — oramai l'affare si presenta come un reato di diritto pubblico. Voi siete un uomo colto, intelligente, avete studiato i codici e dovete capirlo che non basta. Vediamo, vediamo, siate ragionevole; anche voi, signor cavaliere, persuadete il vostro giovane collega a essere ragionevole... L'atroce ironia di quegli aggettivi! Bruno avrebbe voluto piuttosto saltare addosso al competitore e sbrigarsi picchiandolo! 

— Ma si, — convenne Disegni — trovo anch'io che in fondo è meglio spiegare... 

— Vediamo, dunque. Voi confermate, come avete detto anche al medico, di essere stato ferito da arabi? 

— Non lo so, — rispose Bruno senza guardarlo, ridistendendosi nel letto. 

— Allora diremo: è probabile che fossero arabi. Escludete dunque che potessero essere turchi, in territorio francese: tanto di guadagnato. Il vice-console ottomano, che viaggiava ieri sera col signor von Erhardt, sarà più tranquillo. 

— Il vice-console?... — esclamarono Bruno irato e Disegni stupefatto. 

— Appunto, — confermò il gendarme considerando con la massima attenzione, come se la vedesse per la prima volta, la punta di una sua scarpa. — E quegli arabi… voi li avete visti? 

— No; credo di averli sentiti dietro di me. — E, rispondendo così, Bruno ricordava le sue sensazioni durante la corsa; ma buttava le parole a casaccio, tanto per liberarsi dall'importuno. 

— Ah, credete... Bene! Erano distanti, allora? Tre, quattrocento metri, circa? 

— Probabilmente. 

— E come mai una palla di rivoltella può raggiungere il bersaglio a tale distanza, producendo per giunta una scottatura? Io ho qualche cognizione in materia balistica e, a meno che non si mutino per l'occasione le leggi fisiche, escludo che ciò sia possibile. 

Silenzio di Bruno. Disegni impallidiva, dimenandosi sulla sedia. Philipeau si alzò improvvisamente e fece alcuni passi. Bruno, che non si era più rivolto a guardarlo, lo udì chiedere poi: 

— Questa è la vostra rivoltella? 

— Sì, — articolò la voce di Disegni. Bruno allora guardò l'ufficiale che esaminava l'arma. 

— Voi avete sparato? Manca un colpo. — E Philipeau estraeva dal tamburo aperto un bossolo esploso. 

— Può darsi, — rispose Bruno esitante; e cominciò a sentirsi la gola strétta e il respiro affrettato. 

Il francese cavò da una tasca dei calzoni qualche cosa di minuto e la fece aderire al bossolo. S'appressò al letto e la mostrò a Bruno, poi si rigirò per mostrarla a Disegni. 

— Combacia alla perfezione, non vi pare? Curiosa. Questa è la pallottola che vi ferì e che il dottor Sebastien ha trovato iersera, dopo avervi spogliato, nel vostro letto. Silenzio. La sedia di Disegni scricchiolò. 

— Non capisco... — balbettò ancora la voce dell'agente consolare italiano. 

Philipeau intascò bossolo. proiettile e rivoltella, poi si mise a passeggiare soffiandosi volta a volta nei pugni chiusi come se avesse freddo alle mani. 

— Curiosa, molto curiosa, curiosissima! Casi fortuiti, non vi pare, mio giovane amico? Coincidenze strane, imbrogli! Ma che l'istruttoria chiarirà, che voi aiuterete a chiarire. 

Si fermò dinanzi a Disegni e gli batté su una spalla, la faccia tutta una festa di rughe pel suo gran sorriso. 

— Signor cavaliere, volete lasciarmi un momento solo col signore? 

Appena uscito l'agente consolare, Philipeau si fece scuro e serio in faccia. Si voltò a Bruno con le mani dietro la schiena, gli occhi seminascosti dalle ciglia. 

— Che facciamo? — chiese con piglio un po' iracondo. 

Bruno tentò ancora ribellarsi: 

— Io non intendo i vostri modi, signore. 

— Su via, finiamola — concluse quegli a voce bassa e concitata. — Io non sono uno stupido. E voi non siete un ragazzo. Avete voluto farvi bello con quei signori, ma io non posso lasciarmi destituire per far piacere a voi e per eroizzare un episodio sgradevole. Ce n'è quanto basta per farvi processare per falsa denunzia e per... 

— Ma io non ho denunziato nessuno... — e pronunziando queste parole, Bruno abbandonò il capo sul guanciale disperatamente, colpendoselo di pugni frenetici. 

Philipeau gli venne accanto e gli afferrò le mani. 

— Basta! Basta! — gli disse con voce addolcita. — Voi non avete denunziato nessuno, ma avete detto o lasciato credere qualcosa di contrario alla verità. Possono venirvene dei guai, tanto più data la vostra veste diplomatica. Giovanotto mio, che diavolo vi è venuto in mente? Voi vi siete ferito cadendo da cavallo, non è vero? e nessuno vi inseguiva, no? State tranquillo, l'affare non andrà avanti, purché mi promettiate di non insistere più su quella versione neppure dinanzi alle autorità italiane. Va bene? Siamo intesi? Se voi tornate daccapo, io vi obbligherò a firmare un verbale, farò uno scandalo, vi denunzierò in tutte le regole... Penserò io adesso ad accomodare le cose con la Residenza. Statevi tranquillo, via. E cercate andarvene al più presto. A rivederci, eh? e giudizio! 

Trattato così, come un fanciullo da correzionale, dopo avere creduto di passare da vetta a vetta! Bruno non sapeva darsi pace di ciò che avveniva giusto a lui, giusto a lui! E doverne anche essere grato a quel poliziotto! 

*** 

Giunsero telegrammi, da Tunisi, da Tripoli, da Roma, da tutte le parti: felicitazioni, auguri, inni. Tutta la colonia italiana di Gabes accorse al consolato per vedere l'eroe della grande avventura, che si limitò a riceverne due o tre. La notizia si era sparsa dovunque, diffusa da tutti i giornali. Il nome di Soveria correva i continenti, ripetuto dalle edizioni dei quotidiani, che, difettando di particolari, ne inventavano, sfruttando l'episodio che — in quei giorni di penuria di grandi fatti di cronaca e di guerra — appassionava il pubblico. 

La mamma telegrafò fra i primissimi, chiedendo notizie e promettendo venire al più presto. Nino Guevarra, da Tripoli ove si trovava tuttavia, mandò un fervido e lirico dispaccio, che concludeva con l'immancabile imperativo: «Godi!» a Peppino Foresi «ammirò e invidiò affettuosamente». Carlo Quilici mandò per lettera quattro cordiali insulti «all'imperialista dei fichi secchi che finisce col prendere le pere». Tommaso Casazza arrivò in persona, da Tunisi, vibrante di curiosità giornalistica. 

— Bruno, ebbene? come è andata? dal Corriere Italiano al quale telegrafai subito la prima notizia, mi domandano particolari. 

Mettimi in condizione di fare un bel servizio. 

Bruno gli rispose evasivamente: 

— Lascia stare, ti prego. Mi farai cosa più gradita a non occupartene affatto. 

— Come? come? ma è impossibile... 

— Ti prego. Dimmi piuttosto: hai visto Myriam? 

— No; ma... 

— E' di lei che mi preme. Fammi anzi un grande favore: tornando a Tunisi, vai a trovarla da parte mia. Dille che mi scriva, che attendo una sua parola. Il suo telegramma asciutto non mi basta. Tanti estranei e sconosciuti si sono interessati a me più di lei in questa occasione... 

— La chiami occasione? Di' piuttosto fortuna; è la più grande fortuna. Hai conquistato tutto: sei l'uomo del giorno... 

— Non me ne importa nulla, — interruppe Bruno, seccato. — E' di Myriam che io ti parlo. In nome della nostra amicizia, convincila a scrivermi... Dille che non penso che a lei. Appena potrò partire, fra uno, due giorni al più tardi, tornerò a rivederla... Ma prima mi occorre una sua parola, che mi spieghi... Capisci? dille che mi spieghi... 

— Ho capito, ci andrò, te lo prometto. Ma ora dimmi tu stesso come debbo fare col mio giornale... Se non mando più notizie, potranno attribuirlo a mia negligenza; rischierei d'essere liquidato. 

— Dirai — rispose Bruno, infastidito — che sto meglio, che la mia ferita migliora che sono grato a quanti si sono interessati a me, ma che non è nulla... 

— Come, non è nulla? — Tommaso, fammi il benedetto piacere di smettere con me le tue insistenze da reporter. Parlo all'amico. Non è stato nulla, non si deve più parlare di questo incidente... Un equivoco, e nulla più... 

— Un equivoco? — fece Tommaso che già aveva preparato cartelle e matita per prendere gli appunti. Disegni, che era entrato da un momento e restava sulla porta, di fianco, con l'aria di volersi ritirare e di voler sentire, intervenne: 

— Sì, sì, un equivoco... Io non ho telegrafato infatti più niente, da parte mia. Quello che è stato è stato. Soprusi della polizia francese. Ma oramai è meglio non parlarne per evitare complicazioni… già, complicazioni. 

Tommaso, adesso, guardava ora l'uno ora l'altro, in silenzio, strizzando di tanto in tanto un occhio e rivoltolando la matita fra le dita. 

L'agente consolare l'invitò a colazione. Lasciarono Bruno che, dal letto, li udì nella stanza attigua confabulare a voce bassa. Quando tornò per congedarsi, accusando la necessità di ripartire subito, Tommaso profferì poche parole, a testa bassa, guardando di sfuggita il ferito, ma mai più in su della bocca. Bruno gli ripeté: 

— Ti raccomando Myriam. Mandami anzi un espresso dopo il colloquio che avrai con lei... 

— Ma, — domandò alla fine Tommaso, rivolgendosi mentre già s'avviava — adesso tu cosa conti di fare? 

— Cosa vuoi che faccia? — rispose Bruno con impeto tornerò a Tunisi appena in grado di camminare... 

— Ah... è naturale, — disse ancora Casazza. E se ne andò. 

*** 

La mattina dopo, Bruno provò ad alzarsi e a fare pochi passi al braccio della signora Lea. La signorina Flora era divenuta più schiva e taciturna da quando Tommaso Casazza aveva parlato, a tavola, della fidanzata di Soveria. Quanto a Disegni, invece, nei pochi momenti che gli stava presso, non sapeva più parlargli che della signorina Myriam Stefanovich, la più ricca ereditiera della Reggenza: e gliene parlava esaltandolo, come se quel fidanzamento fosse il merito, anzi il residuale eroismo del suo ospite. 

Lea, nella sua matura formosità, era un'accompagnatrice e un'infermiera abbastanza in gamba per un convalescente costretto ad appoggiarsi a lei. Lo condusse sin fuori al cancello, sull'avenue, e lo fece sostare all'ombra di un folto sicomoro. 

— Vuol sedere un po' qui? — gli chiese curvandosi, sorridente e lusinghiera, a guardarlo di sotto in su. 

— Volentieri. Andò a prendergli una sedia a sdraio e uno scannetto. Lo aiutò a sedere, a stendere l'arto. offeso. 

— No, signora, prego. 

— Che! che! lasci fare, e gli carezzò delicatamente la coscia fasciata sotto i calzoni. 

— Le fa più male? Oggi toccherà medicarla. Ma quell'odioso Sebastien non tornerà certamente. Ci penserò io: sono pratica. 

— Le pare? 

— Sì, sì; — insistette la signora, passando. a carezzargli i capelli — dopo colazione, quando mio marito e Flora andranno per la siesta. Non sono capaci, quei due: svengono alla vista di una cicatrice. Lasci fare, caro. 

— Sono arrivati i giornali, la posta? domandò Bruno per mutar piega alla conversazione. 

— A momenti. Manderò subito al bureau a prenderli. Appena sarò libera, tornerò qui a tenerle compagnia. 

— Vada, vada. 

Rimasto solo, Bruno si guardò attorno con un senso di benessere. Lì di fronte alcuni muratori lavoravano a un piccolo edificio che andava sorgendo. Si vide salutare con una gran sberrettata e un «Bacio le mani» da un uomo sui sessanta, faccia da artigiano, che interruppe un dialogo animato con un altro uomo, più giovane, in salopette e berretto basco. Lo riconobbe: uno dei suoi visitatori della colonia, una capomastro siciliano, Artesi, emigrato da trent'anni e costretto a naturalizzarsi francese per ottenere l'appalto di costruzioni governative. Ricambiò il saluto sorridendo e scambiarono poche parole nel natio dialetto. Poi Artesi ripigliò la conversazione animata, in francese, col suo interlocutore. 

L'aria era piena d'un ronzio di mosche e d'un diffuso frinire di cicale, che parevano la voce del sole ardente. A un angolo della strada due arabi insaccavano mucchi di cavallette affumicate, con un fruscio di baccelli secchi. Si udivano anche le cazzuolate di calcina che uno dei murifabbri spiaccicava sui mattoni montanti di un muro. Bruno vi fissò la sua attenzione. Plac.... plac... rrrra... rrrra. Tutto era facile e piacevole. Egli avrebbe messo un po' più di calcina su quell'altro lato. Quel pezzo di mattone che doveva fare da cuneo in un interstizio era troppo piccolo. Pac... pac... pah. Il picconcino rompeva un altro mattone. Abbastanza bene, quasi preciso. Giù, dentro l'altro interstizio; e poi calcina, col suo rumore ciaccicoso e aspro. Tutto era facile e piacevole. Tommaso intanto forse parlava con Myriam. La mamma riceveva il dispaccio che la pregava di non partire. Dappertutto si parlava di lui che stava lì, in quel pezzettino di terreno modesto e tranquillo... Ma sentiva, in fondo in fondo, sommerso tra le altre sensazioni, un senso inspiegabile di malessere, un peso, lieve e fermo, tra la gola e il cuore, un peso di malcontento che a poco a poco diventava angoscia. 

Lo distrasse Artesi che alzava la voce, in risposta all'uomo dalla salopette. 

— Mais enfin... — gridava costui, stizzoso e nasale. — Vous' devez! Cent francs encore, je vous dis, ou... prend garde à ta trippe, vieux bonlhomme! Je suis marseillais! 

— Enfin! Enfin! — urlò Artesi, congestionato in faccia, abbrancandogli a volo le mani e scrollandolo. 

— Veux tu savoir qu'est ce que c'est un vieux bonhomme comme moi? Veux tu voir ce qui sait faire un français sicilien? Camurrista cu mmia, nenti! 'i cannarozza ti manciu! (1)

Bruno si alzò per intervenire, interessatissimo alla contesa. Ma il marsigliese, sgomento e forse sapendo di aver torto, già abbassava il suo tono. Qualche passante, che s'era fermato a guardare, s'intromise; uno solo restò in disparte, a godersi la scena alla lontana, un uomo in cicia e lunga redingote, sotto la quale si affacciavano le gambe in mutande. Costui attrasse, visto da tergo, l'attenzione di Bruno: diventò riconoscibile quando si voltò un momento per chinarsi a grattarsi un polpaccio. 

— Giosuè! Giosuè Attias! — chiamò Bruno, mezzo soffocato dall'emozione. 

L'ebreo si volse, sgomento, lo guardò, sulle prime non lo riconobbe e sorrise incerto; ma quando l'ebbe ravvisato, salutò spiccio spiccio e fece per battersela. Il diverbio s'era frattanto sedato e in un gruppo — contendenti, muratori e passanti — si era venuti al ragionamento conclusivo. 

— Artesi! Artesi! — gridò Bruno, fermato dalla fitta al primo passo fatto per correre — per favore, acciuffatemi cotesto gaglioffo! 

Accorsero Artesi e i muratori, supponendo trattarsi d'un mariuolo. Attias, tremante, fu condotto da dieci braccia dinanzi a Bruno: erano quasi tutti emigrati siciliani, solidali con l'eroe compaesano che avevano imparato a conoscere, bersagliato, si diceva, dai soprusi della polizia francese. Gli arabi, in disparte, gettarono uno sguardo indolente e continuarono a insaccar cavallette. 

— Dov'è la tua carovana? — domandò Bruno all'ebreo. 

— Giuro sul mio Dio. — protestò questi sberrettandosi tremante — che non ho carovana... Io sono un poveretto, e tu lo sai, signore, tu lo sai, per la testa di mia moglie che hai beneficato! 

— Dov'è la carovana che conducevi a Zuara? — insisté Bruno. 

— Che Zuara!... Lo so che tu credevi questo, me l'ha detto il suo servo Ahmed, che anzi ti cerca a Medenine... Quel poco carico che io portavo nel Baghirmi, invece, ove mi attendono, te lo giuro sul tuo profeta... ora è fermo e spero venderlo qui, perché non voglio andare in carcere... Esso era per conto di Andrea Stefanovich che aveva affrontato le spese... 

— Andrea Stefanovich? Che dici? — esclamò Bruno sentendosi mozzare il respiro. 

— Sì... io non voglio andare in carcere, ti dico, dopo quel che mi ha detto il tuo servo... Ne ho già venduto ieri una parte a Sidi von Erhardt che penserà lui a farlo proseguire... Puoi chiederlo: oggi dovrà portarmi qui il denaro... Se vuoi, son pronto a venderti il resto. 

Ma Bruno non lo udiva più. Lo lasciò andar via. Un quarto d'ora dopo arrivava correndo un piccolo strillone, un arabetto carico di giornali, vociante: 

— «La Depêche. Chûte de Zuara. Italiens emparés de Zuara!»

XVII

Aveva finito di leggere la breve notizia, scarna di particolari, della presa di Zuara, decisa ed effettuata improvvisamente dalle truppe italiane operanti in Libia, quando Bruno scorse un titoletto, proprio sotto quelle righe, abbastanza piccante: 

«Le heros à bon marchais». 

Si alludeva, nascosto da un'iniziale S. a un don Chisciotte italico, partito contro mulini a vento arabo-turchi e, buttato giù da cavallo da questi guerrieri della sua fantasia, si era ferito accidentalmente per dare poi a intendere di avere sostenuto un eroico scontro con giganti, ricavandone celebrità per sé e noie pel governo d'un paese ospitale. 

Rilesse due, tre volte, e a ogni lettura l'onta gli appariva più feroce. Uno stordimento leggero leggero, come un groviglio di pensieri bui, gl'impediva però di formulare un piano, di prendere una decisione, di avere una volontà precisa. 

A colazione, con gli ospiti, non disse nulla; ma notò che anche questi evitavano di parlare. Al caffè, Disegni gli chiese timidamente: 

— Ha letto la Depêche

— Già, — rispose egli, brusco. 

Disegni, più tardi, azzardò ancora: 

— Il console generale mi ha chiesto notizie. Certo, la sua presenza a Tunisi sarebbe molto utile. 

— Ma, — osservo la signora Lea — ancora non è il caso di parlarne. Il signor Soveria non è in grado di viaggiare. 

— Partirò prestissimo — concluse Bruno; si eccitò e diede un pugno sul tavolo. — Voglio andare a far visita alla Depêche

La sera arriva un telegramma. Nessuna sorpresa: ne arrivavano tanti. Ma la sorpresa era nella firma: il console generale. 

«Esterrefatto apprendo verità. Sospendola ogni servizio, informando superiore autorità per definitivi provvedimenti. Riceverà stipendio e trasferte finoggi. Esimola ripresentarsi ufficio». 

Era troppo! Una volontà si manifestò violenta nella sua coscienza: volontà di urlare, di rompere, di fracassare. Celò il telegramma ai suoi ospiti, ma fece pregare Artesi di procurargli un'automobile per partire subito. Artesi accorse premuroso: impossibile subito — s'impegnava per la mattina dopo. 

— Partirò a cavallo fino a Sfax — disse — mi si selli Ayesha! 

Lo pregarono, lo supplicarono, Artesi e le signore, che non facesse pazzie: non era neppure da pensarci, con la sua ferita ancora aperta. Artesi seppe, nel dialetto natio, trovare accenti paterni, gli ricordò la sua mamma, lo convinse a preservarsi per lei. 

La notte non chiuse occhio. Rimuginò progetti su progetti: comprare un'altra rivoltella prima di tutto. Provare sulla faccia di qualcuno che non era un buffone né un vile, clamorosamente, come pochi mesi prima in occasione del duello. Avrebbe cominciato volentieri da Disegni che durante la serata si era lasciato sorprendere più volte a guardarlo in modo singolare, con i suoi occhi melliflui. 

La mattina l'automobile fu pronta di buonissima ora. Bruno ringraziò gli ospiti, lasciò lauta mancia a Mohamed, pregò che tenessero ancora la sua cavalla a disposizione del cavaliere Dante Guerini che avrebbe curato ritirarla e pel momento porse a Disegni cento franchi pel mantenimento di essa. L'agente consolare li intascò, assicurandogli di non farle mancare nulla. 

Bruno volle darle un saluto prima di lasciarla. Per sempre! Certo per sempre! Si ripeté mentalmente queste due parole andando a la stalla ove essa, inconscia, triturava svogliata la biada fra i denti. Ma no, non inconscia. Ayesha volse la bella testa dalle orecchie ritte al suo appressarsi, e lo accolse con un sommesso nitrito, che le risonò nel ventre fremente, come accordo di violino. Egli prese fra le mani le froge umide e le baciò; e la sua anima di fanciullo gli tornò alle labbra con queste parole: 

— Ayesha... son finite tante cose belle che mi parevano appena cominciate con te,.. M'hai fatto molto male, e non lo sai! Ma mi hai dato anche un po' di felicità! 

La cavalla lo fiutò e gli diede col muso un colpo leggero sul petto. Egli si voltò, temendo che qualcuno lo sorprendesse e lo trovasse ridicolo. 

*** 

L'arrivo a Tunisi quella sera lo smontò alquanto. Parecchi, che lo conoscevano dai giorni della sua popolarità, si fermavano e si voltavano a vederlo passare nella carrozza maledettamente sonante di bubboli; ma a lui parve che tutti se lo additassero schernendolo. Si occupò di Sahib, inquieto e stranito dai rumori e dall'animazione della grande città. 

La mattina seguente, si recò al consolato. Sulla porta, appoggiato a uno stipite, stava Abdallah, il gigantesco cavash cristiano, intento a discorrere ridacchiando con una piccola beduina, venditrice di tartarughe seduta sulle ginocchia. Costui, appena lo scorse, contrasse a poco a poco il sorriso in una smorfia e batté le palpebre, ma senza muoversi. Bruno gli disse: 

— Buon giorno Abdallah; vorrei parlare col signor console. 

— Sua signoria non riceve — rispose il cavash riuscendo a riadattarsi in faccia il sorriso. 

— Mi dispiace; ma deve ricevermi, — insisté Bruno; e mosse due passi per entrare nel patio. 

Abdallah ebbe allora un soprassalto e avanzò le mani con l'intenzione di trattenerlo; ma Bruno si ritrasse senza lasciarsi sfiorare e cacciò una mano in tasca, gridando: 

— Bada, mascalzone, se mi tocchi ti spacco la testa! 

Abdallah indietreggiò, dando di piglio, incertamente, a una sedia, più per difendersi che per armarsene. Varii usci si socchiusero e teste d'impiegati fecero timidamente capolino. S'udì Ricchieri domandare con voce soave: 

— Che hai, Soveria? Calmati. 

— Voglio vedere il console, — e Bruno, risoluto, andò difilato alla stanza del superiore, girò la maniglia dell'uscio ed entrò. 

Sua signoria, curvo su scoscese colline di carte e di registri, non alzò il capo sulle prime, ma guardò l'importuno al disopra delle lenti. Lo riconobbe, si rizzò, si fece rosso e proruppe con furibondo falsetto: 

— Abdallah ! Abdallah! così si eseguono i miei ordini? — e tuffate le mani nelle carte, prese a scompigliarle e a buttarle per aria, come un trebbiatore con la paglia. — Non ricevo nessuno! non ricevo nessuno! 

— Signor commendatore — disse Bruno sforzandosi alla calma — una parola soltanto. Perché lei ha lasciato che io venissi sopraffatto, senza aiutarmi a difendermi? 

— Si rivolga a Roma… a Roma... — rispose il commendatore, perdendo le lenti e infuriandosi di più, mentre afferrava l'uno dopo l'altro registri, penne, matite, calamaio. Io non ho nulla da dirle... Lei ha disonorato il consolato italiano! 

— No, — gridò Bruno, impazzito dalla disperazione — voi mi avete massacrato alle spalle, senza volermi udire, invece di difendermi a qualunque costo; anche se fossi stato colpevole, dovevate difendermi in faccia al inondo, dopo quello che ho tentato e che ho fatto... La vittoria di ieri viene da me, per me è stata presa Zuara! 

— Lei è pazzo o malato! — Ma io mi rivolgerò alla stampa, ai miei amici, io farò parlare tutti i giornali... 

— Se parleranno come il Corriere Italiano, sta fresco! 

Non capì. Entrarono Ricchieri, gli altri impiegati, lo presero in mezzo, io calmarono, lo trassero fuori. 

— A Roma, a Roma… lì farà valere le sue ragioni. Qui non si poteva far nulla… i francesi soffiavano nel fuoco… Ora, poi, dopo la pubblicazione del Corriere Italiano... Nel patio s'imbatté in Dante Guerini che sopravveniva sbigottito e gli correva incontro per abbracciarlo in silenzio. 

— Vieni, vieni, — gli disse poi, traendolo fuori. 

Ah, come lo amò, Bruno, in quel momento! con quanta tenerezza gli si attaccò al braccio, si lasciò condurre fino a un piccolo caffè li vicino. 

— Torna subito a casa tua, gli suggerì il buon amico. Va a tranquillare tua madre; procura di rasserenarti tu pure, per agire, per difenderti e far valere le tue ragioni... Il piroscafo per Palermo parte stasera. Andremo subito a prendere il biglietto. Qui penserò io, non appena sarà possibile, a mettere le cose a posto. 

— E quella donna? — mormorò Bruno. 

— Lasciala stare, quella. Avevo fatto del mio meglio, io, perché tu capissi... Tu le sei piaciuto, sì; ma voleva esser lei a far l'affare, sposandoti. Le sue ricchezze dovevano pagare troppe cose... 

— E suo padre?... Si può pure dire per quella canaglia che quel che è stato è stato? 

— Sei troppo onesto, per intendere quanta sozzura ci sia in giro... ragazzo mio, è così difficile vivere per chi, al pari di te, non sappia varare nell'oceano del mondo civile che la barchetta del proprio cuore armata della vela della fantasia... Occorrono, per vincere, le corazzate o i sottomarini. 

Più tardi, quando fu di nuovo solo, Bruno ricordò le parole del console e degli altri a proposito del Corriere Italiano: il giornale un po' suo, di amici sui quali contava, di cui aveva fatto affidare a Tommaso Casazza la corrispondenza da Tunisi. Che cosa poteva esserci? Ne comprò in un'edicola l'ultima copia, poiché — gli disse il giornalaio — arrivata quella mattina alle sette, in poche ore l'edizione era andata a ruba. 

C'era una corrispondenza da Tunisi, in neretto, in prima pagina: 

«Dolorosamente, siamo costretti a smentire la versione del ferimento di Bruno Soveria, comunicata giorni fa. Qui oramai i giornali francesi hanno resa di ragione pubblica e al consolato italiano stesso non vien più taciuta, un'altra versione che sembra la vera. Pare che il Soveria siasi ferito con la propria rivoltella in modo alquanto intelligente. L'avventura degli arabi, le sue indagini sahariane, la scoperta di una vasta azione dalla Tunisia per aiutare gli arabo-turchi e chissà quante altre cose ancora, non sarebbero che parti della sua fantasia. 

«Ci duole che il nostro funzionario, che pareva così valoroso, l'amico nostro nell'ingegno, nell'ardimento e nella rettitudine del quale sempre fidammo, precipiti ora sotto così grave accusa. E formuliamo l'augurio che riesca a difendersi». 

Difendersi? ma difendersi di che, infine? Si avvio alla redazione del giornale italiano, per trovarvi Tommaso Casazza, per chiedergli quale fosse il delitto di cui lo accusavano; di cui egli — il piccolo, timido e devoto Tommaso — si era fatto pubblico portavoce. Avere taciuto la verità di un avvenimento che toccava lui solo, Bruno, avere lasciato credere una — come dire? sì, sia pure, menzogna — di cui non aveva a tempo misurata la portata, che s'imperniava su una donna che non bisognava nominare, illudendosi che questa utile menzogna potesse restare fra uomo e uomo, fra amico e amico, non mai che dovesse dilagare, diventare affare di stato? Mentre camminava veniva paragonando la sua menzogna ad altre che egli conosceva, la sua persona ad altre che aveva incontrato nella sua rapida e intensa corsa pel mondo. Menzogne e persone gli si affollarono davanti, ogni persona carica e allegra della propria menzogna, come d'un peso lieve e prezioso e necessario alla bellezza e alla gioia della propria vita: von Erhardt col suo spionaggio, Sebastien col suo dovere, Myriam col suo amore; e il padre di Myriam commerciante onesto, Edmea Griffith turris eburnea col suo fidanzato integerrimo, il ministro che dispensava benefici per andare a letto con una donna, lo zio Giovanni amministratore del denaro della sorella; e Buonsignore impiegato devoto, la signora Collebrina sposa e madre modello, Tommaso Casazza amico riconoscente: menzogne che offendevano, che truffavano, che derubavano, che uccidevano, e pure rimaste senza denunzia e senza pena, anzi tollerate, accettate, perfino riverite e premiate! 

— Dov'è Casazza? — domandò all'usciere, giungendo alla redazione. Costui lo squadrò, fece mostra di non riconoscerlo, e rispose asciutto: 

— Fuori Tunisi. 

— Dove? 

— Chi lo sa? a Korbus o ad Hammam-el-Lif. in licenza per tre giorni. 

Allora Bruno lasciò esplodere il sentimento della sua menzogna, del suo delitto, come un orgoglio: 

— Ebbene, quando tornerà, ditegli che io, Bruno Soveria, l'uomo che ha mentito una volta e che se ne infischia anche di quelli che non hanno mai mentito, io, dovunque lo incontrerò, gli sputerò in gola. L'uomo, pallido e pavido, balbutì: 

— Signorsì... sarà servita. 

Poi Bruno ritornò indietro, verso casa. L'irrigidimento dei suoi muscoli e della sua volontà, passo passo cedette, si sciolse. Arrivato nella sua stanza, si sentì stanco sfinito, finito. Si buttò sul letto e scoppiò a piangere, si mise a mordere i cuscini, per soffocare,i singhiozzi violenti che avrebbero voluto prorompere come urli. E disperandosi così, pensava che già altre due volte aveva pianto nello stesso modo, per la partenza di Flavia, per il dramma di Parigi... ma questa volta le lagrime sapevano più di veleno. 

*** 

Dal piroscafo che slittava sulle acque vitree del canale, vide i lumi delle rive accendersi a uno a uno nel crepuscolo interminabile e trascorrere, grandi stelle fuggitive. Il cielo, con una mezza parentesi argentea di luna in cui s'incastrava Espero, barbagliante, pareva un immenso labaro mussulmano. Che cielo pio ed eterno, immacolato e di tutti! Cielo degli arabi, cielo dei francesi, ciclo degl'italiani, cielo dei più lontani e di lui solo, sotto il quale in quel momento forse il muezzin di Duirat pregava Dio e Sidi Ibrahim, il saggio della barbarie e delle solitudini montane, aveva l'aria di compitare in quello stesso cielo parole che sembravano fatte — ora — di luci stellari: 

«E' più facile essere buoni che giusti...» 

Eppure centomila verso di lui avevano creduto essere giusti; uno due tre soli erano stati buoni. Buoni come Sahib che gli appoggiava la testa fine e triste sulle ginocchia, leggendo con occhi più che umani nel suo silenzio. 

Terra che vai, terra che scomparisci nel buio, roteando dai due lati come un libro che si richiuda, quante cose con te scompaiono, furono vissute! Che affastellarsi di attimi diversi, attimi che pareva anche portassero eternità, scivolanti a onde, come questo mare, verso l'orizzonte e di là precipitanti in cascata invisibile negli abissi ove l'occhio non giunge, per non ritornare mai più, come tornano soltanto queste luci aeree, sillabe di una verità sconosciuta.

FINE DELLA PRIMA PARTE

(1) Camorrista con me, niente! ti mangio la gola!

 
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