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IV

Tutta notte, sul piroscafo, fra Napoli e Palermo, rimase a passeggiare da un capo all'altro dei ponti, fumando. Dal babordo riparato e caldo passava a tribordo spazzato dal vento. Salì poi al ponte superiore, tra i sedili su cui, lì, russava un uomo corpulento, più in là gemeva nel sonno una donna vestita di nero. Appoggiate al bastingaggio parlavano piano e sospiravano altre due donne tacendo quando egli passava loro dinanzi. 

Dolori e dolori. Ignoti, accresciuti probabilmente dalla debolezza dei temperamenti; nonnulla, forse, ingigantiti in piccole anime. Ma anche dolori gravi, tragici, senza fine e senza conforto, tra i quali grandeggiava il suo, che nessuno sapeva e che dilagava oltre la sua persona. Povertà, malattie, lutto, disinganni d'amore, malevolenza altrui: questi i dolori della folla. Ma il suo dolore era fatto di molte di queste cose insieme e di più, delta rovina di un immane sogno, dell'annientamento di uno sforzo colossale che avrebbe portato la sua volontà di uomo isolato e quasi oscuro a trionfare sulla volontà di uomini potenti, di folle, di popoli. E ora questo suo enorme dramma si concludeva in una vuota insensibilità per ogni altro proprio dolore, per la malattia della mamma che lo strappava di colpo all'azione, e in acre ostilità verso i dolori altrui che non conosceva. 

Il trionfo di Tommaso Casazza questo sì, era insopportabile. 

Montò sul terzo ponte, quello delle scialuppe, scoperto. E lì, sbucando dalla scaletta, sul suo capo vide esplodere muto il firmamento. 

Firmamento! Firmamento! Parola piena di terribilità e d'infinito. Cielo è azzurro, limite circoscritto, nuvole, colori, luce, dove leggono tutti. Ma firmamento, e cioè interminabilità nera, brulicante di faville, è ben più. Non l'aveva mai visto, anzi non l'aveva mai guardato così, benché ricordasse di essersi già trovato solo e sospeso nello spazio qualche altra notte, ai limiti sahariani. Tutto di lui si espandeva, si dissipava, fluido e imponderabile in quella polvere di luce, svaniva in uno sgomento estatico. E dal dissolvimento della disperazione, dallo svuotarsi della sua ansia esasperata, espandentesi nell'immensità, ricadeva concentrandosi in lui lungo esili fili lucenti uno smarrimento accorato: la mamma, la mamma che stava male! 

E si accorse che questo suo dolore somigliava a quelli umili e oscuri di poc'anzi. 

*** 

Pericolo scongiurato gli ripeteva nella carrozza che li portava verso casa la vecchia e sempre diritta prozia Anna venuta sola a incontrarlo allo sbarcadero. Un colpettìno... Un piccolo vaso, ha detto il medico, che ha ceduto, causando una emorragia da nulla... Si spera che fra pochi giorni potrà rimettersi in piedi. Ma c'è anche il diabete, capisci? un maledetto diabete ignorato fino a ieri. 

Bruno domandava particolari, ansioso di sapere di più; ma ella, chiusa nella sua placida sordità aumentata quasi all'assoluto, tornava daccapo a ripetere le stesse frasi con gli stessi gesti e lo stesso strizzare d'occhi. 

I Collebrina aggiunse soltanto si sono prestati molto. Che brava gente! Ma costa un po' cara... 

Bruno non diede peso a queste parole, preoccupato soltanto di far presto. La mamma lo attendeva dal letto, con gli occhi fissi alla porta. Furono la prima cosa che egli vide, quegli occhi, divenuti un po' acquosi, emergenti da un viso dimagrito e giallastro. Mentre essa gli stringeva il capo fra le braccia scarne e tremanti, egli rivedeva mentalmente la figura bella e serena della sua mamma fino a un anno e mezzo prima. Era ridotta piccola e tutt'ossa, ora. Egli sentì che la colpa era sua, quando sotto le dita, quasi con ribrezzo angoscioso, si trovò un momento nell'atto dell'abbraccio quelle scapole dure, quella pelle floscia come borse vuote. 

Giurami che non partirai più balbettava tra le lagrime la signora Vittoria che non mi lascerai più... 

Sì, mamma, si... 

Io non potevo, sai? mandarti quel che volevi... noi non abbiamo più tanto denaro. 

Non importa, non importa... e Bruno ebbe un singhiozzo anche lui. 

Ti spiegherò più tardi... ma tu devi restare accanto a me fino al mio ultimo fiato... Oh, non avrai da attendere molto... 

Le spiegazioni dell'avvenuto gliele fece Alba, poco dopo. Alba lo aveva abbracciato, come soleva, al suo arrivo; ma egli non le aveva badato, tutto preso dalla mamma. Si ritrovarono insieme, soli soli auditivamente, poiché presenziava la zia mentre egli prendeva la rituale cioccolata coi biscotti, che in casa usava servire a tutti i viaggiatori arrivati di prima mattina. Intanto poté presentarsi anche Sahib, che da mezz'ora uggiolava dietro un uscio minacciando dì sfondarlo e fu un turbine di carezze, di abbaiamenti e di gemiti, finché si accoccolò a ciambella ai piedi del padrone. Ultimo apparve anche, quieto quieto, un gatto bianco e grigio, acquisto recente di Alba che l'aveva battezzato Ciccio. Dopo fissato, a testa alta, il nuovo venuto coi suoi occhi di berillo, venne sospettoso e impertinente ad annusarlo sinché, soddisfatto, gli strusciò il capo contro le gambe. Tutto era dolce e riposante; la memoria del giorno innanzi si faceva lontana di minuto in minuto, dubitativa e irreale. 

Alba, mentre Bruno mordeva lentamente i biscotti guardandola, gli spiegava: 

Stava male da mesi e mesi, ma non aveva mai voluto affrontare la prova dell'analisi. Finalmente io e la zia Anna la facemmo eseguire a sua insaputa. Positiva! Che paura, quando il medico ce lo comunicò, così, senza mezzi termini! Anche lei ebbe paura perchè le dicemmo che se non avesse cominciato subito a curarsi, avremmo avvertito te! Allora comprò il nostro silenzio a prezzo di bobbie e d'intrugli che il medico le prescrisse. Ma deperiva, deperiva a vista d'occhio... Diventò pelle ed ossa e non volle mai che ti si avvertisse! Finché arriva quel tuo espresso. Non so che cosa ci fosse, perché la zia lo ha sequestrato lei, dopo. Sì, dopo.. L'avesse fatto sparire prima, senza lasciarlo sotto gli occhi della mamma! Io ero giù dai miei. Ma salii a precipizio, quando sentii il botto che essa fece cadendo. La trovai, che pareva morta, lunga distesa. Oh, che spavento, Bruno! Che spavento! La rialzammo, io e la zia Anna... io scesi già di nuovo a telefonare pel medico... subito ghiaccio, aceto, sali fortissimi... Non sentiva nulla. Il medico le fece presto presto un'iniezione e così rinvenne... e domandò di te... Ma ora pare rinata! 

Bruno l'ascoltava; ma sopratutto la guardava. Che cosa le era accaduto in due anni e mezzo che non l'aveva più vista? Tutto più vecchio, attorno, tutto più ristretto, come al ritorno da Parigi, come al ritorno da Tunisi: le cose e le persone familiari avevano un non so che di rinsecchito, d'intristito, l'atmosfera stessa aveva il sentore lievemente molesto, la frescura un po' viscida e inquietante delle grandi chiese e dei sepolcri; ma in mezzo a tutto ciò che sapeva d'estenuazione si sentiva anche, vagamente, alitare una fiamma. 

Bruno ascoltava con sommo interesse, eppure distrattissimo, quel nuovo personaggio sorto inaspettatamente come un arbusto precoce, tutto fiori d'oro e azzurro, nel terreno ombroso della sua casa. Sì, questa era l'unica sensazione visiva che si ricollegasse a quella che gli era rimasta di Alba lontana e bambina. Strano: l'azzurro non era che negli occhi della ragazza e l'oro nei capelli; eppure quei due colori raggiavano, divenivano tutta lei. E fra quei due colori che erano la personalità immanente di Alba, stava ora il nuovo personaggio, non più ragazzina e non ancora donna, neppure giovinetta; ma piuttosto uno di quegli androgini - come li chiamavano i greci che sapevano meravigliosamente esprimersi in fatto di architettura umana - che prestarono le loro forme ai pittori e agli scultori del Rinascimento per rappresentare i paggi dell'Empireo, i messaggeri della divinità, la bellezza senza sesso, casta e assoluta, degli arcangeli. 

La sera, leggendo sui giornali la notizia della ricostituzione del Ministero Salandra-Sonnino, Bruno non provò che un senso passeggero di stizza. Quanto a quello che egli aveva tentato fare, la sua pretesa intrusione per deviare e mutare gli avvenimenti, non gli appariva che sotto le forme di un episodio qualsiasi: il ricordo più vivo e più sgradevole di esso era nell'incontro con Stefanovich e nell'umiliazione subita coi grossolani agenti tedeschi. 

Giorni dopo s'imbatté, uscendo, nel figlio del macellaio di casa, Orazio Puccio, un diciannovenne turbolento e riottoso che aveva dato molto filo da torcere a suo padre e che egli conosceva da ragazzo. 

Buon giorno, signor Soveria. 

Oh, sei tu? ti sapevo al correzionale di S. Martino... 

Macché, non ci sono rimasto più di tre mesi. Mio padre ha riconosciuto che non gli avevo rubato niente. Lei non è richiamato? 

Perché dovrei essere richiamato? 

Non sa la grande notizia? E' arrivata ora ora in prefettura: la mobilitazione generale. 

Io sono di terza categoria; spiegò Bruno freddo e tu? 

Io dovrei andare l'anno venturo; ma temo di non arrivare in tempo a farmi le cuoia di quattro austriaci, perché la guerra in tre mesi sarà liquidata. 

Eh sì, era l'inevitabile. Ma a Bruno anche lo scoppio della guerra parve una cosa estranea e lontana. 

*** 

Lettera di Bruno a Nino Guevarra: 

"Mio buono e fantasioso Ninì, io non discuto più della guerra, ora che parecchi milioni di miei connazionali marciano contro fucili e cannoni. Di fronte alla logica delle cose da fare, sta la logica delle cose fatte. Quindi ti parlerò d'altro. 

"Come vedi, non sono ritornato a Roma. E mi disinteresso anche del giornale, che continua vivacchiando, ridotto nella tiratura e nel personale. Sono qui presso la mia mamma che sta male, ma che stette malissimo, adoperandomi ora a curarla e a farla rivivere. Siccome i medici consigliano mutamento d'aria, aria di montagna, ho deciso con lei di andare a Monte S. Giuliano, nella casina di mio zio Giovanni, che anche lui è ammalato. 

"Tu conoscesti, mi pare, questo mio zio. Ha perduto da un mese la moglie e con lei ogni possibilità di reggersi negli affari. Una lettera del suo avvocato ce lo descrive, rimbecillito e semiparalitico, sull'orlo del precipizio finanziario, col pericolo anche per me e mia madre di perdere più di centomila lire che gli abbiamo prestato, o che egli ha saputo prelevare con ogni mezzo dalla nostra. cassa.

"Da venti giorni la mia esistenza è chiusa in casa nostra, il villino rustico sul viale alberato fuori porta che tu conosci. Il possessivo nostra va inteso nel suo più ampio significato, perchè la mamma, per venire in aiuto dei proprietari, la famiglia Collebrina, che andavano di male in peggio nella loro industria di laterizi, acconsentì tempo fa ad approntare loro sessantamila lire, mediante un contratto di vendita con patto di ricompra, pel resto della casa e il giardino. L'appartamentino che noi abitiamo era già stato comprato prima dalla mamma. 

"Pei Collebrina noi abbiamo sempre avuto un attaccamento speciale, io pel padre, la mamma per la bambina, Alba, da lei e da me tenuta a battesimo. Anch'io ho voluto sempre bene a questa piccina che ora ha appena quattordici anni e sei mesi. 

"Da venti giorni, dicevo, la mia esistenza è tutta qui, divisa tra la mamma che deperisce, e questa mia sorellina adottiva che vigoreggia. Nelle ore del mattino sto presso la mia malata, che ha cominciato ad alzarsi, ma è più che mai bisognosa di cure speciali, di iniezioni, sotto posta a dieta carnea, assalita ogni tanto da capogiri e da deliqui. A mezzogiorno viene su Alba a far colazione con noi, sempre, tranne le domeniche quando tutta la sua famiglia è in casa. Nel pomeriggio esco per qualche affare, o dedico due o tre ore, nello studio, a un lavoro sulle origini della guerra, che non potrà essere pubblicato prima di altri venticinque anni; poi fino a sera m 'intrattengo con le mie donne: la zia Anna, la mamma, la bimba, tre generazioni, tre femminilità che mi commuovono, che m'interessano diversamente. La zia settantenne, ma sana, argentea e diritta come un pioppo, parla di quando in quando e dice cose molto sennate: è la più equilibrata di noi quattro, l'unica che possegga il bernoccolo degli affari, che goda la stima dell'avvocato e del notaio di famiglia. 

"La mia sorellina adottiva ci lascia la notte soltanto, per andare a sognare (essa non dice mai dormire; secondo lei si dorme dopo i cinquant'anni, ma fino a questa età si sogna. Che te ne pare?), e spesso anche per la cena, che essa fa con la madre tornata dalla fabbrica, con la nonna più vecchia della mia prozia, con sua sorella Tetè, di elezione infermiera, quando non è di servizio nei suoi sanatori e ospedali e col fratello Cavour, quando non è ancora trattenuto dalle alte cure delle palestre e dei cinematografi, di cui si vanta fervidissimo frequentatore. Un altro fratello è già al fronte; del maggiore non si hanno notizie, perduto com'è dietro una sua canzonettista americana. 

"La stagione calda ci consente, la sera, di scendere nel giardino a fare brevi passeggiate pei viali sotto la luna. Alba si è impegnata a comunicarci tra breve il numero esatto delle stelle che sovrastano lo spiazzaletto della vasca ove ci si attarda sui sedili. 

"Fino a poco tempo fa, non pensavo di prendere sul serio la ripetuta affermazione di mia madre: che questa bimba, cioè, riempisse la casa. Ma adesso comincio a credere che sia vero. Certamente è una ragazza, ed ha intorno alla sua anima un orizzonte limitato. Però, Ninì, come siamo presuntuosi noi che ci occupiamo di storia, di grandi studii, di vita pubblica, di politica, a parlare della limitatezza altrui! Cicerone, Mario, Cesare, Augusto furono uomini grandissimi che noi ricordiamo ed esaltiamo ancora, mentre non sappiamo vedere l'umile gregario romano che nella massa, confuso, e non pensiamo con sufficiente reverenza alla madre romana, che crebbe quel gregario, alle madri dei centomila gregari, ai padri, ai vecchi, agli oscuri, che permisero a Cesare e ad Augusto di lasciare arrivare fino a noi i loro nomi in cima a montagne di luce. 

"Mi vuoi dire che cosa sarebbe oggi la guerra, la grandezza di Salandra e di Sonnino che in loro nome fanno... Ma lasciamo stare: ho deciso di non occuparmi più di queste cose e di attendere in pace il giorno in cui anche la mia categoria della mia classe sarà richiamata, e attendere, se sopravvivrò, la pace per vedere se ho avuto ieri torto. 

"Ti ripeto, dunque, che la piccola Alba Collebrina, benché abbia l'aria di vedere poco mondo intorno a sé, pure vede così intensamente da stupire. Il mondo, per lei, è come un immenso cono rovesciato, di cui la base sia in alto, mentre essa ne rappresenta l'apice, sulla terra. Così ella vede man mano di più, il suo mondo tanto più si allarga quanto più sale. I pochi, ma buoni libri che ha letto consigliati da mia madre, dalla sua maestra del Sacro Cuore e da me, sono stati da lei assimilati al punto di farla apparire colta e in qualche momento profonda. Ma non è profonda: dovrei dire è alta. E' un temperamento lirico; e, come tutti i lirici, capace di qualsiasi inaudito eroismo: da quello di non uscire mai di casa e di rinunziare alle eleganze femminili che già dovrebbero attrarla, per non lasciare mia madre, a quello di parlare con semplicità della trasfusione del suo sangue che ella vorrebbe offrire alla mamma pur 'di vederla guarire. Ha smesso d'insistere soltanto dopo che il medico le ha fatto intendere che la mamma non potrebbe guarire con questo mezzo. 

"Dai sette ai dodici anni io non l'avevo quasi mai sentita parlare, tanto era taciturna e timida. Ora invece parla sovente con noi, con la sua voce quasi da violoncello: e dice tutte le cose che è capace di dire un violoncello col suo suono. Trasforma le persone e le cose, anzi le trasfigura: il canto delle cicale nel giardino è per lei la noia del sole, io mi chiamo Mau e sono "Il gatto con gli stivali" quando non sono "Astolfo, quello che vola sull'Ippogrifo", sua sorella l'infermiera è "Monte Cuccio quando c'è caduta la neve" e la guerra... la guerra è il... "tritatutto"! Che te ne pare? 

"La musicalità della sua natura si esprime anche col pianoforte. Sì, è una delle tante signorine che suonano il piano. Però non ha niente in comune con le solite pestatrici della Preghiera di una Vergine e delle ultime canzoni in voga. Se debbo esprimere la mia vera impressione, dirò che come pianista è mediocre, ma come musicista è stupefacente. Suona a memoria Bach e Beethoven, scorretta in qualche punto, arbitraria in altri: ma che carattere! che ispirazione! Chopin diventa quadri d'anime sotto le sue dita, Mendelsohn luci e ombre, Grieg plastica, Bach e Beethoven canti di portentosi baritoni del cielo: ascoltando lei io credo all'Olimpo, al Walhalla e al Paradiso! 

"Ma t'ho parlato già troppo dì me e della mia casa. Dimmi di te. Io mi sento come uscito da una malattia. Mi stupisco ogni tanto di non trovare più in me gl'impeti, gli scatti, le voglie irrequiete di mordere il mondo. Sto meglio? Sto peggio? Chissà. Forse imborghesisco. Scriviamoci spesso, Ninì, e procuriamo rivederti presto. Può darsi che da un momento all'altro io faccia una riapparizione a Roma. 

"Ti abbraccia tuo fratello Bruno ". 

*** 

Lettera di Alba a... 

"Ti confesso che non posso più scriverti senza sentirmi a disagio. Dacché Bruno è ritornato a stare con noi, dopo sette anni di assenze quasi continue, temo che egli possa sorprendermi a scrivere queste lettere. Naturalmente, mi domanderebbe: "A chi scrivi?" e potrebbe credere che io scrivessi a qualcuno di quei giovinotti del Vittorio Emanuele o dell'istituto Tecnico, che vanno dietro alle ragazze del Maria Adelaide o del Turrisi Colonna, e che a me invece sembrano così buffi. Dovrei dirgli, allora, la verità. Ma come si fa a dirgli: "Scrivo a lui, al mio unico confidente, allo spirito che mi protegge?" Egli non crede a queste cose. Queste cose forse per lui non esistono. Giusto ricordo d'aver sentito dire una volta proprio da lui che le cose esistono soltanto quando noi le crediamo. Io credo. in te, oh sì, ciecamente: tu forse sei lo spirito del mio povero babbo: ed ecco che tu esisti. E poi, io sono una persona di poco conto - e gli esseri superiori che proteggono, gli spiriti custodi ci sono per queste persone. Bruno non ne ha bisogno: si protegge da sé, non ha paura di nessuno; si vede subito dovunque si trovi; messo tra cento uomini, tra mille, basta guardarlo, per vedere che è lui il primo. Anche il mio povero papà lo diceva; e si che papà non era uno qualunque - gli si leggeva sulla fronte che sapeva comprendere molte delle cose che stanno più in su. Ebbene, Bruno ne comprende più di papà. 

"Ma chissà se comprenderebbe questa cosa mia, che è troppo piccina. Tu, Custode, sei grande: non dico di te. La piccina sono io, che sento questo bisogno di scriverti perchè a pensarle soltanto, le mie confidenze, non le sento uscire dal mio cuore; scritte, invece, esse si staccano da me, diventano cose, esistono. E giungono fino a te meglio, col mezzo che ho trovato, da quando cominciai quattro anni fa. Appunto: e se Bruno mi sorprendesse invece quando, in un angolo del giardino, io brucio una di queste mie lettere? e mi chiedesse: "Che bruci? tu nascondi un segreto!"? io non potrei rispondergli: "è la lettera pel mio spirito confidente. Egli sta in aria, nel cielo; bruciando le mie parole, trasformandole in fiamma esse lo raggiungono, diventano elemento familiare per lui". Egli non mi crederebbe o riderebbe: gli uomini grandi come Garibaldi, Dante, Beethoven, Valjean, lui, trattano da bambine le ragazze; e forse non hanno tempo e modo di capire certe cose. E del resto so già che tutti riderebbero di ciò; tranne la madrina Vittoria forse, che non mi ha mai dato sulla voce quante volte le ho detto che intravedo tante cose belle fra la terra e il cielo. E anche lui, Bruno, lo dice senza parlarne quando ci legge qualche bella pagina degli autori da noi preferiti, o quando gli suono al piano l'Eroica o la Quarta o i Notturni. 

"Insomma, temo che questa sia l'ultima lettera, almeno per ora, che io ti scrivo. Ma no: può darsi che abbia molto da scriverti se davvero mamma Vittoria andrà a villeggiare con Bruno. Io credo che la mamma insista ad andarvi anche per evitare che Bruno ritorni a Roma ove di tanto in tanto accenna di voler fare una scappata. Sì, perchè non è sempre che noi gli bastiamo: c'è quando dentro quei suoi occhi pieni di mondo s'affaccia un pensiero estraneo. Non riesco ad esprimermi; ma so che cosa voglio dire, e anche tu mi capisci. C'è quando vede il suo giusto posto, che dovrebbe essere in alto come quello d'un re; c'è quando rivede le donne cattive che gli hanno impedito di raggiungere quel posto Si, io so queste cose, per quel che se n'è lasciata scappare mamma Vittoria; ma di sicuro non so nulla. 

"Per ora ho molto da fare: Bruno in casa, la madrina che sta male. La malattia di mamma Vittoria mi fa pensare che anche lei possa andarsene via da un momento all'altro come il povero babbo. Ciò non dovrebbe essere. Anche se si va in Paradiso, è così brutto morire! Mi fa un senso d'affogare, di limo, di buio tutto dentro. E poi non mi piacerebbe lasciare le persone e le cose care; pei luoghi lontani non m'importerebbe niente, ma per questi? perchè il Signore permette che vogliamo bene a questo e a quello e poi ci porta via da soli, accanto a sé? Io lo amo e lo prego, il Signore; ma Egli non dovrebbe far morire mamma Vittoria, perché sono certa che essa ama tanto Bruno e me, che preferisce starsene con noi piuttosto che andarsene in Paradiso. Sono così anch'io: morire ed essere beata è nulla, senza il nostro giardino con gli uccelli, ove si passeggia con mamma Vittoria convalescente e con Bruno che mi parla di tante cose... 

"Quanto parla ora Bruno con me! Forse prima gli sembravo sciocca e brutta. Eh si, riconosco che non sono brutta quanto prima, specialmente se mi pettino bene e mi arriccio un poco i capelli, come lui preferisce. Gli piace carezzarmi i capelli mentre mi parla e m'insegna un po' del tanto che sa. Come siamo felici tutti e tre, allora, anche mamma Vittoria che ci guarda! Stamane, poi, egli è stato zitto zitto a fissarmi i piedi, tanto che io me ne sentivo confusa e non sapevo dove nasconderli perchè la gonna, come è ora di moda, è troppo corta. Finalmente mi ha detto che li trovava piccoli, i più piccoli - dice - che abbia mai visto. Ha detto anche belli. Io ho chiesto: "come quelli di Cenerentola?" "Forse " ha risposto. Poi ha voluto carezzarli e io ne ho provato molta vergogna, ma ho sentito anche passare dentro di me una musica e nel sangue tanto miele. 

"E' l'orgoglio di essere notata per qualche cosa da una persona grande come lui!".

V

Si parlava già di far le valigie, quando giunse un telegramma da Milano. Di chi? Di una persona dimenticata: di Flavia. 

"Aura sposata compiendo viaggio di nozze verrà visitarvi". 

Aura? ma sì, la nipote, la bimbetta che aveva allora sette anni, compagna di spiaggia della piccola Alba. Giù sposata? Ormai doveva averne diciotto. La zia se ne era voluta sbarazzare alla prima occasione: aveva sempre detto che i legami la seccavano. 

Bisognò accogliere in casa i due giovani sposi. Lui, Donato Corbelli, abruzzese, ventotto anni, funzionario di concetto all'Intendenza delle Finanze, era stato destinato nientemeno che ad Augusta: il loro viaggio di nozze era, in fondo, un viaggio per raggiunger la sede. Alto, magro, fronte bassa, brachicefalo, prossimo cavaliere, taciturno, freddamente cortese e sicuro di sé in tutto, anche nelle cravatte che parevano tessute apposta per lui. La sposina era secca e lunga come una gruccia, tutta naso e tutt' occhi, il naso di sua zia Flavia più pronunziato. Gli occhi non si poterono veder bene mai, nascosti sotto l'ombra delle sopracciglia e dei capelli nero-bluastri e lucenti, come la materializzazione della notte con riflessi di luna. Più taciturna del marito, lo ascoltava nelle succinte e serie concioni, con l'aria clic dove vano avere le antiche sacerdotesse di Delfo all'udire l'oracolo. Non scambiò una sola parola con Bruno, poche con mamma Vittoria, si abbandonò a confidenze e a colloqui bisbigliati soltanto con Alba, la ritrovata amica. Della zia Flavia diedero scarse notizie: era rimasta vedova e padrona di un buon patrimonio, ma in lite con altri eredi del defunto marito; viaggiava molto; si faceva grigia. 

Bruno non fu entusiasta di quegli ospiti. La sua inattesa cugina lo annoiò. L'indesiderato cugino, che - quando egli parlava non gli prestava quel tanto di attenzione che merita un applicato di terza classe, gli fece capire che per lui gli uomini cominciavano appena dai capi-ufficio. 

Sicché, dopo due giorni, quando annunziarono la loro partenza, nessuno ebbe cuore di far complimenti per trattenerli. 

Non possiamo farne a meno spiegò Donato Corbelli, convinto di attutire un loro rammarico dovete scusarci: dopodimani debbo ricevere la consegna del mio ufficio ed entrare subito in carica. 

Se avrete bisogno di qualche cosa si trovò costretta a dire la signora Vittoria scriveteci, non ci risparmiate. 

Soltanto alla stazione, quando il treno si mosse, Bruno vide dal finestrino del vagone Aura guardarlo con grandissimi occhi pieni di sgomento. 

*** 

All'arrivo a Trapani, benché avessero telegrafato, Bruno e la mamma non trovarono ad attenderli che Berto, il facchino, col vecchio omnibus dell'albergo. 

Bacio le mani, signora; bacio le mani, avvocato. Come la manna li ho desiderati! Mi viene da mordermi le mani a pensare che se fossero arrivati prima, due mesi prima, le cose ora andrebbero lisce un olio. Invece... Tutto si stanno mangiando! Il mio povero principale non capisce più nulla e lascia fare a chi ne ha voglia. 

Appena all'albergo, montarono subito da zio Giovanni. Se ne stava seduto, in maniche di camicia, con le spalle alla porta, parendo assorto a guardare dalla finestra la sottostante marina, coi montucoli di sale e le girandole dei mulini a vento, lontano. Ma tra lo spettacolo e i suoi occhi c'era una nebbiola di dissolvimento. 

Come stai, zio Giovanni? 

Niente, niente! rispose con aria di fastidio ora sto meglio. Tutto finito, tutto finito! 

Ci accogli come persone moleste... 

Giovanni sbottò a piangere. Li abbracciò, tremolante e scosso da singulti che facevano trabalzare la massa flaccida del suo corpo da Budda. 

Non è questo; ma mi volete mandar via.., siete venuti per mettermi sulla strada. 

E lì tutta una serqua di frasi sconnesse, interrotte da frequenti colpi di tosse, che lasciavano intendere come fosse stato infarcito di sospetti a carico dei parenti. Quando la signora Vittoria accennò al suo desiderio d'andare in montagna, per provare di rimettersi all'aria buona, egli disse: 

Sì, sì voglio venire anch'io. Andremo insieme. Voglio rimettermi io pure e tornare presto agli affari. Andremo domattina tu e io. Brunetto resterà a vegliare. 

E un altro pianto angosciato e flebile da bambino. Berto e la guardarobiera, che era accorsa pure premurosa, assistevano quegli tentennando il capo, questa con le mani intrecciate sul grembiale bianco. Quando arriva Gaetano Bonsignore, il segretario, non più dimesso come una volta, ma ripulito, sbarbato di fresco e giovanile. Si cavò la paglietta e la posò col bastoncino su una sedia: 

Che c'è? Che c'è? si calmi principale, si calmi! esclamò con voce sonora Signora... avvocato... benvenuti. Come stanno? E voi alle persone di servizio che fate qui? c'è spettacolo, al solito? Andate a lavorare, via! Lo vedono, lo vedono, lo zio? Un ragazzino, né più né meno. 

La mamma non diceva nulla, ma guardava dal fratello a Bonsignore e al figlio con occhi pieni del timore di qualcosa di grave. Bruno cominciò a sentirsi il respiro più frequente, che gli dilatava le nari. 

Che c'è, insomma? domandò con un tono che egli cercò rendere naturale, ma che provocò invece un trasalimento simultaneo in tutti i presenti, perfino nello zio così imbambolato com'era. 

Bonsignore abbassò gli occhi, rimase un momento interdetto. Si abbottonò la giacca, poi disse, un po' di traverso, movendosi verso la porta: 

Ora le spiegheremo tutto di sulla porta chiamò verso le scale ehi, Mimì, vuoi favorire? Camillo, venite su. 

Apparvero, muti, l'uno dopo l'altro, un signore e il portiere. 

Questo signore è l'avvocato Mimì, anzi Domenico Cavallaro, presentò Bonsignore, rialzando a poco a poco la voce e gli occhi che sa dall'a alla zeta, e che cura gl'interessi di suo zio. Il portiere può testimoniare di quanto io le dirò. 

L'avvocato Mimì era un omaccione bruno e sanguigno, con occhietti neri dalla punta canzonatoria. Era entrato col cappello in mano, ma col sigaro in bocca. 

Piacere, disse a Bruno con un inchinare del capo a destra. 

Si compiaccia rispose Bruno senza porgergli la mano buttar via quel sigaro perché, oltre il resto, disturba mia madre e mio zio. 

L'avvocato spense il mozzicone strusciandone il fuoco contro la parete, e se lo pose in tasca. 

Non possiamo andare a discorrere altrove? fece Bruno squadrandoli. 

E perchè? domandò Bonsignore, accomodante e teatrale, allargando simultaneamente le braccia a palme supine. Quel che dobbiamo dire è semplicissimo. Ieri l'altro, a istanza di un creditore, è stato dichiarato il fallimento dell'azienda. Io sono incaricato dell'esercizio provvisorio. L'avvocato è il curatore. Data la malattia di suo zio, lo abbiamo lasciato sempre nel suo appartamento...

Dio mio! balbettò la signora Vittoria. 

Non si poteva avvertirmi in tempo? domandò ancora Bruno con calma prima di lasciare giungere a tanto? 

Non si prevedeva... benchè io fossi il maggior creditore... e creditore privilegiato... 

Creditore e privilegiato di che? 

Di stipendi arretrati, di indennità, come direttore. Suo zio mi ha riconosciuto il credito. Ecco qui la sua obbligazione... Domani, se l'albergo si dovesse riscattare, il maggior titolo sarebbe mio. Non è vero, Mimì? 

E intanto Bonsignore aveva cavato dal portafogli un documento in carta bollata e lo mostrava a Bruno. Costui lesse poche parole dattiloscritte: "Trentamila lire.., direttore dell'azienda..." e in calce lo scarabocchio della firma dello zio: "Giovanni Armellini". Lesse anche la data: giugno 1912. Il foglio era però nuovissimo. 

Sì - confermò lo zio l'ho firmato l'altro giorno. 

Ma che dice - sghignazzò malamente Bonsignore. Non ricorda più la data. L'altro giorno ha firmato, sì, ma non questo. 

E cosa pretende lei con cotesto pezzo di carta? chiese sempre calmo Bruno a Bonsignore. Vide che gli altri attorno stavano attentissimi. L'avvocato guardava un'oleografia della Madonna, ma tentennava nelle gambe come se avesse la paralisi progressiva. Bonsignore s'infuriò. 

Cosa pretendo? Lo senti, Mimì? Te lo dicevo io che qui finisce male? Pretendo il mio avere e per ora la mia posizione. Qui comando io... 

Dove sono io gridò Bruno non c'è che uno solo a comandare, ed eccolo! 

E avanzò d'un passo. Bonsignore indietreggiò di due e si venne a trovare fra l'avvocato e il portiere. L'avvocato fece un cenno d'invito alla calma col cappello che aveva in mano. S'udì la mamma implorare: 

Bruno! 

Ma Bonsignore, vedendosi fiancheggiato, non cedette: 

Io ho facoltà anche di mettere alla porta i parenti dell'ex proprietario. 

Bruno fece un balzo e prima che i presenti se ne rendessero conto, gli scaricò a due mani sei o otto schiaffi scroscianti. Si udì subito un gridìo generale. L'avvocato avanzò le mani per afferrare Bruno, esclamando: "Ma che maniera!..." Berto e Amelia s'intromisero, e anche Camillo si trovò in mezzo giusto a tempo per ricevere uno scapaccione che Bruno aveva lasciato andare all'indirizzo di Mimì Cavallaro. Bonsignore, sulla porta, con la faccia verde zebrata di rosso, urlava: 

Me ne debbo bere il sangue! Tutte coltellate e palle di rivoltella debbo dargliene! 

Accorse gente - camerieri, pensionanti - e si tirarono via il segretario convulso e l'avvocato che minacciava di dire e fare cose terribili. Bruno restò padrone del campo, con Amelia e Berto che cercavano calmarlo, e di sulla porta gridò: 

Stasera stessa vado a denunziarli al procuratore del re, questi due cialtroni! Tutti e due! Per falso e abuso di un minorato... 

Queste parole fecero immediatamente tacere nelle stanze di là gli strilli di Bonsignore e le bravate di Cavallaro. Bruno si volse sentendo un pianto angosciato: era lo zio. S'avvide anche che la mamma era caduta per terra lunga distesa. Le si curvò accanto: 

Mamma! Mamma! la chiamò interrorito. 

Un deliquio. Berto e Amelia la posero a letto in un'altra stanza, le fecero odorare Colonia, le spruzzarono acqua in faccia. Quando riaprì gli occhi fissò il figlio e scoppiò in singhiozzi soffocati e stenti che parevano squarciarle il petto. 

Bruno mio! Bruno mio! Vuoi farmi morire? articolò appena con le labbra. Infatti egli aveva dimenticato la mamma, nell'eccesso della sua collera, e se ne sentì colpevolissimo. L'abbracciò strettamente, le chiese perdono e cominciò a parlarle come quando era bambino che voleva farsi assolvere d'una scappata. 

*** 

Pel momento la mamma parve rimessa. Ma Bruno volle che restasse a letto e le lasciò accanto Amelia a tenerle compagnia. Egli andò da un avvocato che gli suggerirono: Stagno. 

Bonsignore, eh? fece costui aggiustandosi le lenti sul naso appena messo al corrente dei fatti don Gaetanino, eh? Da un pezzo io gliele avrei sonate prima di lei se... perchè sono capace anch'io di mettere a posto un individuo, che le pare? Osò mandare due volte a sollecitarmi per una miseria di dodici gelati che avevo dimenticato pagare, in occasione del mio onomastico. Basta, lasci fare a me che ci sgnaccheremo una denunzia coi fiocchi, per lui e per l'avvocato Nespola, suo compare. Vuole compiacersi a lasciarmi qualche cosa per le prime spese?... Oh, quel che crede.., così, cento lire... Benissimo! 

Bruno tornò all'albergo a sera avanzata e trovo che la signora Vittoria giù dormiva, supina, a bocca aperta, col respiro un po' greve e sibilante. Mise in libertà Amelia, che s'era pure appisolata sulla sedia e si coricò anche lui, in un lettino accanto, dopo avere baciato la mamma. 

Faticò molto a prender sonno. In una camera sotto, una voce monotona raccontava chissà che cosa e un'altra, stridula e aspra, le rispondeva di tanto in tanto. Lo scirocco fuori imperversava gnaulando e facendo stormire gli alberi della marina. Una sirena di piroscafo ululò più volte, ricordandogli certe paure notturne della sua infanzia. Un orologio da un campanile vicino ogni quarto d'ora buttava giù rintocchi e rintocchi in pasto ai cani volanti delle raffiche che li addentavano e li portavano via a brandelli... 

Poche ore dopo sentì una strana molestia, che lo ridestò lievemente. Teneva gli occhi serrati, per non svegliarsi del tutto, sforzandosi a continuare un sogno nel quale Myriam, piangente e supplichevole, lo chiamava con un sospiro: "Bruno! Bruno!" Sentì un gemito più chiaro e aprì gli occhi: l'alba traluceva dagli spiragli delle imposte, permettendogli di scorgere nella penombra qualcosa di bianco che si agitava presso di lui. Balzò dal letto: la mamma tentava alzarsi faticosamente, senza riuscirvi. Aprì la finestra e accorse a lei. 

Che hai, mamma? le chiese, sollevandola e appoggiandola a sé. Ella non profferì sillaba, ma gl'indicò con un cenno un pacchetto di polverine che usava prendere, posato sul comodino. Egli preparò la pillola e gliela pose nella bocca socchiusa, sulla lingua sporgente. Ma la lingua non si ritrasse per inghiottirla, l'acqua si sparse dal bicchiere appressato alle labbra, ed ella ricadde piano piano, di fianco, sul cuscino, con gli occhi chiusi. 

Mamma! chiamò Bruno, con la voce che aveva avuto da bambino, curvo su lei, spaurito senza sapersi spiegare di che. Ella apri le palpebre, lo fissò, sorrise a stento, mormorò alcune parole incomprensibili e si rilasciò di nuovo nell'atto del sonno, respirando pesantemente. 

Bruno si vestì in fretta alla meglio, e corse per il corridoio fino alla camera della guardarobiera. Non lo sorprese trovare Amelia a letto e Berto, semisvestito e russante, lungo disteso per terra, sul tappetino. 

Presto! gridò chiamatemi un medico... qualcuno... 

Berto, ridestato di soprassalto, si fregò gli occhi emettendo un grugnito. Ma Amelia, dopo un: "Mio Dio!", ammantatasi nel lenzuolo, lo trasse su a forza: 

Avete sentito, Berto? Che fate qui? Cosa può supporre il signorino? Andate subito subito a prendere un medico per la povera signora... Si calmi, signor Bruno... 

—  Subito subito un medico ripeteva Berto, rabbuffato e scarmigliato mentre si calzava le scarpe qualunque cosa per la signora e per il signorino!... 

Bruno ritornò accanto alla mamma ove Amelia venne a raggiungerlo, dopo avere indossato una vestaglia sulla camicia. 

Riposa, non vede, signor Bruno? riposa.., vedrà che non è niente. Ora verrà il dottore... ci siamo noi... 

Il dottore arrivò un quarto d'ora dopo, con Berto ciarlante e gesticolante che lo guidava. Era un tenente medico dalla divisa trasandata, grassoccio, rosso di capelli, grondante sudore. Si asciugò la fronte, montò lo stetoscopio, palpò, ascoltò l'ammalata, le abbassò una palpebra per osservare la sclerotide. 

Un po' di alcool, domandò; Berto corse a prenderne cd egli si frugò nelle tasche, aggiungendo: Per fortuna ho portato l'occorrente. 

Sentendogli dire "per fortuna" Bruno pensò che non ci fosse nulla di grave, e che, col rimedio del tenente medico, la mamma dovesse ritornare in sé subito. Seguì con attenzione le grosse dita bianche, un po' tremanti, di costui che disinfettavano una siringa, spezzavano una fialetta, inzuppavano nell'alcool un batuffoletto di cotone. Mentre il medico era piegato sull'ammalata, per eseguire l'iniezione, egli notava anche grosse gocce di sudore che gli scendevano giù per la nuca rossa e taurina. Berto e Amelia si sporgevano a guardare ogni mossa in silenzio, fissi, con facce attente, tese. Si udiva il respiro grosso, della signora Vittoria e quello affrettato del dottore; davano fastidio soltanto, giù dalla strada, uno strascicare di zoccoli, avanti e indietro, e un tonfare di mazzuola che frantumava ghiaccio, nella gelateria. 

Ecco fatto concluse il medico, asciugandosi ancora la faccia e poi rimettendo in ordine i suoi strumenti. Non c'è da tentare altro. Forse a provvedere prima.., ieri.., ieri l'altro si sarebbe concluso di più... 

Ma... domandò Bruno, guardando tutti in viso non prescrive niente?... Alimentazione.., medicine?... 

Io non ho potuto dare che un pronto soccorso rispose il tenente senza alzare gli occhi sono venuto troppo tardi. 

Ma allora domandò ancora Bruno con impeto lei mi dice che per mia madre non c'è più speranza?... 

Quegli allargò i gomiti e alzò le spalle. Bruno scoppiò in singhiozzi e corse a inginocchiarsi dinanzi a una poltrona affondandovi la faccia. Non vide, non capì più nulla: sentì a lungo il proprio pianto disperato, accompagnato da parole mozze, da invocazioni dissennate. Qualcuno gli toccò leggermente una spalla, gli disse piano qualche frase pietosa... Finché si rialzò e tornò accanto al letto. ove ella continuava a respirare forte, occhi serrati e bocca semiaperta. 

Mamma! chiamò, curvo su lei. E tosto un occhio, uno solo, si spalancò, roteò cercando i suoi occhi, vi si affissò un istante, dilatato, umido e folle d'angoscia e d'amore; poi la palpebra greve tornò a velarlo. 

Cento volte ancora, lungo quel giorno interminabile, la chiamò così, con la voce disperata da ragazzo smarrito, che affoghi, con un terrore indici. bile, che non lo faceva piangere più, ma che gli consentiva soltanto di rantolare anche lui chiamandola, e di contorcersi e tendere i muscoli ed aspirare a stento, mimeticamente, dietro l'agonizzante; e l'occhio appassionato si aprì immenso a fissarlo, a ogni richiamo, solo vivo, solo forsennatamente vivo ed eloquente, pieno di dolore, d'amore, d'urli, di pianto e di luce. Ma a poco a poco non fu più che una contrazione tremula della palpebra, un sussulto della pupilla sotto la palpebra; finché nessun moto più lieve rispose all'appello del figlio urlante e singhiozzante. E l'ultima fievole luce si spense. 

Quando non la sentì più rantolare, Bruno gridò: 

Mamma! Mamma! Non andartene! Sono stato io! Te ne vai più presto per me! Per me! 

S'attaccò a lei e la baciò e la tenne fra le braccia finché non si accorse che cominciava a farsi di gelo.

VI

Tutta notte, solo con quel che restava della mamma nel lettuccio straniero, Bruno si aggirò senza più lagrime fra le quattro pareti straniere. Quel che restava di lei era una piccola cosa sotto un lenzuolo, con una maschera smunta, cerea ed augusta, incorniciata da una cuffia bianca, simile ad un'aureoletta monacale. Neppure un fiore s'era potuto trovare stante l'ora tarda: soltanto la parrocchia, col prete per la benedizione, aveva mandato quattro ceri che ora si disfacevano, esalando fumo e lezzo da mozzare il respiro. 

Quella era e non era più la mamma. Mai Bruno aveva visto cadaveri prima d'allora; e ogni tanto si soffermava a guardarlo, parendogli di volta in volta che andasse restringendosi, svanendo. Un momento una bolla d'aria gorgogliò tra quelle labbra serrate ed egli ne ebbe un sussulto terribile, nell'attesa di un miracolo. Un miracolo! Amelia, pocanzi, Berto, altri venuti a guardare l'agonizzante, avevano detto che un miracolo avrebbe potuto ancora salvarla: un miracolo della Madonna o di Dio! Dio! Dio! Non lo aveva invocato più da anni, e si chiese se non avesse avuto il torto di trascurare la fede. e Dio! Dio! chiamò dentro di sé, irrigidendosi in una tensione spasmodica di tutto l'essere, volontà e muscoli non t'ho chiesto mai nulla; ma questa volta, la prima volta, credo in te, credo in te; ma tu dammi..." Che cosa? non ardì dire che cosa. La preghiera, la volontà, la tensione, quel pensiero, si dissolsero presto, senza insistenza, senza risposta, il lettuccio, i ceri, il magro viso senz'anima eppure pieno d'espressione e di significato formidabili, avevano un'eloquenza che superava qualunque raziocinio. La sua sensazione maggiore, invincibile, fu la solitudine assoluta: benchè chiuso in una piccola camera, benchè limitato ai quattro lati dai muri, egli sentì circolarsi attorno, senza fine, la notte, il vuoto, il freddo, quali apparivano dal quadro della finestra spalancata sul buio della strada e del mondo. 

*** 

Dove sei, dove sei, Vittoria Armellini? Quella creatura infinita, metà dell'universo, non sarebbe più che un nome, un nome che un giorno non risuonerebbe neppure più come un ricordo. Metà dell'universo. L'altra metà era stata lui, Bruno, cresciuto a poco a poco accanto a lei, aumentandosi man mano che ella diminuiva, alimentandosi di lei, del suo latte, dei suoi sorrisi, del suo pianto. E così erano stati un tutto che comprendeva anche i cari, gli amici, le cose conosciute, le parole, i pensieri di lui e della mamma. Poi egli aveva frantumato la propria metà, dietro amici, donne, avventure, perchè? per farne una cosa ancora più grande da piantarcisi in mezzo, da giganteggiarvi e da restarvi. Restare come tutti i grandi ricordati da secoli: Omero, Alessandro, Socrate, Cesare, Gesù, Dante, Colombo, Napoleone. Nomi, quanti nomi; Ma niente altro che nomi, in fondo, come Vittoria Armellini. 

Le stelle sole, brillanti nel quadro della finestra spalancata sul buio della strada e del mondo, le stelle sole restavano, avevano luccicato ugualmente nell'universo di Omero, di Socrate e di Cesare, come in quello della mamma morta, come in quello di lui che pure doveva morire, sole immortali senza nome. 

L'alba cancellò le stelle, l'una dopo l'altra. Ma per poche ore. Ognuna di quelle fiammelle ha in sé la potenza di mille albe e di mille meriggi, e continuerà a brillare oltre il transitorio cerchio di quella luce comune agli nomini che si chiama giorno e che altro non è che una meteora nell'universo della mamma e di Bruno. 

*** 

Arrivarono la zia Anna e Alba: Alba pianse sulla fronte gelida e paurosa della morta, pianse al collo di Bruno. La zia stette immobile, diritta un pezzo, ai piedi del letto fra due ceri. Poi pensò ai fiori, alla bara, al trasporto a Palermo. Disse quel che bisognava fare, senza attendere risposte che non avrebbe udito; e tutto fu fatto. 

Prima di partire col feretro, Bruno volle andare a vedere lo zio Giovanni, al quale non si era potuto comunicare la sciagura, perchè neanche lui stava bene. Infatti lo trovò a letto, supino, schiacciato dal peso del ventre enorme e cascante, che sotto le coperte faceva come una capanna scoscesa. Il medico aveva detto quella mattina clic le condizioni del cuore erano peggiorate e che ormai si poteva soltanto reggerlo per pochi giorni ancora a furia di strofanto e di olio canforato. Teneva fisso al soffitto due occhi molli e anneganti, similissimi a quelli di sua sorella quando si era sentita male. E nel respiro faticoso attraverso la bocca socchiusa, due incisivi superiori, due dentoni giallastri attaccati ancora appena alla gengiva, andavano su e giù col ritmo del fiato, come pezzetti di cartone sull'orlo di un mantice. 

Zio, parto; gli disse Bruno, piano, asciugandogli un filo di bava all'angolo delle labbra vado ad accompagnare la mamma che sta male... ma tornerò a vederti. 

Lo zio girò verso di lui i due occhi torpidi e lenti. 

Torna presto... che c'è molto da fare gli rispose tutto d'un fiato, con voce piena di catarro; poi riprese a fissare il soffitto e a respirare fondo fondo, col su e giù dei due denti. 

Nella camera, fra altri, Bruno notò l'avvocato Stagno, che vistosi guardato gli andò incontro per stringergli vigorosamente le mani con un brontolio di condoglianze. 

La pratica è già all'ordine gli bisbigliò poi ma... ma... ci sono novità... 

Che cosa? domandò Bruno senza interesse. 

Quella gente vuole accordarsi... chiederle scusa... riconoscono i loro torti. Si farà un concordato... Eh, glielo avevo ben detto che dove ci sono io... ma bisogna che lei faccia interdire suo zio... 

Bruno guardò la grossa massa pietosa, fiatante sul letto; e disse: 

Provveda lei come potrà... io non voglio pensare più a nulla. 

*** 

A Palermo trovarono già risolte le pratiche pel seppellimento. La signora Collebrina ne aveva affidato l'incarico al suo impiegato di fabbrica, il ragioniere Enzo Guttierez. E la mamma poté andare a farsi chiudere nel piccolo cubo cementato della tomba gentilizia, col massimo ordine. 

In casa Collebrina non c'era più nessuno durante il giorno: i figli maggiori, soldato l'uno e dichiarato disertore l'altro rimasto, sordo alla chiamata, in America; Stella partita pel fronte con un reparto della Croce Rossa; Diana a Catanzaro col marito esonerato perché necessario al servizio; Cavour all'opificio con la mamma, quando non faceva qualche scappata per conto proprio. Le domeniche c'era sempre a pranzo il ragioniere Guttierez, tutto premure per la sua principala

Alba non smise la sua consuetudine di vivere, tranne la notte, in casa Soveria: perché non doveva esserne più la bimba, ora specialmente che un sì grave dolore vi metteva tanta ombra? Nessuno, certo, pensava ad impedirglielo: non sua madre che la vedeva appena la sera, distratta dalla fatica diuturna e dalle preoccupazioni; non la nonna quasi ottuagenaria saldata al suo seggiolone da mane a sera; non la prozia di Bruno, occupatissima dell'andamento di casa. 

Del resto, data la stagione ancora calda, Alba e Bruno trascorrevano gran parte delle giornate in giardino. In casa, a girare per le camere alitanti ancora della presenza invisibile della morta, Bruno diventava triste. Alba lo sorprese una volta, dinanzi al letto della mamma, e lo abbracciò stretto stretto, singhiozzando: 

No, Bruno, non fare così... Lei stessa non vuole, certo se ne accora molto lassù, dal Paradiso dove prega per noi. Mau, Mau, guarda la gattina Alba che piange anche lei! 

Dopo dieci giorni Bruno dové riassentarsi, chiamato urgentemente, per andare a seppellire anche lo zio Giovanni, dichiarato definitivamente fallito dal tribunale sei ore prima della sua morte. Bonsignore si squagliò senza neppure insinuare il suo presunto credito. L'avvocato Stagno, incassate le prime laute prebende, promise all'erede di provvedere ai suoi interessi e di salvargli, almeno al settanta per cento, l'asse patrimoniale e le somme prestate allo zio vita natural durante. E Bruno ritornò, più taciturno e triste, senza voglia a nulla. 

La prozia Anna, informata alla meglio di questi ultimi avvenimenti, mandò un giorno a chiamare il suo vecchio avvocato Geraci, col quale stette chiusa nello studio più di un'ora. Alla fine si presentarono insieme, in giardino, a Bruno, che se ne stava solo a leggere, in attesa di Alba. 

Senti quel che ti dirà l'avvocato, gli disse la zia e sta bene attento. 

Caro Brunetto, prese a dire il vecchio Geraci sedendogli accanto so che lei non ha mai fatto caso ai suoi interessi materiali; e ciò è un pregio e un torto. Sì, torto anche, non se ne scappa, poiché siamo tutti mortali e pieni di bisogni fisici: l'uomo, in fin dei conti, non è che un tubo digerente, con contorno di cervello e (piano) di glandole sessuali. Lei mi risponderà, lo so, che in qualcuno il cervello domina il resto; già, ma senza il tubo il cervello non si alimenta e finisce come nella parabola di Menenio Agrippa. Parliamo, dunque, un poco della sua situazione economica. La sua povera madre, tra la propria dote e quel che aveva lasciato papà suo, possedeva all'incirca trecentocinquantamila lire, le quali, grazie a felici investimenti, in mutui e in azioni sulle ferrovie, da me consigliate, raggiunsero in un dato momento le quattrocentomila. Sennonché circa duecentomila furono portate via, con la persuasione, o con le cambiali false, da quello sciagurato di suo zio; novantamila sono state investite, in due riprese, nell'acquisto di questo villino che - sia detto fra noi - non le vale; sessanta o settanta mila le ha spilluzzicate lei, tra l'impresa del giornale di Roma, viaggi e minuti piaceri. Ergo, al momento lei possiede, a conti fatti, quarantacinquemila lire in cartelle di rendita al tre e mezzo per cento e la casa col reddito che essa darebbe se gli unici inquilini, cioè gli ex proprietari, pagassero. Ma da tre mesi la signora Collebrina non paga. Quindi lei non può contare che su un reddito di centotrenta lire al mese, nette. Sua zia qui presente, però, è disposta, come non faceva pel passato, a contribuire alle spese familiari con duecento lire al mese del suo. I tempi sono difficili, la vita rincara, e lei può, se la guerra continua, essere chiamato sotto le anni da un momento all'altro... 

Mi cercherò un impiego, rispose Bruno. 

*** 

Ma sì, si fa presto a dirlo! Bisogna anche saperselo trovare, l'impiego. Presentò la domanda al ministero degli esteri, con la quale rinunziava al resto dell'aspettativa e chiedeva essere riassunto subito in servizio a Roma stessa o altrove. 

Un giorno, sul far dì settembre, con un umore nerissimo, s'era seduto in giardino, sotto il pergolato di rose sulfuree, che colmavano l'aria del loro profumo denso, quando venne .a raggiungerlo Alba; ma visto riuscire inutile un suo sorrisino, e un suo tentativo di attaccar discorso spuntarsi contro la distrazione e il malumore del "fratellino", gli si pose accanto cheta a lavorare a un suo punto a croce. 

Il fioccare di petali di qualche rosa che si sfogliava al minimo soffio d'aria le faceva di tanto in tanto alzare gli occhi per guardare intorno. Guardando così, scorse a un tratto una goccia che scendeva lungo una gota di Bruno. E allora si alzò e gli buttò le braccia al collo, come soleva da bambina, quando bisognava prenderlo con le buone per ottenerne qualche cosa. 

Se sapessi, Albetta! disse lui quante cose cattive nel mondo. 

Lo capisco, rispose ma qui no; non ti pare? Tu non sei cattivo, la zia Anna non è cattiva; non lo sono neppure Sahib e Ciccio, guarda, che dormono abbracciati in mezzo all'insalata... Lo sono io, forse, che non riesco a farti dimenticare tutte le cose cattive che gli altri ti hanno fatto?... Aspetta, sono diventata troppo grande e non ti sto più tutta sul petto, come quando mi prendevi in braccio.... Ecco, siederò e allungherò le gambe sul sedile, e tu abbraccerai così mezza di me... e ti farà l'effetto che io sia piccola e leggera come a sette anni... 

E ridendo eseguì, gli mise le braccia al collo e gli appoggiò la testina sul cuore. Poi gli disse: 

Su, prova ora a sorridere. Guardami negli occhi. 

Bruno la guardò infatti dentro le iridi ridenti e subito ogni immagine di dolore dileguò in lui. Così, appoggiata fra le sue braccia e supina, la percorse tutta con lo sguardo, dai capelli ai piedi. I capelli erano ondati e acconciati ampi e soffici attorno al viso, come una raggera accesa da riflessi d'oro, e lasciavano scoperte le orecchie trasparenti e rosee come conchiglie; i piccoli piedi erano inguainati in stivaletti di fine fattura, dal tacco alto cd esile. Involontariamente allungò una mano a carezzare quei piedini così squisitamente modellati e calzati, li strinse fra le dita, forte, più forte e la guardò negli occhi, atteggiando la bocca a un sorriso un po' vacuo. E anch'ella sorrise, leggera leggera, con l'aria di ascoltare un discorso importante e piacevole, felice di vederlo così interessato a lei e così discosto dai pensieri molesti; e sussurrò con un verso da gattina, guardandolo con occhi un po' socchiusi: 

Mau! Mau! 

Egli pensò che era necessario ritrarre la mano; e la ritrasse a malincuore, lentamente; ma incontrò sotto le dita un ginocchio rimasto un po' scoperto dall'orlo della gonna e s'indugiò a carezzarlo, piano piano, sentendosi penetrare e invadere da un'onda calda e deliziosa. Improvvisamente, col cervello vuoto, raccolse la giovinetta fra le sue braccia, l'attrasse, si curvò sulla sua bocca luminosa e ne bevve per la prima volta la freschezza fragrante, a lungo, a sorsi, insaziabilmente. Desisté a una folata di vento che gli scrollò sulla testa e sul collo manate di petali carnosi, del colore e del profumo del viso di Alba impallidita. Essa rovesciò il capo, con gli occhi chiusi, e balbettò ancora: 

Mau! Mau! ma in un soffio, come se svenisse. 

*** 

Alba! Alba! Alba! Nel cervello, nel cuore, nelle vene di Bruno, irruppe un grido, un palpito, un canto, una luce, un tormento nuovo e impreveduto. Vederla, guardarla, avvolgerla tutta con gli occhi, udirla, ascoltarla, sentirsela accanto, carezzarla: questi erano i suoi desideri, i motivi della sua vita nelle ore, pochissime ormai, che le convenienze lo obbligavano a passare separato da lei. Pochissime: le notturne, fra le due e le otto del mattino. Sì, perchè, trascorsa insieme la serata fino alle undici o mezzanotte, presenti le vecchie signore appisolate dopo una breve conversazione, essi si ritrovavano all'aperto, lei dal balconcino della sua camera e lui da quello soprastante, ma disposti diagonalmente, sì da intravedersi al barlume della notte. 

Si dicevano centomila e una sciocchezze. Facevano a gara, senza accorgersene a chi ne dicesse di più. Egli cominciava, per esempio, così: 

Ti vedo benissimo. 

E lei: 

Anch'io: le stelle sono un lampadario grande grande, e t'illuminano. 

Oh, per te è meglio: t'illumini da te. 

E' vero: mi chiamo Alba. 

Alba. Ho fatto male finora a chiamarti Albetta. 

Perché? Ero piccola, prima. Mi faceva piacere sentire il mio nome così piccino pronunziato da te che eri così grande. E tu lo pronunziavi in modo diverso da tutti gli altri, come tutto di te era diverso dagli altri. 

Eppure qualche volta mi hai trattato male. Ti ricordi quel giorno che non volevi baciarmi? 

Te ne ricordi anche tu?... Sì... quando mi sentivo.., non so... come canzonata... come se io valessi nulla per te. 

Non era vero. Anche bambina bambina eri per me moltissimo. Ogni tanto tu venivi, senza nessuna ragione, a cacciarti nei miei pensieri... 

Invece, per me, erano altri e altre cose che venivano ogni tanto in mezzo al mio unico pensiero, che era la tua mamma e te. Qualunque cosa io facessi, dicevo a me stessa: chissà se la madrina e Bruno mi .approveranno. E aspettavo a ogni tuo ritorno di poter fare qualche cosa da meritare la tua attenzione. 

E non sapevi di averla in te. La prima cosa che io notai da quando venisti al mondo furono i tuoi capelli, che non somigliavano a quelli di nessun'altra bambina, tanto eran folti e mescolati di riccioli bruni e di riccioli biondi... Poi i tuoi occhi, così limpidi, così chiari. I capelli e gli occhi di Alba. Ieri, quando ti guardavo, mi pareva che le tue iridi fossero aperte, che attraverso di esse tu lasciassi vedere il cielo... Un momento cielo, un momento mare. Poi mi vi sono visto specchiato, due volte, e ho pensato che così in te io mi moltiplico, benché mi vi veda piccino. 

Sono io grande quando ti ho dentro i miei occhi... Tu arrivi in fondo in fondo: ecco perché ti vedi piccino. 

E come avviene allora che i tuoi occhi li porti sempre in me e che me li veda, incisi, come due fori su cielo e sul mare, dentro il cervello? Tu mi guardi di dentro, tutto, dall'alto, mi guardi e mi rischiari e impedisci a ogni altra immagine di penetrare. 

Oh sì, sì! So perchè! lo so! Perché io ti guardo spesso, più spesso la fronte, la tua fronte grande, cosi bella che non so dire, che pare comandi... non so... e preghi! E allora i miei occhi restano lì dentro e continuano a guardarti quando t'allontani. 

E tu come fai a vedere allora le altre cose, se io porto con me i tuoi occhi? 

Tu sei anche le altre cose, Bruno. Sai? Mi sono accorta alla fine, che nel mondo esistiamo noi due soli: me ne sono accorta da quando sognai che tu volavi via come Astolfo. 

Hai ragione. Io me ne sono accorto dall'altro ieri soltanto. Che stupido! Me e te: anzi te e me, perché tu vieni prima. 

No, tu! Io soltanto perché tu finalmente mi dici che riesco a farti occupare di me, che non sei più triste, che non parti più, che discorri volentieri con me e mi ripeti le stesse cose che io avrei voluto sentire e che ero convinta che tu dovessi dirmi. Hai visto? E' caduta una stella. Forse per ricordarci che esistono anch'esse. 

Esistono perché esisti tu, Alba. E così gli alberi, qui, del giardino, e la fontana e il resto del mondo. Chi può dire che tutto non ci sia per noi, che quanto gli uomini raccontano dei fatti avvenuti non sia stato che un grande preparativo di questa notte, per concludersi al momento in cui io ti vedo, ora? Certo io adesso capisco tante cose che prima non sapevo giustificare nella mia vita, e non mi dolgo di nulla poiché tutto è servito a farmi giungere al punto in cui ci troviamo. 

Sai? Sono riuscita a contare le stelle che stanno sopra gli alberi attorno alla vasca. Sono duecentosettantadue. Una è grande e brillante, ed è la tua. Un'altra bianca bianca e senza raggi, è la mia. 

No, io sarò quella che tu dici, ma tu sei tutte le altre insieme. 

- Io così piccola? perché? 

Perché sei dolce e sei cara e sei tutta una grazia. Ora m'avvedo che tu sei tutte le cose belle che esistono al mondo, e che io sono soltanto quel che basta per contemplarti. 

Oh, che dici? tu mi fai accorgere che proprio questo io pensavo di te, ma non riuscivo ad esprimerlo. 

Allora tu mi vuoi bene? 

Sì, Bruno. E ne ho tanta paura, perché tu sei tutto e mi pare che ora, dopo averti sentito dire quel che mi dici, se tu dovessi partire un'altra volta io non sarei più nulla. Alba diventerebbe una cosa perduta e inutile. 

No, Alba, non accadrà! Alba! Alba! Alba! Pronunziando il tuo nome, è vero, mi sento la tua anima fra le labbra. 

Come sono felice! Basterebbe appena un po' più per morirne!

 
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