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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

XIII

Una notte, nell'afoso albergo di Gafsa, Bruno aveva spento da poco la lampada accanto al suo capezzale e stava per prender sonno, quando fu bussato leggerissimamente con le nocche alla sua porta. Quella picchiatina gli era familiare, ma non se l'aspettava. Corse ad aprire, e nel buio del biancheggiare la figura di Rebecca. 

— Come mai? — le domandò a voce bassa, poi che essa entrava sorridendo, scalza, con un dito sulle labbra. 

— Non mi vuoi, signore? 

— Oh sì. Ma son tre giorni che c'è tuo marito… Non t'aspettavo. Vieni. 

— Mio marito partito ora, rispose l'ebrea ridendo furbescamente ingenua, mentre fresca e già discinta gli si adagiava fra le braccia. — Egli è molto cattivo; tu buono. 

Bruno non badò sulle prime ad approfondire questo rapporto fra sé e l'ebreo. Ma volle ritornarci su qualche ora dopo, quando Rebecca si preparava a lasciarlo. 

— Aspetta. Per qual ragione tuo marito riparte così all'improvviso? 

— Affari. 

— Affari notturni? Curiosa. 

— Nascosti; come dire? Non sapere. 

— Ah, segreti. Andrà a trovare qualche bella ragazza per fare a te quel che tu fai a lui? 

— No, non buono a queste cose. Affari grandi. Non debbo dire. 

— Neanche a me, Rebecca? Non hai confidenza in me? Sei cattiva! E' segno che non mi vuoi bene. 

— No, signore, tanto bene. Portami con te, e io farò sempre tua serva, pure a tua moglie, contenta anche se non mi vorrai più a letto. 

Queste parole intenerirono Bruno talmente che per la prima volta carezzò con dolcezza la giovane e la baciò sugli occhi. 

— Oh, Rebecca, sai essere tanto carina! Vedremo. 

— Ma tu non vuoi bene a Rebecca. 

— Sì, chi te lo dice? Ti voglio bene più di tuo marito che ti lascia così, per nulla. Certo ti avrà raccontato una frottola. 

— No: so cose vere. Ma non è giusto dire. 

— E' partito solo? 

— No, con compagni, molti compagni e cammelli. Io vado. 

— Aspetta, baciamoci ancora, così. Tu sai baciare in modo particolare, Rebecca, nemmeno una regina bacerebbe come te! E cosa portano tanti nomini e tanti cammelli? 

— Datteri, ulive, frumento, fucili... 

Bruno trasalì e abbracciò forte la donna, baciandola sul collo per nasconderle il proprio turbamento. 

— Come odori stanotte; non ti ho sentita mai così odorosa! 

— Sapone! — fece Rebecca, trionfante — so che a te piace sapone. Molto. Preso alla moglie del comandante. 

— Bene! Così hai cancellato tutto quel che ti restava di tuo marito. Che marito hai, che invece di starsene con te la notte va in giro a vendere frumento e quelle altre cose? Ma quando tornerà? Non vorrei tornasse subito... 

— Oh no, tanto, tanto ancora! Andato lontano. 

— Lontano? allora verso l'Algeria... 

— Verso Tripoli... Io vado. 

— No, resta, Rebecca. Non vedi che non posso lasciarti andar via? E' ancora presto: comincia appena a far giorno. Anche tu vuoi restare, me ne accorgo, me lo dicono queste due fragole... Sai, Rebecca che nessuna donna, ch'io sappia, ha seni più belli dei tuoi? 

Rebecca, gemente di gioia, restò ancora mezzora a baciare e a parlare. Poi fu Bruno a sollecitarla andarsene e, appena solo, corse a prendere dalla valigia il cifrario. 

*** 

Rapporto cifrato di Bruno Soveria al Sottosegretario agli Esteri: 

«Eccellenza — credo opportuno riferire anche lei, più diffusamente di quel che non abbia già fatto al mio superiore di Tunisi, quanto un caso mi ha permesso di apprendere. Trattasi, mi pare, di cosa della maggiore gravità, di cui occorre informare al più presto lo Stato Maggiore del corpo operante in Libia pei provvedimenti immediati e il Governo francese, come amico e neutrale, dato che le autorità locali non vogliano, agire con la necessaria energia. Ma V. E. stessa giudicherà. 

«Mi risulta, in modo assoluto, che tra il comando militare turco-arabo della Tripolitania e il governo di Costantinopoli i contatti sono mantenuti vivi, per forza di denaro, da un gruppo di affaristi della Tunisia, fra cui ingegneri e possidenti del sud, e da un gruppo di ricchi arabi di nobile origine, che hanno il maggior rappresentante in Ibrahim-ben-Kassar, reggente il califfato di Duirat, nel paese degli Ksur. 

«Ma ciò probabilmente è già a conoscenza dello Stato Maggiore, come già è di pubblica ragione che da Medènine e da Zarzis passano continuamente rifornimenti di viveri e di munizioni per gli aggruppamenti nemici radunati a Zuara. 

«Da tempo, però, si va organizzando una leva semi-forzata di bande beduine della Kabilia e della Tunisia meridionale. Si parla di cinque o seimila uomini, raccolti in queste regioni e perfino in quelle algerine, che dovrebbero varcare il confine libico per unirsi alle forze combattenti di Zuara, scortando una grossa carovana di circa mille cammelli, che si raccoglierebbero lungo la strada. 

«Questa carovana, oltre buona copia di viveri, porterebbe almeno quattromila fucili, mitragliatrici e parecchi cannoni da campagna con relative munizioni che sarebbero già pronti in un punto non precisabile presso la frontiera. 

«Consta a me per ora che un faccendiere ebreo, di cui non posso fare il nome, ha raccolto fra Tozeur, Metlaoui e Gafsa un centinaio di cammelli, coi quali si unirà lungo la strada agli altri gruppi di contrabbandieri assoldati, mentre fra Duirat e Guermessa si vanno raccogliendo i mercenari arabi che poi raggiungeranno il confine a piccole bande o alla spicciolata, sotto apparenze pacifiche per non dare nell'occhio alle autorità militari francesi. 

«Faccio noto a V. E. che, data l'eccezionale gravità degli eventi, senza chiederne l'autorizzazione al mio superiore di Tunisi, io parto immediatamente per precedere la carovana e le bande alla volta di Duirat. Da quei luoghi, ove conto raccogliere altri dati preziosi e definitivi, curerò informarla di nuovo. A V. E. mi sono indirizzato perché faccio gran conto non solo della sua stima per me, ma anche della sua preziosa e giovanile attività che non lascerà disperdersi o attardarsi questi miei ragguagli nelle vane lungaggini burocratiche degli uffici competenti e dei giri gerarchici». 

*** 

L'avventura, la grande avventura, forse? Finalmente! Non più dietro donne e donnette che avevano fino a quel momento assorbito la più grande parte della sua vita e che gli avevano fatto pensare che fossero tutto, che il romanzo dell'esistenza potesse aver loro, una o cento di loro, per centro; ma quella che aveva sognato e invocato da ragazzo, la nostalgia imprecisa come eco di musiche lontane che prendeva forme e consistenza, che diventava meta, sia pur episodica: una grandiosa meta, gloriosa forse! Egli solo, un uomo solo, avrebbe impedito il prolungamento della guerra contro gli arabi e i turchi, avrebbe accelerato la vittoria finale italiana, egli contro cinquemila uomini e contro tutta una regione! 

Come? Ancora non lo sapeva. A cavallo, seguito da Ahmed montato su un cavallaccio pesante ma muscoloso di centocinquanta franchi, e da Sahib guarito e snellissimo, Bruno andava rimuginando piani su piani. 

— Che lago è quello, Ahmed? — domandò ad un tratto, scorgendo all'orizzonte, su un'estensione che pareva infinita come il mare, uno scintillio giallastro. 

— Cattivo quello, padrone: Schott-el-Djerid. 

— Cos'è? Non ricordo di averlo sentito nominare. 

— Sebka-el-Fedjei. — spiegò ancora l'arabo. 

Bruno capì allora trattarsi dell'antico lago Tritone dei romani, il perfido abisso saturo di sali di magnesio e di soda che cristallizzano alla superficie ricoprendo le acque sottostanti di una crosta qua e là compatta, su cui in estate perfino le carovane si avventurano. Ricordò anche di avere sentito che parecchi viandanti ne erano stati inghiottiti. 

— Lo passeremo, Ahmed? — domandò un po' esitante. 

— Se vuoi giungere per via breve al mio paese, bisogna, — rispose il servo sorridente. E spiegò ancora come il passaggio più sicuro in tutte le epoche dell'anno fosse per El Oudiane, che però esigeva un giro molto più lungo e una deviazione dalla linea retta che essi avevano già percorso verso la penisoletta di Debabcha, ricca d'oasi e di sentieri sicuri, sotto lo Djerid meridionale fino ai monti Ksours ove il padrone aveva la volontà di arrivare al più presto; ma che, data la siccità, essi potevano ormai traversare la Sebka con relativa sicurezza e superare entro il giorno seguente i quaranta chilometri che ancora restavano per raggiungere Kebilli, seconda tappa del loro viaggio. 

Bruno guardò l'orologio: erano già le diciannove. Il sole abbandonava la gran cupola turchina del cielo senza nubi. Fasci di raggi radevano la pianura ondulata e fulva, fermandosi a ferire la grande striscia scintillante come oro liquido e facendo sanguinare le nebbie che si trascinavano torpide all'orizzonte orientale, come armenti di aeree belve ferite. Il lago incandescente fumava. Buffate di ghibli che arrivavano di tanto in tanto, davano la sensazione di vampate emesse dall'immenso crogiuolo. 

Avevano lasciato Gafsa dodici ore prima, ma a causa della fermata prolungata per la refezione all'ombra delle ultime palme e per un po' di sonno nel pomeriggio caldo, non avevano potuto percorrere più di cinquanta chilometri, dei quali la metà almeno sulle sabbie affaticanti. Bisognava fare alt e pernottare al sereno. Ahmed smontò da cavallo e si diede a slacciare il sacco che conteneva le provvigioni. 

— Ahmed, — gli chiese Bruno mentre, sempre in sella, scrutava tutto in giro col suo binocolo — credi che se altri viaggiatori con cammelli fossero partiti un giorno prima di noi, li avremmo in questo momento potuto raggiungere? 

— No, padrone, niente cammelli per questa via. Sapremo domani a Kebilli se viaggiatori giunti da El Oudiane. Queste, padrone, strade da arabi. Nemmeno francesi passano mai. 

Mentre Ahmed montava la tenda, Bruno, col binocolo, esaminava ancora l'orizzonte tutto intorno. Ora l'occidente deserto e calvo pareva gonfio di grumi di sangue luccicanti. A settentrione, in una calma e sfumante vaporosità rosea, si drizzava — stagliato netto nel cielo — il fiocco di una palma isolata, così lontana che pareva un fiore su uno stelo miracolosamente salito da profondità portentose sino ad affacciarsi dall'estrema soglia del mondo. Attardandosi a guardare quel punto, Bruno immaginava che da lì la muraglia della terra calasse a strapiombo nell'infinito. E si compiaceva della contemplazione, fino a non badare ai richiami di Ahmed che lo invitava a cenare. 

La notte non dormì, coi pensiero volto alla ricerca di un mezzo per impedire alla carovana e ai rinforzi arabi di giungere a Zuara, distratto però da urla di bestie lontane e, attraverso l'apertura della tenda, dall'immenso sfarfallio delle stelle. 

*** 

Si trovarono, sul fare del giorno, al margine Sebka cristallina da superare. Era una specie di larghissimo fiume dalla superficie tutta schiuma giallastra solidificata e della consistenza e del colore la canfora. 

Sahib procedeva, senza folleggiare come era suo costume, ma col muso al vento. Benché il sole fosse ancora alto sull'orizzonte, i suoi raggi rifrangendosi sul piano arido del deserto mettevano l'atmosfera una temperatura da fornace. Il cane e Ahmed sul suo cavallo, intento a cercare con cautela il terreno sodo sul lago di sale, Bruno li vedeva dinanzi a sé attraverso una specie di velo ardente. 

E l'unico rumore, lento e lanoso nell'immobilità abbagliante, erano i tonfi delle zampe dei cavalli. 

Avevano già attraversato per metà la superficie infida, quando improvvisamente Sahib vide balzare poco discosto un grosso topo-canguro, un dipo dalle gambe posteriori lunghissime e atte a grandi salti. Emise un breve brontolio e si slanciò, folle di caccia, sulle orme della selvaggina; ma venne a trovarsi, trascinato dall'impeto, tra i garretti anteriori del cavallo di Ahmed che, spaurito, scartò a sinistra recalcitrando. Sahib rotolò nella polvere, pesto e stordito, e rimase un pezzo a starnutire e tossire, sogguardando mortificato ora il padrone ora il cavallo imbizzarrito, che Ahmed si sforzava invano di acquietare. Maggiormente adombrata anzi dai pugni sulla groppa e dai colpi di tacco del suo cavaliere, la bestia rinculava, impennandosi pesantemente, intestardita a non ritornare sul punto ove aveva provato il soprassalto. 

— Vengo io, Ahmed, vengo io a tirarlo — disse Bruno, smontando sollecito; ma l'arabo lo fermò con un grido: 

— Non muoverti, padrone! Pericolo. 

— Smonta, allora, smonta! —— gridò a sua volta Bruno, senza però comprendere bene. 

E infatti Ahmed, lasciate la staffe, fece per balzare a terra; ma improvvisamente il cavallo, sollevatosi ancora una volta sugli arti posteriori, sprofondò come sfranando dall'orlo malfermo d'un viottolo a taglio sopra un precipizio. Le sue zampe anteriori annasparono cercando la terra ferma ove sostenersi; ma l'orlo invisibile sulla superficie uguale si sfaldò, si sfarinò sotto le sue unghie disperate. Esso era sommerso sino ai lombi nella sabbia cristallina, che pure pareva densa e soda come quella su cui Bruno rimaneva sbigottito e Sahib continuava a starnutire. 

— Ahmed! — chiamò Bruno. Il servo s'era afferrato alle orecchie del cavallo riuscendo a rizzarsi in piedi sulla sella, e di lì spiccò un salto. Ma i moti disordinati della bestia interrorita lo fecero ricadere di fianco, lungo l'orlo invisibile di cui le sue mani sentirono, aggrappandovisi invano, l'inconsistenza. Bruno, con repentina lucidità, si afferrò con la sinistra alla briglia di Ayesha rimasta a sfrogiare a testa alta e orecchie tese, si piegò sulle ginocchia bene aperte, piantò i piedi fortemente al suolo e sporse dall'orlo terribile con la destra il frustino di rinoceronte verso le mani del suo servo. Ahmed vi si attaccò e, strisciando col corpo orizzontale che galleggiava appena sullo strato superficiale di fanghiglia densa, lasciò che il padrone lo trascinasse con moto lento, buttandosi addietro, sul suolo fermo. Ora Sahib, inquieto, saltellava attorno a loro, a sghembo, con mugolii e gemiti. Il cavallo nitrì angosciosamente, forse sentendo già all'estremità delle zampe sommerse il primo freddo della voragine occulta. Era sprofondato sino al petto, e le zampe anteriori non tentavano più che debolmente aggrapparsi all'aria: ma la testa si tendeva sul collo disperatamente ritto e gli occhi si sbarravano, guardando attorno gonfi di tenore folle. 

Bruno ricordò che in simili casi è meglio troncare la tremenda agonia degli animali condannati. Cavò la rivoltella e mirò sulla fronte del cavallo. Ma la mano gli tremava e quando il colpo partì la bestia si scrollò nitrendo di dolore: era rimasta ferita di striscio fra le due orecchie; il sangue le colava su un occhio, accecandolo. Sahib latrò; Ayesha fece un balzo e allungò la testa verso il suo compagno; Ahmed, bocconi sulla terra e volto al sole, pregava. Bruno, col fiato grosso, eccitato, mirò meglio e sparò un'altra volta, Il cavallo èbbe un sobbalzo che lo trasse a metà fuori dai gorgo vetrigno, dondolò furiosamente il collo smaniando quasi per liberarsi dallo spasimo improvviso, poi reclinò lentamente la testa. Il suolo lo succhiava; ma parve anche un momento che gli ribollisse attorno, montando come una compatta schiuma lungo il garrese, la nuca, la gola, sempre più rapidamente. La testa inerte si abbatté due volte, di qua e di là, ultimo gesto involontario, e fu inghiottita di colpo dalle fauci voraci dell'abisso. 

*** 

Proseguirono in silenzio, a piedi. Ahmed aveva voluto che il padrone non restasse a cavallo, lungo il pericoloso guado della Sebka. E, tirando Ayesha per la briglia, si mise a camminare provando il terreno passo per passo. Bruno seguiva, ultimo. Lo squallore e l'immobilità parevano interminabili. 

Finalmente, dinanzi a loro, alla linea calva dell'orizzonte, cominciarono a far capolino ciuffi nereggianti, di alberelli. Il lago Tritone era ormai superato. Ahmed credé giunto il momento di parlare e raccontò storie paurose di carovane intere rimaste sepolte per avere, col vento e il polverone o di sera, col far del buio, smarrito l'orientamento. L'ultimo a restare inghiottito era stato un arabo col suo ciuco. 

Il sole tramontava quando giunsero a Kebilli. La gente del luogo li guardava incuriosita, i monelli sopratutto che, sgomenti sulle prime della tenuta dell'europeo carico d'armi e d'arnesi, s'incoraggiarono a poco a poco fino a rincorrerlo chiedendo filus. Lì seppero che nessuna altra carovana era passata: ma che alcuni uomini, con una ventina di cammelli, erano partiti il giorno prima. 

Con cento franchi fu trovata agevolmente un'altra cavalcatura per Ahmed, un cavallino sauro magro ma tutto nervi, e con poche altre monete, dopo una cena sommaria, si acconciarono alla meglio per un riposo di cinque o sei ore in un funduk non eccessivamente sudicio. 

Si rimisero in cammino alle due dopo la mezzanotte, lasciandosi alle spalle la folta oasi e il piccolo villaggio. Una gran luna scema e rossiccia galleggiava sulle nebbie occidentali come un teschio deforme e sanguinoso, ingigantendo ombre di montagne che si profilavano dinanzi e alla loro destra. Il terreno si faceva sempre più compatto finché la roccia nuda risuonò sotto gli zoccoli ferrati dei cavalli. Sahib che precedeva di mala voglia, si soffermava ogni tanto ad aspettarli. Allungò più volte il muso per fiutare un ginocchio del padrone, uggiolando. Un latrato lungo e querulo di sciacalli lontani fece rizzare le orecchie attente; uno sghignazzìo di iena lo inquietò. 

— Qui, Sahib, qui! — gli impose il padrone. Quando sorse il sole si trovavano già in alto, su un sentiero malagevole lungo il costone nudo e scabro del Gerid. Bruno avvertiva dolori alla schiena e pesantezza al capo, ma li attribuiva alla fatica e anche alle emozioni del viaggio. All'ora della refezione e del riposo ricusò il cibo e vuotò soltanto, avidamente, un thermos pieno d'acqua. 

— Stai male, padrone? — gli chiese Ahmed, guardandolo. 

— Un po' di stanchezza, — rispose, e volle rimettersi in via. Il caldo, con la maggiore altitudine, si rendeva tollerabile; ma egli si sentiva accesissimo in faccia. 

— Non credi, Ahmed, — domandò a un tratto — che si potrebbe arrivare a Duirat prima di sera? 

— Impossibile, padrone. Ancora questa montagna, e poi altra e poi altra. Dietro sta Duirat. 

I dolori divenivano acuti, le tempie martellanti: Bruno non dubitò più di avere la febbre. Ma tacque, contrariato soltanto dall'andatura faticosa dei cavalli su per l'erta difficile. Un momento si assorse a guardare il collo di Ayesha che a ogni passo si tendeva lasciando vedere lo sforzo dei muscoli, come se l'animale si aiutasse nella salita attaccandosi coi denti a un sostegno invisibile. E ricordò anche, ma senza calore, Myriam vestita da amazzone. 

Dall'alto giungeva lo strido d'un'aquila planante come un aeroplano altissimo. Volare come essa: ecco che cosa ci voleva per giungere presto, per compiere bene la missione ancora oscura che egli si era assunta, e per tornare poi subito a casa, dalla mamma, intenta ceno a quell'ora a dar qualche punto, dinanzi al balcone aperto sul giardino chioccolante d'acqua, acqua, acqua... 

La notte sotto la tenda passò insonne e atroce pei dolori lancinanti, per la febbre e l'arsura. La lingua grossa e rasposa in bocca, le ginocchia piene di piombo ardente, e tra le dita forme impalpabili che si dilatavano come palloni e s'impicciolivano come grani. E giù per le valli, concerti strazianti di sciacalli e risate infernali di iene.

XIV

Al valico del terzo spartiacque, Ahmed si volse verso il padrone che, curvo e rattrappito sulla sella, si lasciava portare da Ayesha tra sofferenze indicibili. 

— Duirat, — annunziò, indicando un'altra cima di fronte a loro, tutta forata regolarmente come un enorme favo di vespe. Bruno sollevò le palpebre pesanti, e guardò la piccola città montana, piramide e anfiteatro, che, battuta dal sole occiduo, tinta di rosso e d'azzurro, appariva come un aereo prodigio. Restò un pezzo a contemplarla, malcontento senza sapere di che. 

Poiché le trafitture e la stanchezza gli erano diventate insostenibili, volle provare a smontare da cavallo e a fare a piedi la breve discesa sino alla valle che li divideva ancora dalla montagna di Duirat. Fece alcuni passi sostenendosi ad Ayesha; ma le ginocchia gli si piegavano sotto il peso inerte del corpo. Dopo poco si lasciò cadere sul sentiero sassoso e involontariamente si distese supino, con un senso di lieve benessere. 

— Che hai, signore? — esclamò Ahmed accorrendo a lui. Le bestie si fermarono; Sahib guaì, leccando il viso del padrone, che lasciò fare, anzi lo trovò gradevole, come un senso di frescura. 

— Lasciami così un momento; mi farà bene —rispose ad Ahmed. 

— Vuoi chiamare aiuti per portarti? — propose questi, curvo su lui. — Andrò subito a Duirat. 

Il bisogno più immediato per Bruno era un buon letto, distendersi nudo tra lenzuola fresche, sgretolare coi denti un pezzo di ghiaccio. Il suo letto, la sua casa, la sua mamma: ecco che cosa ci voleva. Ma l'avventura? la missione? i rinforzi per gli arabi di Zuara che proprio lì si organizzavano? Giusto anzi lì, tra la valle e la cima di Duirat, non era una moltitudine di tende quell'ondulamento che si confondeva con le rocce, non era tutto un accampamento di un piccolo esercito, di migliaia d'uomini e uomini che fra qualche giorno avrebbero sparato addosso agli italiani della Libia? Bisognava andare, opporsi al piano dei nemici, coprirsi di gloria, fate spandere per il mondo il nome di Soveria come di colui che aveva compiuto un'impresa impossibile!... 

— Andiamo, andiamo, Ahmed, aiutami a camminare. Ci riuscirò. Bisogna giungere subito. Fece tutta la discesa a piedi, sostenuto da Ahmed che s'era passato un suo braccio sulle proprie spalle. Per la salita volle rimontare. Ma per quanto sforzasse la sua attenzione, niente lo interessava più dello spettacolo attorno, non la piccola città alta incuneata nel cielo, non le sue gradinate che si andavano animando dei punti bianchi dei barracani degli arabi, non un formicolare d'uomini un po' più in basso, fra tende e tende. Ogni cosa gli dava fastidio, anche quel cielo immenso e abbagliante di un azzurro favoloso. Avvertiva dentro di sé un lavorio insolito, che soverchiava tutte le altre sensazioni; e specialmente tra la fronte e le palpebre, ma dall'interno propagantesi in fuori, un ondulamento a cerchi concentrici come acqua percossa da uno stillicidio, che da lì — tra la fronte e le palpebre —si slargava via via intorno intorno intorno, sino a sbattere muto muto e soffice soffice contro il picco di Duirat tutto buchi, e lì arrestarsi e spianarsi e poi riformarsi daccapo. E quel picco tramutarsi in una gran testa di beduino sotto il cappuccio del burnus, una gran testa con cento occhi spalancati. Bruno si sentì diventare pesante e si sfiancò sul cavallo cadendo a poco a poco senza potere far nulla per impedirlo, anzi provando l'ineluttabile voglia di precipitare giù, sicuro di non toccare mai terra. 

Ahmed lo sostenne. Più tardi accorsero anche altri a sostenerlo e a trasportarlo, piano piano. Sentì parlare intorno a sé, senza capire. Ma improvvisamente gli balenò tra le nebbie del cervello un pensiero chiarissimo. 

— Ahmed — sussurrò all'orecchio' del servo che lo reggeva — non dire a nessuno che io sono italiano. 

Si accorse che Ahmed lo guardava interrogativamente perplesso, pur facendo cenno di sì; ma il torpido rinchiudersi delle nebbie del suo cervello gli fece trascurare ogni altra considerazione. 

Dopo un tratto, la voce del suo arabo gli bisbigliò: 

— Ti portiamo al castello, padrone. Egli trasalì: si vide scoperto, tradito, perduto. 

— Quale castello? — Dal califfo Sidi-Ibrahim-ben-Kassar: molto buono; marabut

Il nome dell'organizzatore delle forze armate. E lo chiamavano santo. Aprì gli occhi, ben desto. Si trovò, in mezzo a molti uomini ammantati di bianco, facce aduste, incappucciate e benevole, dinanzi a un grande edificio in parte scavato e in parte rilevato sulla montagna, in cima in cima, rocce su rocce, tutto cinto di cielo, sull'orlo quasi a picco dell'ultimo gradino. Fu bussato a una porta, forse anch'essa di rocce, poiché rimbombò sorda sorda lontana lontana. La porta s'aprì e in un piccolo atrio apparve un uomo, un arabo più che quarantenne, con un bel fez rosso, grossi mustacchi castani, un coltellaccio insanguinato pendente dalla destra. 

— Bismi Allah irah, manhi rahim... — cominciò a dire Ahmed a quell'uomo attento. Da una colonna penzolava un montone sgozzato attaccato per le gambe posteriori a un uncino. La bocca piena di sangue era semiaperta a un belato che non si udiva più. E sotto la bocca, per terra, un catino di creta, quasi colmo d'una poltiglia brunastra, come un pezzo di fegato. 

Altre voci parlarono. L'arabo dal bel fez rispose alcune parole vivaci, e fece cenno, mollemente, col coltellaccio, che entrassero. Quando Bruno gli passò davanti, gli sorrise e disse: 

— Vous étes le bienvenu chez moi, monsieur. Heureusement, je suis médécin: j'ai étudiè à Montpellier et à l'Universitè du Kaire. 

Dopo, Bruno chiuse gli occhi, si sentì supino e non vide né udì più nulla. 

*** 

Delirio di Bruno: 

— Allungami il frustino, Ahmed o sprofondo, sprofondo!... Come faccio a sprofondare in un lago di rocce?... E' stato il peso degli arabi dell'attendamento. Hanno quattromila fucili; le mitragliatrici e i cannoni sono pesanti... Tirami fuori Ahmed, più forte… No, non così forte che si spezza il frustino... Ho un peso qui, nella tasca. E' il cifrario, che pesa. Ma che non io veda nessuno. Poi, che importa? io sono francese; e sono viceconsole. Guai a chi mi tocca: sarebbe un'altra guerra, con gli aeroplani. Vattene tu, vai a dire a Myriam che corra dal generale. Il generale lo sa che gli arabi non debbono arrivare. Anche a Ben Gardane lo sanno che bisogna fermarli. Perché hai cambiato il frustino con la pistola? No, non spararmi alla testa, posso ancora uscire dalla sabbia. Ah, sei un traditore Ahmed; dopo che io ti ho salvata la vita, ti colleghi coi nemici per non farmi arrivare a Zuara! Mamma, mamma, vieni tu a cacciar via tutta questa canaglia! 

*** 

Finalmente si destò. Aprì gli occhi su un soffitto di pietra trasudante, ove si rifletteva un raggio di sole. Stette un pezzo a guardare quello spazio illuminato come uno schermo di lanterna magica, nel quale scorrevano ogni tanto ombre lunghe lunghe e imprecise. E ogni ombra era accompagnata da uno scalpiccio di ciabatte o di zoccoli ferrati, che giungeva di lontano, cresceva e poi digradava. Si divertì ad ascoltare, a guardare e a contare i passi: ce ne volevano da sedici a diciotto prima che l'ombra melensa apparisse nel campo della luce e quattro o cinque per sparire. 

— Vi sentite meglio ora, signore? — gli domandò una voce in francese. 

Abbassò gli occhi e, a' piedi del letto a cinghie ove stava disteso, scorse Sidi-Ibrahim-ben- Kassar, col viso mansueto sotto il fez nuovo lampante e, accanto a lui, serio serio a guardarlo in bocca, Ahmed. 

Provò ad alzarsi nel letto e ci riuscì facilmente, leggero leggero, come se avesse le ossa piene d'aria. 

— Sono stato molto male? — domandò. 

— Un attacco di perniciosa: — rispose l'ospite — malattia che conosco assai bene e che è frequente nei nostri climi. Ma io la curo con un siero che ha dato sempre buoni risultati. Sono bastate per voi tre iniezioni. Tre giorni di febbre tra quaranta e quarantuno, ed è passata. 

— Io non ricordo nulla; — disse Bruno, preoccupato, e guardando attentamente ora Ibrahim ora Ahmed. — Debbo aver perduto i sensi. 

— Lo credo bene. L'attacco è stato mortale. Ma ora siete guarito. Oggi riposerete per rimettervi in forze e, se avete urgenza, domani stesso potrete riprendere il viaggio, a piccole tappe. 

Era sobrio e tranquillo. Ma quell'Ahmed che non diceva nulla e continuava a fissarlo in bocca, era insopportabile. 

— Siete molto gentile — si provò a dire Bruno; ma balbettava e sentiva onde di calore salirgli alle orecchie. 

— Dio dice che l'ospite è nostro fratello — rispose il califfo, accennando sotto i baffi un sorriso. — Avete appetito? Prenderete latte e uova. Dovete mangiare bene. Per questa sera le mie donne vi prepareranno un buon cuscussu e polli. Mi duole di non potervi offrire del vino; la nostra religione non lo consente. Ma il lahmi fresco è abbastanza buono e più nutriente. 

Che voleva questo nemico premuroso come un padre? Bruno se ne irritò e fece per dire qualche cosa d'imprudente; ma gli occhi corrucciati di Ahmed gli mozzarono le parole in bocca. 

— Grazie. Ripartirò oggi stesso. Ibrahim-ben-Kassar sorrise completamente stavolta, e scosse il capo con la mollezza che metteva in tutti i suoi gesti. 

— Non sarà possibile. 

— Chi potrebbe impedirmelo? — fece Bruno vivacemente, provando a metter giù le gambe dal letto. Ma la placidità dell'arabo e un gesto di Ahmed lo contennero un'altra volta. 

— Io — rispose Ibrahim. — Dimenticate che io sono un medico? Sono il vostro medico. E non voglio che v'incolga alcun male nella mia casa e a Duirat. Dopo farete quei che il destino vorrà. 

Bruno ricadde sui guanciali e non disse più nulla. Il califfo uscì senza far rumore; Ahmed rimase a vegliare il padrone, in silenzio. 

** * 

La mattina dopo, vestitosi per ripartire, Bruno fu assalito da un sospetto. Cercò il cifrario nella valigia, le sue armi, le sue carte, il portafogli: ritrovò tutto in ordine, senza nessun indizio che nulla fosse stato manomesso o toccato. Egli e Ahmed uscirono sulla strada, biancheggiante nell'alba, sospesa — senza parapetto — sulla gradinata della città trogloditica e sull'immenso scenario delle valli e dei monti circostanti. Nel cielo di madreperla saettavano poche rondini sperdute, zirlando, ma in alto torneavano due aquile, in grandi cerchi vellutati. I cavalli scalpitavano, tenuti per le briglie da due servi negri, impassibili. L'ospite attendeva seduto su un masso, intento a carezzare Sahib. 

— Avete un ottimo cane, signore — disse a Bruno. Apri la bocca all'animale per guardargli il palato, gli palpò il petto, gli scrutò tra le unghie e concluse: — Se volèste disfarvene io sarei disposto a contraccambiarlo con un paio di antiche pistole di valore inestimabile. 

— Perdonatemi, — rispose Bruno — ma lo amo già molto. E poi, l'ho promesso alla mia fidanzata. 

— E' giusto. — approvò Ibrahim sorridendo. Si alzò e gli andò di fronte serissimo. — Buon viaggio. Con quale nome dovrò ricordare il passeggero che ha giacinto nel mio letto? Il vostro servo mi ha detto che siete francese ma ho sentito che parlate molto bene anche l'italiano. 

E i suoi occhi ebbero un barbaglio mentre le labbra illividivano. Mosse un altro passo e Bruno, sul ciglio della strada, con le spalle volte al precipizio, se lo trovò quasi addosso, fiato contro fiato: sarebbe bastato un gesto da parte dell'arabo, per farlo ruinare giù per le balze intagliate nella roccia. 

— Io non sono francese. — Rispose dopo un momento. Il viso di Ibrahim si spianò un poco. Ma ecco dal portico uscire trempellando un bimbetto di due o tre anni, seminudo e moccioso, e attaccarsi con un garguglio smozzicato alle gambe del califfo. Costui si chinò e lo tolse in braccio. Il bimbo tacque e sorrise, ma sbigottito sotto gli occhi di Bruno. Dal minareto della piccola moschea s'affacciò il muezzin a cantarellare. Ibrahim bisbigliò una preghiera, si levò tre volte il fez e tre volte lo impose sul capo del piccino. Poi disse: 

— E' il mio ultimo nato. Buon viaggio, signore. 

— No: — esclamò Bruno, e lo trattenne afferrando una mano del bimbo attaccato al suo collo — io non voglio che domani, quando sarò partito, voi pensiate a me come a uno sleale. Io mi chiamo Bruno Soveria e sono italiano; sono anzi un funzionario statale italiano. 

— Una spia? 

— Siate generoso fino a non darmi cotesto orribile nome. Sono un uomo che voleva difendere con qualunque mezzo il proprio paese, che voi tentavate mettere a mal partito. 

— Per difendere gli uomini della mia religione e della mia razza. Pensate, vi prego, che noi altro non abbiamo tentato che difenderci. 

— Ma noi portiamo la civiltà. 

— Noi non ve l'abbiamo chiesta; né a voi né ai francesi di qui. Avete visto che Dio vi ha avvertito, obbligandovi a entrare nella mia casa. 

— Ebbene, debbo ora dirvi che io so tutto e l'ho comunicato ai miei superiori. Il comando italiano è avvisato e le stesse autorità francesi non permetteranno a voi e ai vostri uomini di passare la frontiera. 

Bruno sentiva di avventare queste parole per una estrema difesa, aggrappandosi a un tentativo là dove non era riuscito con un atto decisivo ed eroico. Ma fu sorpreso dalla risposta dell'arabo: 

— L'avevo giù supposto. Gli uomini non si lascieranno prendere e non andranno più a Zuara né passeranno per le vie da voi guardate. Ma gl'italiani, se li troveranno di fronte, sia pure più tardi. 

Bruno ricordò le tende formicolanti d'uomini viste al suo arrivo. Gettò di lassù un'occhiata verso la valle, frugò con gli occhi lungo la costa e non scorse nulla: si chiese mentalmente se tutto non fosse stato un miraggio della sua fantasia eccitata quel giorno dalla febbre. Ma guardando ancora giù per l'altro versante, tutto ondulante di rocce che scendevano lontanissime fino al pianoro meridionale ove si apriva il Sahara, credé ravvisare la nuvola bassa di un polverone prossimo a scomparire oltre la barriera dell'orizzonte. 

— Che strada è quella, Ahmed? — domandò al suo servo. 

Ahmed guardò il punto indicato, guardò Ibrahim e rispose, senza alzar gli occhi sul padrone: 

— Carovaniera di Nalut. 

Anche Ibrahim guardava in quella direzione; ma i suoi occhi vedevano, più lontano, il deserto. La sua voce si levò a un tratto grave dalla cima già raggiunta dal primo riflesso rosso del sole, nella grande aria tutt'intorno alitante: 

— Quello non lo possiederanno mai né gli italiani, né i francesi, né i mussulmani. Soltanto l'uomo isolato, quando vi si distende la notte a prendere riposo, e si addormenta guardando le stelle, lo possiede. Io ho letto e studiato dalla mia giovinezza i profeti di quasi tutte le religioni, da Gotamo Budda al vostro Gesù, e ho visto che quasi tutti si sono rivolti al cuore e all'anima dell'uomo, ai sentimenti dell'individuo, non mai al fanatismo di un popolo. Dove è fanatismo, è il più basso livello morale. Signore, voi e i vostri e tutti d'Europa e dei paesi che portano la civiltà, non avete mai pensato che forse in qualche momento, in faccia alle cose eterne, vale più un uomo che una nazione? 

Le sue parole, a brani, se le portava via la brezza, mescolandole agli stridi delle aquile vorticanti, e il silenzio inghiottiva tutto. 

— Veramente… — rispose Bruno, distratto. 

— Eppure noi nascemmo distinti e per essere ciascuno se stesso. In ciò sta tutto Dio. Comprendete come è vano, in fondo, ciò che voi, io, tutti, abbiamo voluto fare? Bruno gli stese la mano, commosso. 

— Non è vano certamente, per me, che voi mi abbiate salvato la vita. Quando lo racconterò a mia madre, essa benedirà il vostro nome. Da quel che credo avere capito di voi, signore, ciò vi ripagherà della vostra estrema bontà. 

— Perché? quello che ho fatto, voi dite, è buono. Ed è facile essere buoni. E' molto più difficile essere giusti. 

E Ibrahim sorrideva. Strinse la mano che gli veniva offerta, poi tenne a Bruno la staffa, per aiutarlo a montare a cavallo. 

*** 

Giunsero a sera inoltrata a Medènine. Una gran luna fantastica faceva da fanale alla città color della sabbia, deserta, tutta a edifici alti e senza porte, come silos. Passarono davanti a un caffè, sulla soglia del quale alcuni arabi, accovacciati su stuoie fumavano e centellinavano la bevanda calda, discorrendo piano. Al loro passaggio tacquero. Bruno notò il moto simultaneo del bianco degli occhi su tutte quelle facce oscure, un moto isocrono e meccanico che seguiva i loro passi, come in pupazzi da vetrina. E non ne presentì nulla di buono. 

Dovevano essere della partita anche quegli uomini, certo. E sapevano del suo arrivo. 

— Dove pernotteremo, Ahmed? — chiese al servo che lo seguiva muto e preoccupato dalla partenza. 

— Al comando francese, padrone. 

— Sai dov'è? Guidami tu. 

Attraversarono piazze, seguirono strade larghe e chiare, vicoli stretti e bui. Ombre bianche passavano quasi trasvolando, senza rumore, e sparivano improvvisamente, a risvolti bruschi, quasi in fessure della pietra, fra un edificio e l'altro. La luna strapiombava perpendicolarmente da quei torrioni quadri, lisci e senza ombre, in cima ai quali si agitava, qua e là, qualcuno. Si udì anche un canto di donna, accompagnato da guzle e tamburelli; ma lontano e sordo, sepolto tra quelle pietre prive di spiragli. 

A un tratto, Bruno si soffermò. Una di quelle ombre bianche si arrampicava visibilmente su pel muro d'una gran casa liscia, verso una finestra chiusa e altissima. Buttava una dopo l'altra le braccia e le gambe, come incollandole alla pietra con ventose da polpo di cui le sue estremità parevano provviste. 

— Non è un ladro, quello? — domandò piano Bruno, tastando malsicuro la sua rivoltella. 

— No, padrone: usanza di Medènine per entrare in casa. Non vedi? Niente porte, niente scale. Corde calate da finestre. Più sicuro contro nemici. 

Metteva una strana ironia in queste parole, Ahmed; o almeno così parve a Bruno che si credé canzonato. Si sentì più a suo agio quando si trovò al quartiere del distaccamento francese, ove il Comandante, un capitano corso grossolano e cordiale, gli offrì cena e ospitalità. 

— Mais oui, volontier, tout à vous... Ah, siete italiano? Eh, vicini allora… c'intendiamo… il dialetto corso è mezzo genovese, mezzo toscano... piacere... 

A tavola: 

— Questo potage non somiglia certo a quelli del Tunisia-Palace-HoteL.. oh, conosco bene io! Ma, enfin... buono il vino, però. E' il mio unico piacere nei loisirs di Medcnine. Quel drôle d'un paese, n'est ce pas? Buffissimo, si dice a Livorno. Porco cane! Anzi, mondo birbone! Non ci sto volentieri davvero, senza vedere donne possibili, chiuso sempre fra muri, anche nelle strade. Qui le porte sono finestre avete visto? E si entra in casa dall'ultimo piano. E le chiavi, savez vous? Le chiavi di casa sono certi ordegni ridicules di legno intagliato in modo diverso per ogni proprietario!... Ancora del montone, je vous en prie, e del vino… se ci sto male? enfin... ora la guerra del vostro paese contro i turco-arabi mi dà un po' da fare, e ça m'amuse aussi. Siamo la più importante stazione quasi al confine, comprenez? e allora... Sicuro. Dobbiamo impedire il contrabbando di guerra. Ci sono state proteste e preghiere del vostro governo.… voi siete del consolato generale di Tunisi, vous m'avez dit! ma dite un poco: chi è stato così fantaisiste da venirvi a raccontare di migliaia d'uomini che debbono passare e migliaia di cammelli con munizioni, fucili... chi dice questo è un fesso!... Magnifica questa parola italiana: in francese non c'è un mot che la equivalga. Non vi pare che io conosca bene l'italiano? Come? Voi credete alla serietà di quell'informazione? Bien! se volete, vi offro di restare con me a vegliare. Finora non è passato niente di tutto questo... un telegramma, si, mi segnala una grossa carovana nei dintorni di Gabes... il nostro governo, comprenez? non può permettere che troppi cammelli emigrino forse per sempre, o per un ritorno dubbio... ciò farebbe rialzare i noli e rallenterebbe il traffico della Tunisia col sud... Niente allora cammelli in Tripolitania, per essere dispersi, o massacrati, o catturati dagl'italiani... Accettate questo buon sigaro, è migliore delle vostre sigarette... Notre cafè, Roustand. Eh, si, il caffè è sempre buono tra gli arabi. Il telegrafo? eh, no, a quest'ora c'est fermè. Come? come? un telegramma alla vostra fidanzata? se si tratta della vostra bella, lo faremo aprire. Eh, Roustand. Appellez monsieur Leduc, le telegraphiste: dites lui qui je... Mais non. C'est moi méme qui j'irais. Andiamo, signor console, avrò io il piacere di accompagnarvi. Lo direte a mademoiselle, alla signorina: grazie a un ufficiale mezzo mio compatriota, cioè corso; né francese, né italiano, ma corso... proponetele di venire qui a raggiungervi: le faremo un alloggio da regina… regina araba, c'est entendu! 

Perché no? Era questo, in fondo, il desiderio di Bruno: rivedere Myriam, averla un poco accanto a sé. Essa stessa glielo aveva fatto sperare, del resto. Ora si accorgeva di amarla fino all'esasperazione: aveva sempre dinanzi alla fantasia eccitata i suoi occhi cangianti, ora verdi, ora neri, ora fulvi, occhi che davano le vertigini, e la sua bocca carnosa, rossa e abbagliante nel riso. La prolungata castità degli ultimi giorni, male appagata dall'insipido piacere tratto da Rebecca, destava nella sua carne desideri violenti. Le telegrafò: 

«Attendoti Medenine - Bruno ».

XV

— Ho trovato quel che fa per voi. — disse il capitano Pasquali — Una maisonnette nell'oasi di Mareth a trenta chilometri da Medenine, sulla strada di Gabes. Un ricco signore arabo, mio amico, ve la cede per otto giorni, gratis. Farete un cadeau ai suoi servi, basterà. Da quel posto potrete, poiché vi sta tanto a cuore e non avete abbastanza fiducia in me, sorvegliare l'ipotetico arrivo della carovana contrabbandiera alla quale non credo. Nello stesso tempo, sarete in grado di offrire un alloggio decente e gradevole alla vostra signorina, che sarebbe certo a disagio in questa brutta specie di diga che è Medenine. 

Myriam telegrafò che sarebbe arrivata fra due giorni. 

Tutto, dunque, andava bene, tranne Ahmed. Ahmed taciturno e scontroso, che schivava il padrone, pure restando sommesso e servizievole. Ma il non vederlo sorridere più frequentemente, preoccupava Bruno; e lo preoccupavano le improvvise sparizioni e le prolungate assenze del giovane arabo. 

Myriam arrivò una mattina, in automobile, una potente torpedo condotta da lei stessa. Bruno, che le era andato incontro, a cavallo, con Ahmed, a mezza strada da Gabes, l'accolse tutto fremente. Essa lo. abbracciò, gaia, come se l'avesse lasciato dal giorno innanzi. 

— L'ho fatta in barba al mio chauffeur — gli disse — sai? Il vecchio Battista che mi vide nascere. Mi ha condotto fino a Gabes, approfittando dell'assenza di papà che è in Algeria. Ma non potevo metterlo a parte della mia visita a te: gli ho detto che volevo fare una scappata da sola, sino alla villa dei miei amici Rimini, presso Zarzis, e che ritornerò stasera. 

— Stasera? — fece bruno ansioso. — Ma non resti con me? 

— Oh, oh! — motteggiò Myriam guardandolo di sfuggita; Bruno però carpì un lampo nei suoi occhi, un lampo che gli gonfiò il petto di mille voglie. —Vorresti farmi restare con te? e fino a quando? 

— Tre, due giorni almeno… 

— Ritornerò ogni giorno, per andar via la sera. Il mio signore non pensa che se la gente di questo microscopico paese sapesse, ne direbbe d'ogni colore sul conto mio? 

Frattanto Bruno aveva lasciato la cavalla ad Ahmed, ed era montato in macchina con Myriam. Andavano a velocità moderata, seguiti dal servo coi due cavalli e con Sahib. L'aria avvampava sulle sabbie quasi spoglie di vegetazione. 

— Non devi essere mia moglie? — domandò Bruno guardando dinanzi a sé. 

— Certamente. E tu vedi che io sono venuta a trovarti prima ancora che il sindaco mi abbia sciorinato i miei doveri coniugali. Ma ancora il nostro nido non è pronto. 

— Sarà presto, Myriam? — Si era detto per ottobre. Vorresti prima? 

— Prima, si, prima! 

— Che furia! Caro! mi piaci. 

— Myriam, ardo di te, non sono più che il desiderio di te! 

— Tutto a un tratto? E sei stato tanti giorni lontano, ricordandomi appena con cinque lettere? Sai che la tua ultima lettera da Gafsa è di nove giorni fa? In tutto questo tempo non sono più esistita per te?... Cosa hai fatto, anzi? Non me l'hai ancora spiegato... E come mai ti trovi qui, improvvisamente?...

— Una malattia. Ti spiegherò poi. Mi sono accorto, però, che tu vieni avanti tutto, che niente altro vale la pena. 

Apparvero i primi alberi della piccola oasi. Giunsero alla casetta ove già li attendeva la colazione, apparecchiata da una serva israelita. 

Myriam fu allegra e loquace e mangiò di ottimo appetito. Bruno invece stette quasi tutto il tempo ascoltandola, stringendo tra i propri un piede di lei e carezzandole le mani. 

— Myriam! Myriam! 

Alla fine, rimasti soli, ella si piegò sulla tavola ancora ingombra, e col capo appoggiato a un braccio alzò gli occhi su lui: 

— Tanto mi vuoi bene? — gli chiese. 

— Oh si, più d'ogni cosa. 

— Finalmente! 

— Perché finalmente? 

— Perché sinora mi è parso di essere stata sola ad amarti, di non avere in te che un tepido fidanzato tutto preso di sé, soltanto... 

— Soltanto... 

— Riscaldato a lunghi intervalli, per brevi mezzore, da quella febbretta comune a tutti gli uomini… 

— Hai così poca stima di te stessa? 

A queste parole, Myriam si rizzò sbarrando gli occhi; le sue narici ebbero un fremito. — Perché? 

— Perché non ti rendi conto della tua bellezza senza limiti, che m'incatena, che mi rende folle? 

Ella, da pallida, si fece rossa di piacere e scoppiò a ridere scrollando il capo senza guardarlo. 

— Parole! Sei uno scrittore, un artista, e sai trasfigurare le cose. Ma quanto durerà questo sentimento. Non verrà domani un'altra Zakya a farlo deviare?...

— No, Myriam, che importano tutte le altre donne con le quali ho cercato stordirmi per non lasciarmi sopraffare dalla passione? 

Si alzò e le andò accanto. Dalle imposte socchiuse della finestra che dava sul patio entrava una luce discreta. Si udivano dalle stanze attigue rumori di stoviglie e fuori, dalla strada di solito silenziosa, un tonfare molle e continuo di passi di grosse bestie transitanti dinanzi alla casa. 

— Myriam — le disse Bruno prendendole il capo tra le mani — tu non mi hai baciato mai bene. 

— Bugiardo! 

— Mai come io avrei voluto. Ti ricordi quando mi ricambiasti col frustino? 

— Questi uomini che non intendono mai nulla! Non capisci che avevo paura di me stessa, di diventare troppo debole fra le tue braccia? 

Egli la strinse, allora, fremendo di piacere e d'orgoglio, e le cercò ostinato la bocca riluttante che avrebbe voluto appagarlo baciandogli leggermente le gote, la fronte, i capelli. Ma Bruno riuscì a impossessarsi delle labbra rosse e carnose e le premé a lungo con le proprie. E si succhiarono l'anima, ingordamente, finché ella si liberò, alzandosi, esaltata. 

— Mi fai morire! — gli disse, tutta stravolta in faccia. Poi gli abbandonò il capo su una spalla. Egli le sussurrò, in un soffio: 

— Devi essere mia! 

— No. Mi hai fatto venire qui per questo? 

— Sì! 

— E se, dopo, tu non mi amassi più? 

Bruno rispose con vivacità: 

— Che stima hai di me? Mi supponi capace di questo, dopo avere avuto per la prima volta, tutta e solo per me, la donna che adoro e che deve diventare mia moglie? Dopo che essa mi abbia fatto il primo dono di se stessa, il più ambito?... il più divino, Myriam! Quel primo dono io voglio da te, oggi, qui: in modi nuovi e diversi dai soliti, perché sia meraviglioso; degno di me e di te! 

Essa trasalì tutta a queste parole e gli si strinse maggiormente, ansimando. Passò un silenzio. Fuori si udivano sempre appressarsi, trascorrere e lontanare quei tonfi pesanti e frequenti di quadrupedi, a volte così numerosi e forti che pareva passassero sulle loro teste. Si udivano anche grida gutturali, stente e dilatate, come gonfie d'aria aperta e di calura. 

— Il più divino — ripeté Myriam macchinalmente. — E' per te tutto lì, Bruno? 

— Tutto forse no, Myriam; ma molto. Certo è una delle cose più grandi che io mi attenda dalla donna prescelta per essere mia per la vita... Non lo credi anche tu? 

Essa, sempre stretta al suo collo, rispose in un soffio, dopo un momento: 

— Sì. 

Poi sollevò il capo. Era pallida. Disse: 

— Forse sarà tardi. Ho promesso di ritrovarmi stasera a Gabes. Battista potrebbe cercarmi... 

— Andremo tra qualche ora — rispose Bruno, deciso. — Voglio venire anch'io a Gabes. Non m'importa più di restare qui. Che ci faccio se tu non ci sei? Voglio starti vicino. 

— Andiamo allora — e Myriam si mosse per uscire. 

— Così presto? No. E quello che ti ho domandato? Ce ne andremo più tardi. Aspettami, vado a dire ad Ahmed di preparare i cavalli e i nostri bagagli per partire. 

E con un nuovo bacio, fremente di attesa della prossima felicità, la lasciò. 

*** 

Nel patio s'imbatté nella serva israelita, carica di stoviglie rigovernate, alla quale domandò di Ahmed. Essa gli rispose alcune parole incomprensibili nel suo dialetto, ma con un cenno del mento verso la porta. Bruno proseguì, e nei pochi passi che fece per uscire, commentò mentalmente il suo colloquio con Myriam e lo trovò stentato e teatrale. Disapprovò le proprie frasi, le ultime, alle quali aveva dato senza volerlo una tinta alquanto drammatica, fuori luogo. Ma anche le risposte di lei erano state curiose. Udì ancora, e ci fece caso, quel vasto calpestio di bestie grosse, ora digradante, come felpato. 

S'affacciò alla porta, dirimpetto alla quale sorgevano tre palme, le estreme dell'oasi, e non scorse Ahmed. Lo chiamò a destra e a sinistra, lo cercò dentro l'automobile di Myriam, lì ferma, chissà vi fosse entrato a dormire o a curiosare. Non c'era. Guardò di nuovo attorno verso levante e, tra la polvere che sollevavano e che si spandeva pel cielo, scorse le grosse bestie passate poc'anzi, passate anzi ininterrottamente per circa mezz'ora. Erano cammelli carichi, velati dal polverio e dall'afa, molti, moltissimi, innumerevoli, scortati da uomini a piedi, vocianti. Un dubbio lo assalì, una certezza! Gli parve vedere con loro un arabo a cavallo: Ahmed. Corse allora, senza esitare, col cervello in tumulto, il fiato grosso, chiamando: 

— Ahmed! Ahmed! 

Ma erano lontani e non potevano udirlo. Corse ancora più affrettatamente, per tre o quattrocento metri, risoluto a fermarli ad ogni costo; finché, col cuore che pareva gli si spezzasse nel petto, si soffermò madido di sudore per chiamare di nuovo: 

— Ahmed! Ahmed maledetto! 

Credette intravedere tra il velo della polvere e il barbaglio dei suoi occhi che Ahmed o il creduto tale si voltasse per fargli segno d'aspettare. Ma in quel momento, dietro di lui, proruppe un rombo scoppiettante di motore. Si volse: l'automobile di Myriam si moveva lentamente, sobbalzando e ondeggiando sulle dune, voltava e, accelerando, partiva in direzione opposta. Come in un sogno o in un incubo, pareva leggera leggera, scivolante quasi immaterialmente sulla sabbia colore dell'aria e nell'aria colore della sabbia. 

— Myriam! — urlò. — Dove vai? 

Ma la sua voce gli fu respinta in faccia dal vento, ricacciata in gola e nelle orecchie, beffardamente vacua e strozzata. Corse di nuovo, ma verso la casa, stavolta, impacciato e afferrato sino ai malleoli dalla sabbia, anch'essa avversa e nemica, sentendosi i piedi enormi e le gambe sottili, fuscelli pieghevoli che lo reggevano a stento e minacciavano di rovesciare a ogni passo il peso soverchio del suo capo nebuloso, del suo petto gonfio e manticiante. Giunse finalmente. Sulla porta stava l'ebrea, a guardarlo appressarsi, esterrefatta. 

— Dov'è andata quella? — le ruggì e stese le mani tutte tendini, col gesto di fare a brani. La donna cacciò un grido e fuggì verso il villaggio. 

Bruno girò per la casa, ritornò dove avevano fatto colazione, sul tavolo trovò un foglietto staccato da un taccuino e vergato di poche parole a matita: 

«Tu non mi ameresti più. Ho paura!» 

Si buttò a sedere, asciugandosi la fronte e il viso con le mani. Non era che quello, dunque? Che cosa tragica e terribile aveva temuto? Una beffa spaventosa. Come quella di Ahmed che fuggiva insieme con la carovana dei contrabbandieri. Ahmed, al quale egli aveva salvato la vita, ma che evidentemente preferiva gli uomini dei suo paese a lui. Tutto alla malora in un minuto! Ma Myriam no, bisognava non perderla, correre subito a raggiungerla e rassicurarla. Forse egli era stato troppo impulsivo: un bruto! 

Si alzò in fretta, si deterse ancora il sudore e la polvere con un tovagliolo preso sulla tavola, e si accorse di Sahib che lo guardava inquieto, seduto sulle gambe posteriori, di fronte a lui. 

— Che c'è? — gli chiese. 

Il cane si rizzò, uggiolò, dimenando le anche. 

— Dov'è andata Myriam? 

Sahib latrò slanciandosi fuori, ritornò tutto fremente, alzando volta a volta i piedi e invitandolo a muoversi con cenni del capo aguzzo. Egli mise a tracolla il binocolo e la Kodak, quasi calmo, pose nella tasca destra dei calzoni la rivoltella e corse alla stalla, ove Ayesha l'accolse con un nitrito. La sellò, trascurando di stringere bene la cinghia sotto il ventre, la montò. Il cane si precipitò abbaiando sulle peste dell'automobile, Ayesha lo seguì al galoppo. 

Accecamento della sabbia turbinante nello scirocco, rovente come lapilli di vulcano! Egli si lasciava portare curvo sul collo dell'animale, a testa bassa, senza veder nulla. Ma Sahib, infallibile staffetta, precedeva sicuro sulle ore lasciate dalle ruote della macchina e il rombo del motore giungeva distinto ad ogni buffata di vento. Distinto, ma sempre più lontano: essa correva più della giumenta; si rischiava di non raggiungerla a tempo. 

— Ayhè! Ayhè! — gridava Bruno. E a quel grido Ayesha volava, ventre a terra, gareggiando con Sahib indiavolato, meraviglioso a vedersi. «Avete un ottimo animale» aveva detto Sidi Ibrahim. Sidi Ibrahim... Sidi Ibrahim. «Un uomo dinanzi alle cose eterne vale tal volta più di una nazione». Egli valeva infatti più di tutti i suoi arabi, e di tutti gli ebrei: egli, giusto un arabo, un nemico! Mentre quegli altri arabi ed ebrei e nemici compivano allegramente il loro piano e forse stavano per raggiungere Zuara a dispetto delle immaginarie e immaginose rodomontate di lui, di Bruno. E dire che quelli, specialmente, i contrabbandieri, erano lì, quasi a sua portata di mano, senza che egli avesse potuto far nulla per fermarli, per annientarli, come aveva fantasticato. Sarebbe bastato poco, in fondo: andare, la stessa notte, al loro attendamento, a tagliare i garretti a tutti i cammelli; oppure, carponi, senza farsi sentire, con una latta di benzina e una miccia, dar fuoco alle tende e alle salmerie. Invece Ahmed traditore aveva certamente dato l'allarme, e quelli forse ora lo inseguivano, erano certo alle sue calcagna, nascosti dal nembo di polvere che Ayesha si lasciava a tergo. Eccolo qui ora, lui, Bruno Soveria, dietro una donna, andando come una lumaca nei solco della dannata automobile che fuggiva come un razzo, che già non si udiva più. Ma si, correre, correre (non correvano piuttosto le dune, onde gialle, attorno a lui?) pur di raggiungere quella maledetta creatura che gli aveva messo il fuoco nel sangue per ridersene, per canzonarlo come ave- va fatto fin dal primo incontro! Raggiungerla a qualunque costo, mentre ella tenterebbe invano di aumentare la velocità della macchina, e strapparla via pei capelli, caricarsela in sella, ritornare indietro, anche contro gli arabi che certamente lo rincorrevano! 

— Ayhè! Ayhè! 

Nell'inseguimento disperato, Sahib e la giumenta avevano abbandonato il sentiero e correvano ormai all'impazzata sulle dune, quali basse e convesse, quali altissime. Una di queste improvvisamente spalancò dinanzi a loro, quasi a perpendicolo, un abisso. Sahib, trascinato dalla propria furia, vi ruzzolò aggomitolandosi; Ayesha si soffermò improvvisamente, impalata sulle quattro zampe. Bruno saltò di sella, balzò sulla testa dell'animale, fu proiettato nel vuoto. Uno schianto, una detonazione, un colpo di frusta d'acciaio tagliente sulla coscia destra, polvere, precipizio, caduta di un cielo pesante sul capo, e buio... 

*** 

Ritornato in sé, si ritrovò disteso su un franco, nella sabbia. Sahib, ansimante e un po' malconcio, si leccava mogio mogio la pancia. In alto, sulla duna da cui egli era precipitato, Ayesha allungava e scoteva il collo: pareva lontanissima. Nella caduta si era contuso e lacerato il labbro inferiore, che sanguinava e bruciava. Ma un più vivo bruciore egli avvertì alla coscia destra. Guardò: il pantalone era bruciacchiato e lasciava vedere le carni, solcate da una lunga ferita sanguinolenta e ustionata ai margini. Provò ad alzarsi e riuscì a reggersi in piedi. Ormai, però, la possibilità di raggiungere la fuggitiva era finita. Nessuna orma più dell'automobile sulla duna; l'orma soltanto del suo corpo che vi aveva giaciuto, ma che ora il vento a poco a poco cancellava, scomponendo la sabbia. 

Lo stesso colpo di rivoltella più in su, ed egli sarebbe rimasto lì per sempre forse, in quella solitudine spaventosa, ove mai nessuno probabilmente sarebbe venuto a cercarlo. 

Si arrampicò faticosamente su per la duna alta, raggiunse Ayesha, la rimontò soffrendo in modo atroce nella ferita. La cavalla comprese il suo male e lo riportò sul sentiero dolcemente. Anche Sahib si pose a fiancheggiarlo piano e dimesso, torcendo di tanto in tanto il capo a guardarlo, con occhio di moderazione. 

Tutto alla malora! Tutto alla malora! Beffato, deriso e ridicolo, l'eroe di un minuto; e per giunta con questa ferita che pareva piena di pimento, tanto scottava. La guardò più volte: era rossa, nerastra anzi, coperta di sangue coagulato, simile a quello del catino sotto il montone in casa di Ibrahim. Non gli mancava, ormai, che morire di cancrena per quella ferita in mezzo al deserto, e tutte le sue imprese, le sue grandi avventure si sarebbero concluse in quel modo tragico e buffo! A meno che non lo pensassero, in patria, ucciso eroicamente, in una gesta temeraria, dagli arabi o dai turchi... 

Improvvisamente sentì dietro di s'è un motore di automobile che appressava. Lo inseguivano, forse? Provò ad accelerare il passo di Ayesha; ma le scosse del trotto diedero acerbe trafitture alla sua ferita. Fu costretto a smontare penosamente, a fasciarsi alla meglio con un fazzoletto. Il sole declinava; a momenti avrebbe fatto sera. 

Mentre tentava, senza riuscirvi, issarsi di nuovo in sella, l'automobile lo raggiunse e si fermò. 

— Qu' est ce que vous avez, monsieur? — chiese una voce dall'accento straniero. 

Al volante stava un uomo di mezza età, con la cicia degli ebrei, vestito da chauffeur; dentro, due uomini, uno dei quali — quello che aveva parlato — biondo, distinto, maturo, parve a Bruno un conoscente. 

— Sono ferito. — rispose. 

I due uomini scesero premurosamente dalla vettura e gli si appressarono. Il biondo lo guardò, fece un gesto di sorpresa ed esclamò in un italiano un po' stentato: 

— Ma non è lei un segretario del consolato italiano di Tunisi? Sì, è proprio lei. Io sono Hans von Erhardt. Amico dell'Italia. 

Queste ultime parole sussurrò sorridendo all'orecchio di Bruno; poi con quanto gli rimaneva di sorriso sulle labbra, si volse a guardare il suo compagno muto e immobile, che evidentemente non comprendeva, ma che, fatto un breve gesto evasivo, rimontò in macchina. Bruno ricordò di avere sentito nominare quel tedesco, un informatore segreto, che faceva il doppio giuoco a favore dell'Italia e a favore della Turchia, ma principalmente a favore proprio, poiché cavava denaro da una parte e dall'altra, ricambiando con frottole non sempre intelligenti. 

— Venga, venga in macchina con noi. Oh, non tema per i suoi ammali. Belle bestie! Legheremo le redini della cavalla alla vettura, e andremo piano, perchè possa seguirci. Sicuro, è ferito… una brutta ferita! Ma come è stato? 

La vettura riprese il cammino. 

— Lei mi ricorderà al signor console generale, — disse ancora von Erhardt sorridendo, simpatico e ambiguo — dirà... Ma, dunque, come è stato? 

Bruno avverti un grande benessere, comunicatogli da quell'onda di cordialità; ma pensò di non raccontare i fatti suoi a uno straniero. 

— Alcuni arabi m'inseguivano... 

— Oh, che mi dice?. — esclamò von Erhardt di soprassalto — sapevano forse che lei è italiano? che è funzionario, anche?... Dio santo, è grave! E hanno sparato contro di lei? Racconti, racconti… 

— Un colpo di rivoltella, — proseguì Bruno esitante — sono caduto da cavallo... 

— E l'hanno creduto morto! — concluse il tedesco — Sicuro! sicuro! Ma è una cosa gravissima! 

— Non ne parli, la prego. — raccomandò Bruno, preoccupato. 

Rovesciò il capo sulla spalliera, chiuse gli occhi e tacque. Ma sentì i suoi soccorritori parlare animatamente fra loro in una lingua che non gli parve tedesca e, un momento, accennare anche una breve risata. 

Era già buio quando entrarono a Gabes. Erhardt sempre premurosissimo, propose: 

— Lei non può certo in queste condizioni andare in un albergo; Gabes manca di ospedali e di cliniche. La condurremo al consolato italiano, da Alberto Disegni, conosce? l'agente consolare… lì sarà tra amici. 

Bruno si sentiva la testa pesante e vedeva le cose come in uno stato di dormiveglia. La ferita bruciava, il labbro contuso era gonfio e palpitante; e attorno caldo soffocante, sentore acuto di benzina, radi lumi che entravano ora da uno sportello e ora dall'altro con ombre d'alberi e di case, fumi di fegato arrostito, qualche voce gutturale e querula... Ma in quale lingua parlavano Erhardt e il suo compagno bruno? Aveva quasi le stesse aspirate dell'arabo; ma arabo certo non era. 

La vettura finalmente si fermò dinanzi al cancello. Una facciata bianca, siepi nere, 

— Ehi, — gridò Hans von Erhardt — chiamate il cavaliere Disegni... c'è qui un suo collega di Tunisi, ferito... E' stato ferito dagli arabi!... Presto!

 
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